Meglio sbagliare per troppa libertà.

« Non è detto che l’intollerante, accolto nel recinto della libertà, capisca il valore etico del rispetto delle idee altrui. Ma è certo che l’intollerante perseguitato ed escluso non diventerà mai un liberale« , diceva il caro, vecchio Norberto Bobbio.

Si è parlato tanto di quel fascista da stabilimento. Quel tipo che ha approntato una spiaggia, anzi no, uno “stabilimento balneare” a Chioggia con la paccottiglia (mi scusino gli estimatori) del Duce (con D maiuscola e anzi un po’ tutto maiuscolo). Proclamando cose così: qui non vola una mosca, qui non c’è una cartaccia per terra, qui non vogliamo gentaglia (gentaglia vuol dire: drogati pederasti negri. E pure ebrei, dai). Mettendo cartelli secondo me un po’ oscuri, ma dal tono inequivocabile, del tipo: “la legge della giustizia nasce dalla canna del fucile”. Ma cosa vorrà dire? La storia della canna del fucile, va bene, è chiara.

Del resto un tempo, da tutt’altra parte politica, si diceva: democrazia è il fucile in spalla agli operai. Ma “la legge della giustizia”? Boh. Sempre lui, il fascistone balneare, ha detto che quella è casa sua (invece no, sbagliato: è suolo pubblico) e qui comanda lui e ci fa quello che vuole.

Lo stabilimento balneare di Chioggia

Da lì tutta una discussione senza fine sull’opportunità di proibire, per legge, questo tipo di cose. A parte che, se vogliamo, le leggi già ci sono: la “riorganizzazione del disciolto partito fascista” è proibita dalla Costituzione, e l’”apologia” del fascismo fu proibita (pensate un po’) dalla buon’anima di Scelba. Ma non è quello il punto, secondo me. Del fascista da stabilimento cosa volete che vi dica? Che adesso andiamo lì e gli tiriamo le orecchie per decreto e gli togliamo le immaginette votive del Duce e sempre per decreto lo facciamo diventare buono e democratico e progressista?

Vi confesso una cosa. Mia nonna era innamorata, del Duce. Anni Trenta del secolo scorso (il Novecento). C’era il fascismo. Lei di politica niente sapeva. Lavorava in fabbrica, a Genova, nel quartiere di Sestri Ponente. Fatto sta che una volta viene il suddetto duce in visita. Cercano una dipendente per consegnargli un omaggio. Scelgono lei. Per bellezza, pare. “Ohssignore! Il duce? Mi sento male!”. In dialetto genovese perché l’italiano non lo sapeva. Poi prende il coraggio a due mani anzi quattro (le sue e quelle di suo marito, mio nonno. Che faceva tutto quello che gli diceva sua moglie). E dice, ebbene, io li darò, i fiori a Mussolini ! Arriva il momento fatidico.

“Mi ha guardato con quegli occhi, quello sguardo, fiero…”, raccontava. Ai figli peraltro tutti comunisti, che si guardavano tra loro come a dire, ohssignore è partita di nuovo con questa storia! E a noi nipoti. Secondo me pensava (senza dirlo) che Benito sì che era un uomo, fiero (mica come quella specie di debosciati mezzi pederasti dei suoi nipoti). Io sono cresciuto cullato dalla resistenza che era stata indubitabilmente la vittoria del bene contro il male.

Per me i fascisti erano i fascisti, chiuso il discorso. I cattivissimi, i nemici, gli stronzi, le belve sanguinarie che strappavano le unghie ai partigiani alla casa dello studente, in Corso Gastaldi, a Genova. Nel mio quartiere del ponente genovese (Pra’. Apostrofo e non accento: ci tengo.

A Pra’, per vostra informazione, pare sia nata Moana Pozzi. E se questo non vi basta, francamente per voi non so più cosa fare), nel quartiere genovese di Pra’, dicevo, c’era una sede del PCI dove andavo a giocare a ping-pong. In mezzo ai ritratti dei padri del movimento operaio e a libroni marxisti-leninisti alti così. Proprio vicino alla sede c’era un muro e su quel muro un’ombra, e quell’ombra era lui. Lui? L’ombra disegnava un profilo, un mascellone, un elmetto. “Quello è il ritratto del duce”. Mi dicevano i vecchi. Ma figuriamoci. Eravamo alla fine degli anni Settanta (sempre del secolo scorso). Erano passati più di trent’anni dalla fine del fascismo, della guerra. Come faceva a esserci l’ombra del duce? Ma figurati. “Era la casa del fascio”. Ah. “C’era il ritratto del duce, con l’elmetto”. Ecco. “I fascisti erano stronzi ma mica tutti rimbambiti. Qualcuno tra loro se l’era intagliata. Che prima o poi sarebbe finita. E allora, per il ritratto, avevano usato una vernice speciale”. Speciale? “Una vernice che torna su”. Cosa è una vernice che torna su? “Tu dai una bella mano di vernice anche due; non senza prima aver grattato ben bene il muro; e sparisce tutto. E il duce non c’è più! Ma la vernice originale ha impregnato i muri in profondità e con il tempo (la stronzetta) risale in superficie. Ed ecco che si riforma l’ombra. L’ombra inconfondibile porca miseria!”.

E allora per trent’anni c’era stato questo balletto. I comunisti che verniciavano il muro. E il ritratto che tornava su. Il morto che afferra il vivo, diceva Marx. E quell’ombra ormai appena percettibile. Che portava le morte stagioni. E la presente e viva. E il suon di lei.
Ogni volta che passo in quella strada, nel quartiere dove sono cresciuto, alzo lo sguardo e cerco l’ombra. Ma l’ombra della mia infanzia non c’è più. E io ora dubito del mio ricordo. “Senti ma ‘sta storia del ritratto del duce che tornava su…”. Eh. “Me la sono inventata io, segno di progressivo e grave rimbambimento, o risulta anche a te?”, ho chiesto a un mio amico di quei tempi. “Tu un po’ rimbambito effettivamente lo sei – dice il mio amico – Ma l’ombra, belin belino se c’era!”, mi ha risposto. “Belin belino” è espressione genovese per dire: ma certamente. Altroché. Eccome. Se vogliamo, è meno elegante di “ma certamente”, visto che “belin” all’origine indica l’apparato genitale maschile.

Comunque sia, l’ombra c’era stata. Così come, qualche anno dopo, verso la metà degli anni Ottanta, c’era stata una sera in cui ero andato al cinema, con una ragazza francamente mica male che però non me la dava ma manco a morire (questi però se vogliamo sono dettagli, rispetto alla storia universale). C’era il film “La notte di San Lorenzo”, dei fratelli Taviani (che hanno anche un nome : Paolo e Vittorio. Sennò pare che si muovano sempre in coppia e parlino all’unisono, e invece no, sono due entità distinte Come lo sono Assiri e Babilonesi, anche se a noi sembra che facciano un blocco unico, monolitico).

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Il film parla di una strage orribile, fatta dai nazi-fascisti durante l’occupazione. Uno dei fascisti porta sempre con sé il figlio, un ragazzo che deve avere quindici anni e che è proprio un autentico bastardo – con la bastardaggine cieca che a quell’età si può avere. Del film ricordo niente e ricordo due cose. Una donna, nei campi di grano, mezza nuda, grondante sudore nell’esplosione del sole, si passa una fetta di anguria sul corpo e poi la dà da mangiare all’uomo che la sta guardando.
Poi una battaglia nei campi e il fascista con suo figlio ragazzo. Il fascista si rende conto che non c’è più niente da fare e che lo ammazzeranno. Allora dice, più o meno: va bene, ammazzatemi, del resto è nella logica delle cose. Però mio figlio no. Ha quindici anni, cosa ne sa? Lui seguiva suo padre. (Mio figlio non sa nulla. Neanche il mondo, conosce. A quell’età, cosa vuoi sapere del mondo e delle cose? Non sai se sei uomo o donna, non sai se sei paglia o fieno, acqua o fuoco, terra o cielo. No, il fascista non dice tutto questo, sono cose che aggiungo io). Il fascista accetta di morire ma chiede pietà per suo figlio che non c’entra. Il suo avversario lo ascolta. Poi li ammazza tutti e due. Prima il figlio. Perché il padre lo veda morire, nei campi, sotto il sole, più o meno là dove la donna mezza nuda si passava l’anguria sul sudore. Il padre comincia a guaire – alla pari di un cane, alla pari di un cane (comme traînent les chiens, dice il poeta del tempo e della solitudine). Poi il partigiano finalmente ammazza anche lui (che ormai implorava la morte con tutta l’anima sua, anima sua nera sporca di fascista schifoso che piange il figlio morto come i genitori piangono i figli morti, e li piangono uguale, con lo stesso dolore, che siano bravi o che siano stronzi).

La notte di San Lorenzo di P. e V. Taviani

Sono uscito dal cinema e pensavo che avrei voluto che la mia amica facesse la stessa cosa con l’anguria (ma quella, niente, figuriamoci, altro che anguria), e poi non lo so cosa pensavo. Come era possibile che i buoni fossero cattivi? E come era possibile che, per un momento, il cattivo fosse stato vittima, madonna piangente addolorata ai piedi del figlio crocifisso, simbolo del dolore universale, dei chiodi piantati nella carne di Gesù santo cielo! Com’era questa cosa che “anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l’ha sparso”, come raccontava Cesare perduto nella pioggia (Pavese); e diceva (Cesare aspettando da sei ore il suo amore ballerina) che “ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione”. Per questo ogni guerra è una guerra (in)civile. I fascisti ci sono stati e ci sono e ci saranno pure un domani, non vi date pensiero (non esiste ritorno, altro mattino non verrà, dice Brecht).

Perché il fascismo è certamente una cosa brutta, bruttissima. Io nel fascismo ad esempio non sarei durato mezzo minuto, altro che saltare nel cerchio di fuoco! Quando ero a militare c’era un sottotenente o che ne so io che era un fascistone. Nel suo ufficio aveva una foto della tifoseria della squadra di cui era tifoso (il Toro) che mostrava uno striscione con su scritto: chi non ama la figa, il signore lo castiga. E mi aveva preso subito in antipatia, così, immediatamente.

Ci fosse stato il fascismo, io manco mezzo minuto avrei resistito. Però so che queste cose brutte sono nella natura umana, sono (anche) dentro di noi. Le cose brutte siamo noi. E so anche che persino nella indubitabile bruttezza del fascismo, c’è un mondo che vale la pena di andare a cercare. Non giustificare; non accogliere; cercare.

La caricatura del fascista da sbarco, quel deficiente (con rispetto parlando. Per i deficienti) di Chioggia, che spunta il sole canta il gallo e lui monta a cavallo. Il fascista raffinato, l’antimoderno che legge Evola e Réné Guénon, Carl Schmitt, abitato dalla rivolta contro il mondo moderno. Il fascista che vuole restare in piedi in un mondo di macerie. Anche se Evola mica ci stava ,in piedi; stava nel buio, nella sua casa di Roma, le poltrone di velluto spesso, l’odore pesante, lui con gli occhi grandi – lui “un razzista così sporco da non poterlo toccare con il dito”, lui che scriveva l’elogio dell’harem, del paradiso dei guerrieri che si apre subito per i morti in battaglia e le donne morte di parto; per lui il fascismo mica era una cosa interessante, non era altro che l’acqua di una palude a cui abbeverarsi in mancanza di meglio. Da Evola andavano i ragazzacci neri in processione. Andavano a conoscere il maestro, trovavano un omino.

Nel 1980, pochi mesi dopo la strage di Bologna, sulla televisione vi fu un reportage sul mondo dell’estrema destra. Nero è bello. Lo troviamo su Internet, se lo cerchiamo. Se cerchiamo l’innominabile e l’inconciliabile. Flavia Perina ha detto: per la prima volta in quel reportage qualcuno ci aveva raccontato come eravamo davvero. Lo aveva girato Giampiero Mughini. Che se ne era andato in giro negli ambienti destrorsi che più destrorsi non si può con l’impermeabile un po’ da fascio e gli occhiali e però dicendo, ehi ragazzi, io sono di sinistra, vengo da esperienze di sinistra, molto di sinistra.

Quel mondo nero esisteva. Non era mai morto. Non era morto nel campo di grano con il ragazzo. Da quel mondo viene la Flavia Perina che poi figuriamoci, si trovava a Linus in un covo di femministe ultra-di-sinistra e quando parecchi anni dopo ha diretto il Secolo d’Italia ne ha fatto un giornale bello e interessante e libertino. Lei (la Perina) dice che credeva (o crede, non lo so) in una destra “legalitaria, libertaria, all’avanguardia nei diritti e nello spirito civico”. Una destra che non esiste come forse non esiste una sinistra legalitaria, libertaria, all’avanguardia nei diritti e nello spirito civico. C’era Antonio Pennacchi che è stato un bel po’ (neo)fascista e poi comunista; al punto che c’ha scritto un libro su questa storia, “il fascio-comunista”, e poi dal libro hanno fatto un film e lo sapete cosa ha detto? “Mi hanno ammazzato un libro per questa storia: il Fascio-comunista.

Flavia Perina Nel film “Mio fratello è figlio unico” quei tre teste di cazzo degli sceneggiatori hanno dovuto fare i fascisti tutti cattivi e imbecilli. Perché non gli tornava che i fascisti potessero essere persone normali, come tutti gli altri”. Antonio Pennacchi faceva l’operaio e poi lo scrittore, perché è bravo, e politicamente poi adesso è una cosa vaga di sinistra, un po’ come molti di noi, una specie di socialdemocratico che non lo sa neanche bene lui, cos’è. L’ho incontrato e la prima cosa che mi ha detto è stata: ma tu con che squadra stai? Io sono per la Sampdoria; lui è della Roma. Ognuno è rimasto sulle sue posizioni. Era all’Istituto Italiano di Cultura a Parigi. Parlava un francese immaginario, e c’era un universitario parigino che si era studiato tutto e a un certo punto gli ha detto: ma lei che ha scritto in questa lingua popolare, dialettale, ovviamente si è ispirato a Pasolini? E Pennacchi ha smesso di parlare in francese e gli ha fatto gli occhiacci e gli ha detto: “Pasolini? Ma tu non hai capito proprio un cazzo”.

Io in quel momento l’ho amato, Pennacchi. Era fascista e non lo è più. Era fascista perché? Ma vai a sapere. Giulio Salierno è un tipo che è stato un picchiatore fascista negli anni Cinquanta (sempre del secolo scorso), voleva uccidere il famoso “colonnello Valerio” per vendicare Mussolini. È finito in galera, poi è diventato marxista e poi non lo. Era fascista anche lui e poi un giorno non lo è stato più.

Ha scritto un libro bellissimo, “autobiografia di un picchiatore fascista”, era stato pubblicato da Einaudi. Corrado Stajano ha detto: quel libro ci fa capire un mondo che per noi resta inconciliabile. Inconciliabile. Salierno era fascista pure lui. Lo era, penso, come qualcuno era, è comunista, anche se però gli orrori del comunismo e i gulag; come qualcuno era maoista (tutti quelli di Libération che ora fanno i fighetti: un covo di maoisti. E pure Sarte), anche se però gli orrori di Mao, ce li avete presenti gli orrori di Mao? Mao si faceva lavare a pezzi con grandi teli umidi, da uno stuolo di servitori tra cui giovani fanciulle tutte bianche. E tra un’abluzione e l’altra mandava a morte la gente. Siccome si lavava pochissimo, di tempo per far ammazzare le persone gliene restava. Eppure qualcuno era maoista. Così come io mi considero liberaldemocratico – anche se però certo, gli orrori del colonialismo, i bianchi che sfruttano i neri, e il genocidio dei pellerossa (grande cavallo di battaglia, peraltro, della cultura di destra-destra), e il capitalismo finanziario selvaggio e tutto il resto.

Noi siamo quel che siamo e non siamo mai perfetti. Io non vorrei mai un mondo fascista. Però proprio per questo, desidero che il mondo sia l’esatto contrario del fascismo: e cioè che sia un mondo dove le idee circolano libere. Anche quelle che a me non piacciono. Anche quelle schifose. . Anche a costo di prendere qualche rischio.

A me piace, come diceva Bobbio, che l’intollerante sia accolto “nel recinto della libertà” (che meraviglioso e inestricabile paradosso, che la libertà sia essa stessa “un recinto”, cioè una limitazione della libertà!). Penso che la legge debba sanzionare gli atti. Non le idee. Non i pensieri. Gli atti. Se io me la prendo con qualcuno perché è per me un “diverso” (uno con una “gueule de métèque, / de Juif errant, de pâtre grec”), la legge (com’è che diceva lo scemo fascista della spiaggia? La legge della giustizia? O la giustizia della legge? Boh) deve sanzionare il mio atto. Se io incito all’odio, alla violenza, be’, anche quell’incitare è di per sé un atto da sanzionare.

Ma se io sono tanto scemo da essere fascista, la mia scemenza non è reato. La mia scemenza è un diritto inalienabile che nessuna legge può negare. Lo so anche io che a così fare, tante volte si rischia di sbagliare. Su queste cose si sbaglia sempre. Come ti muovi, sbagli. Ma si può sbagliare come un censore (ahi!) e si può sbagliare come sbagliava Marco Pannella. Nel dubbio, io preferisco sbagliare come Pannella. Che con i fascisti (che in cambio della cortesia gli davano del frocio pederasta drogato) ci andava a parlare. Io preferisco sbagliare per troppa libertà. Il genere di sbagli che mi innamora.

Maurizio Puppo

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Maurizio Puppo
Maurizio Puppo, nato a Genova nel 1965, dal 2001 vive a Parigi, dove ha due figlie. Laureato in Lettere, lavora come dirigente d’azienda e dal 2016 è stato presidente del Circolo del Partito Democratico e dell'Associazione Democratici Parigi. Ha pubblicato libri di narrativa ("Un poeta in fabbrica"), storia dello sport ("Bandiere blucerchiate", "Il grande Torino" con altri autori, etc.) e curato libri di poesia per Newton Compton, Fratelli Frilli Editori, Absolutely Free, Liberodiscrivere Edizioni. E' editorialista di questo portale dal 2013 (Le pillole di Puppo).

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