La sinistra di lotta e la strumentale leggerezza del bene e del male.

La prima volta fu al liceo. Doveva essere il millenovecentosettantanove. O l’ottanta? C’era compito in classe di latino. Con una professoressa che ci faceva diventare matti, ve lo dico io, con tutte quelle declinazioni e coniugazioni da mandare a memoria. Io le studiavo e poi me le ripetevo tra me e me. Ogni tanto qualcuno mi diceva: ma che fai, parli da solo? Ma no, rispondevo: mi ripeto le declinazioni, tutto lì. E le coniugazioni, pure. Il ministro della Pubblica Istruzione si chiamava Valitutti.

Salvatore Valitutti. Partito Liberale, anzi, pielleì. C’erano le elezioni per il rinnovo dei cosiddetti organi collegiali, che dovevano dare rappresentanza a studenti, genitori e docenti. Chiamati anche “decreti delegati”, dal nome dei provvedimenti legislativi che li avevano istituiti, qualche anno prima. In teoria, vista così, ad occhio e croce: un progresso democratico.

E invece no: grave errore. I gruppi più di sinistra della scuola non erano d’accordo; per loro era una truffa, l’”ennesimo tentativo” (ogni tentativo è sempre l’ennesimo) di ingabbiare lo spontaneismo studentesco, di convogliarlo sui binari dell’odioso ordine sociale. E quindi chiamavano ad una scelta ben diversa: “astensionismo militante”. È in pratica un no complessivo ai Decreti Delegati in favore di forme di democrazia diretta all’interno delle scuole attraverso le assemblee i collettivi, ecc., scriveva Lotta Continua.

Da notare soprattutto quell’“eccetera”; non è che si potesse stare a perdere tempo in dettagli, l’essenziale era opporsi all’ “ennesimo tentativo”. Bisogna dire che questi compagni, dal loro punto di vista, avevano ragione nel non voler votare. Perché quando si vota c’è purtroppo il rischio forte (eh, purtroppo, c’è) che qualcuno lo faccia per un’idea diversa dalla tua. E quindi per un’idea sbagliata. Allora, per scongiurare tale rischio, e a favore della “vera” democrazia, era necessario boicottare le elezioni, e via, tutti in piazza. Alla manifestazione.

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Io e il mio più caro amico ci guardammo in faccia e decidemmo di andare. A favore della partecipazione, forti e profonde motivazioni politiche. Per citarne una: alla manifestazione, in pieno centro, lontano dalla nostra periferia, dovevano sicuramente essere anche tante compagne. Sai quelle ragazze scatenate dei movimenti, s-vestite da hippies, con uno sciarpone attorno al collo, che leggevano Kerouac e Allen Ginsberg, le menti migliori della mia generazione, affamate nude isteriche, che sicuramente ballavano mezze spogliate fumandosi uno spinello sulle canzoni di Jimi Hendrix.

Così diverse dalle nostre compagne di classe che svenivano per quelle orride canzoni melense dei Pooh o di Baglioni, tipo il passerotto non andare via, e che erano vestite che ve lo giuro, ma nemmeno l’esercito della salvezza. Il guaio è che le suddette compagne di classe (compagne di niente) pensavano più o meno la stessa cosa di noi maschi. Cioè ci consideravano degli insipidi, inutili imbranati, vestiti come dei salumi insaccati e buoni solo a parlare di calcio e, con rispetto parlando, a farci delle sonore seghe. (Tutte illazioni, lo si capisce).

E poi c’era il compito in classe di latino. “Quella stronza (la professoressa, ndr) mica oserà darci un brutto voto perché abbiamo saltato il compito per ragioni politiche, eh?”. “Non oserà, la stronza!”. Allora, via, dal cortile della scuola, con gesto di sfida ai crumiri schifosi che si accingono ad entrare in classe, “noi andiamo alla manifestazione!”.

Un pezzo di focaccia, l’autobus che dall’estremo ponente ci porta in centro, e via a seguire la folla. Io sarei stato anche vestito nel modo giusto, perché avevo l’eskimo, il giaccone con il cappuccio. Solo che invece di essere verde militare, come da copione alternativ-insurrezionalista, era blu. Era blu, mannaggia la miseria! Come si fa ad avere un eskimo blu? Ma ormai era andata. Pazienza. Ma eravamo così eccitati! Via tra la folla. “VALITUTTI VALI NIENTE / TORNA AL TUO PAESE / A FARE IL DEFICIENTE”. Era il grido di battaglia. Ad un certo punto passammo davanti al palazzo del consolato statunitense. C’era la bandiera stelle e strisce e allora non ti dico. Insulti, “BASTARDI, BASTARDI”, e buuuuuuuh, buuuuuuh, contro l’Amerika. Con la kappa. Che poi non c’entrava mica niente con la nostra scuola, l’Amerika. O invece sì. Perché dietro tutte le cose cattive, dietro tutte le ingiustizie, dietro ogni vecchio e nuovo fascismo, chi c’era? C’era l’Amerika! Per forza. Il governo voleva uccidere e distruggere ed umiliare la scuola, è per quello che noi eravamo lì. Noi. Mica per non fare il compito in classe di latino o per le ragazze. Era per difendere il diritto all’istruzione, minacciato da quel porco fascista di Valitutti (VALI NIENTE, TORNA AL TUO PAESE..).

Io non avevo la benché minima idea di quali fossero le effettive azioni e intenzioni di Valitutti, ma senza dubbio alcuno era un lurido porco e voleva distruggere la scuola e la cultura santiddio! E prendeva ordini dagli Stati Uniti che gli dicevano di distruggere la scuola perché “un paese che demolisce l’istruzione è già governato da quelli che dalla diffusione del sapere hanno solo da perdere”, aveva detto Italo Calvino, quanta verità in quelle parole!

E allora via, io e il mio amico eravamo lì, a difesa dell’istruzione e delle cose giuste, altro che per le ragazze mezze nude e saltare il compito di latino, ma che scherziamo. Che poi a dirla tutta il giorno era grigio e le ragazze vestitissime. E tutti gridavano le stesse cose. (Un corteo di gente che marcia levando il braccio e gridando all’unisono le stesse sillabe). VALITUTTI, VALI NIENTE…

Tornammo a casa un po’ più tristi. L’indomani la professoressa di latino ci diede otto. In due. Cioè 4 a testa. Ma prof, come fa a darci 4 se non c’eravamo, al compito in classe? Appunto, non c’eravate: quattro. Era una prof un po’ di destra. Fascista! La maggioranza degli insegnanti era di sinistra, anzi di ultra-sinistra. Lei invece era di destra. Come il professore di storia dell’arte, che anzi, non era nemmeno di destra, era proprio un fascista vero.

Veniva a scuola con un radio-registratore che diffondeva certe canzoni del Ventennio. Giovinezza, giovinezza, primaveeeeeera di belleeeeee-e-eeeezza. Noi lo odiavamo: quel fascista. E avevamo un piano per entrare in classe con una gigantesca bandiera rossa e intonare l’Internazionale davanti a lui. Qualcuno ci diceva che bisognava capirlo, poveretto. Sua moglie era morta durante il parto, che cosa brutta.

E lui aveva perso la testa, dicevano. Arrivava in classe vestito da ciclista, di tutto punto, e diceva: io sono il più grande conoscitore mondiale degli Uffizi. E cominciava a descriverci il museo fiorentino: entri e a destra hai quello e a sinistra quell’altro. E poi le tirate sugli autori reazionari che piacevano a lui: Chateaubriand e così via. E quelle sulle stragi dei comunisti e le foibe, “possibile che non si voglia ammettere che siamo tutti figli di Caino”, diceva. E una volta aveva detto che era andato a vedere il film di quel “geniale ebreo” che era Woody Allen, e non si sapeva bene come prenderla, la parola ebreo sulla sua bocca.

La prof di italiano invece era bionda e di sinistra ma che più di sinistra non si può. Una volta mi aveva visto con un libro di Jorge Luis Borges e mi aveva fulminato con lo sguardo. “Ah Puppo. Puppo, leggi Borges”. Sì prof. “Eh, Puppo. Fai bene. Puppo, bisogna leggere tutto, l’ho sempre detto io”. E si capiva che per lei Borges era un porco fascista, da non sfiorare nemmeno con il dito.

Non era mica vero, ma siccome Borges era poco impegnato politicamente, non aveva mai preso posizione contro le dittature sudamericane, e la sua metafisica non andava d’accordo con il materialismo storico, allora, per lei e un po’ per tutti era un fascista. Quella prof mi piaceva molto.

E mi piaceva anche quella di geografia, che portava dei bei pantaloni stretti stretti e che invece era di destra. Ma una destra liberale. “Comunisti, qui siete tutti comunisti”, diceva. “Ma è per ignoranza. Se domani, dico domani doveste scegliere dove andare a vivere, dove andreste? In America (lei lo diceva senza la kappa, ndr) o in Russia? Io dico in America. In America andreste, altro che comunismo!”. Io e il mio amico come degli scemi invece le dicevamo, no prof, in Russia! In Russia, partiamo domani!

Ma era solo per farle dispetto. Lo sapevamo anche noi che invece no, che tra la vita e la morte avremmo scelto l’Amerika, con la kappa e tutto. A lei, alla prof con i pantaloni stretti stretti, piaceva molto d’Annunzio. “Voi vi siete bevuti il cervello e vi hanno detto che d’Annunzio è un fascista e allora avete deciso che vi fa schifo. Ma è perché non capite niente. Siete degli asini. D’Annunzio non era fascista manco per niente, semmai era il fascismo che era dannunziano”. Cosa Prof? “Ma cosa vi racconto, troppo complicato per i vostri cervellini. Ed era un grandissimo poeta, d’Annunzio. Con quell’uso dell’ enjambement”, e calcava la voce sulla voce francese, per farci capire quanto ci considerava degli asini, il prodotto della scuola e dell’ignoranza di massa. L’ enjambement c’è quando in una poesia un verso inizia con una parola che logicamente appartiene al verso precedente.

Tipo Giacomo (Leopardi) quando dice: “Ma sedendo e mirando, interminati / spazi di là da quella, e sovrumani / silenzi”. Prof, lei non capisce niente, d’Annunzio era un fascista e un porco, gridavamo noi. Io in realtà d’Annunzio lo leggevo – ma di nascosto, per non darle quella soddisfazione.

Però mi volevano bene tutte e due. La prof di sinistra e quella di destra. Ed io a loro. Mi piacevano pure, ma erano donne troppo grandi per me. Scherzi, avranno avuto almeno trent’anni!

Sono tornato ad una manifestazione solo molto tempo dopo, quando il liceo era ormai un ricordo che cominciava a sbiadire e a perdersi nel nulla. All’inizio degli anni Novanta. Era scoppiata la prima guerra del Golfo. Saddam Hussein che invade il Kuwait e l’Amerika che zac! interviene. E lì si mobilitano le forze contro la guerra e per la pace. “Sei per la pace o per la guerra?“. Ma che scherziamo, per la pace. “Vuoi la pace? E allora vieni con noi! Facciamo vedere che tutti noi, se ci diamo la mano, siamo sorelle e fratelli e nessuno potrà mai dividerci per i suoi sporchi interessi, nessuno vuole quella cosa brutta che è la guerra, facciamogliela vedere ai cattivi!”. Chi sono i cattivi? “Che domanda. I cattivi sono quelli che fanno la guerra. Stupidone. Chi vuoi che siano?”. Quindi vuoi dire che è l’America che è cattiva? “Sì, l’Amerika”. Ma gli altri hanno cominciato prima, scusa. “

E allora anche gli altri sono cattivi! Contro Saddam Hussein e contro l’Amerika, contro questi porci che per il petrolio torturano e uccidono il popolo iracheno, le sorelle e i fratelli iracheni!”. Sono andato alla manifestazione. La bandiera amerikana esposta in un palazzo del centro non c’era più. Ma i cori sì. Contro gli yankees. Scusa, ma un coretto anche contro Saddam Hussein che tanto bravo non lo è nemmeno lui? Dopo, lo facciamo dopo, più tardi. Amerika, basta! Vergogna! E anche lì, il giorno era grigio e le ragazze sempre vestitissime, una roba da non credere. Altro che mezze nude. E tutti gridavano le stesse cose. (Un corteo di gente che marcia levando il braccio e gridando all’unisono le stesse sillabe). E son tornato a casa ed ero un po’ triste.

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Poi il tempo è andato e diciamo siam vecchi, ma cosa siamo. Alle manifestazioni non ci sono mai più andato. Ho visto, come tutti, le immagini di Roma invasa dalla gente nel 2002, Circo Massimo, e quel sentimento di essere in tanti, di essere tutti uniti, tutti dalla parte giusta. In quel momento, dall’altra parte c’era Berlusconi, e il suo conflitto di interessi, e il suo partito-azienda, e allora, diciamolo per dire ma davvero: era così facile e bello sentirsi assieme, “contro” la stessa cosa. “Ha visto quel ruffiano di Emilio Fede?”. “Non è un ruffiano, è uno squadrista, non bisogna sottovalutare ‘sta gentaglia”. “Ma ti rendi conto, un capo del governo che ha tre reti televisive e che occupa anche buona parte delle reti pubbliche, ma quando si è mai visto?”. E c’era Cofferati che benediceva la folla. E Nicola Piovani che suonava la musica dei film di Benigni, e Nanni Moretti che si accarezzava la barba e si apriva in un raro ma convinto sorriso, e sicuramente (non me lo ricordo ma c’era di sicuro) Fiorella Mannoia che cantava a piedi scalzi con accenti vibranti di sdegno e di passione, e insomma a farla breve: che c’è di strano, eravamo tutti là – anche io che non c’ero.

Tutti i buoni da una parte, e i cattivi dall’altra. Certo, lo sapevamo che in quella massa di gente c’erano anche opinioni diverse, insomma che c’erano diversi modi di essere buoni; ma si sa, “il pluralismo è la vera ricchezza”, e quella frase fatta permetteva di far finta di niente. In quella grande massa c’era chi aveva idee differenti sul lavoro e sulla vita e sull’amore, ma cosa importava? C’era il Male da sconfiggere, dall’altra parte, il momento era grave e occorreva mobilitarsi, unirsi. Per poi magari dividersi dopo.

Da quel giorno sono passati ancora e di nuovo molti anni, perché così fugge il tempo, irreparabile. La battaglia di allora, quella di Cofferati nel 2002, sull’articolo 18, giusta o sbagliata che fosse, a me non pare sia servita a molto. Se è vero che in un poco più di un decennio il problema del lavoro non si è risolto e tanti, tra i giovani, tra i ragazzi, non hanno mai avuto il problema di difendersi dal licenziamento, perché non hanno lavorato mai. Il mercato del lavoro è andato sempre più spezzettandosi come una specie di specchio andato in frantumi.

E adesso, in questi giorni, ho visto, come tutti, la CGIL tornare di nuovo in piazza, mobilitarsi contro un po’ tutta la politica del governo Renzi ma soprattutto per gridare no, no, nooooooooo al famoso jobs act del ministro Poletti. Tante persone, migliaia e migliaia, a lottare e gridare per un sacrosanto diritto. “Vuoi che una persona possa essere licenziata ingiustamente?”. Certo che no. “E allora devi venire con noi a manifestare!”.

E chi è che vuole che si possa essere licenziati ingiustamente?. ”Ma come chi, stupidone. Il governo Renzi! Il ministro Poletti!”. E via, ancora una volta: il bene che si mobilita contro il male, ragazzi si parte, si va a manifestare. E va bene. E non c’è niente di strano – ma non posso venire. Perché sapete, compagni, anche a me non piace l’idea che una persona possa essere licenziata ingiustamente.

Ma non posso venire, compagni, perché nel jobs act che voi tanto odiate non c’è mica solo quell’attenuazione dell’articolo 18 che, magari giustamente, vi suona odiosa. Ci sarebbero, a volerle guardare, anche tante idee forse nemmeno così male. Ad esempio, privilegiare, usando la leva fiscale, il contratto a tempo indeterminato rispetto a forme più precarie. L’estensione dei diritti di tutela della maternità a donne fino ad oggi escluse. La creazione di un’agenzia per l’occupazione che aiuti davvero chi ha perso il lavoro. Ammortizzatori sociali applicabili a tutti, belli e brutti. Tutte cose non solo giuste ma persino un po’ “di sinistra”, se vogliamo.

Che il sindacato peraltro non ha mai promosso né reclamato con la stessa forza con cui pure sa mobilitarsi, quando vuole. Ed allora non ci posso venire, compagni, in quella piazza. Non posso venire in una piazza in cui c’è il tenore a cantare e dire che lui è lì, con gli operai, a difendere il Teatro Lirico di Roma. Simbolo, per lui, della cultura minacciata dal potere (e, mi permetto di aggiungere, oltre che dal potere, minacciata pure da 40 milioni di euro di debiti, accumulatisi in pochi anni grazie ad esorbitanti aumenti di stipendio dei dirigenti, a faraoniche condizioni di rimborso delle spese, ad un organico più o meno numericamente doppio rispetto alle effettive esigenze, e altri piccoli dettagli di questo genere. Ma al tenore cosa gliene frega? Lui è lì. A manifestare contro il nuovo fascismo).

E non ci posso venire perché penso a quelle due mie manifestazioni, a Valitutti-vali-niente e agli insulti contro gli odiati Yankees e a quella voglia terribile che mi prendeva, mentre marciavo, di capire, di conoscere le ragioni dell’altro per meglio comprendere le mie, di distinguere. Di smetterla di gridare e cominciare a parlare.

Qualche anno dopo la mia prima marcia, quella di Valitutti, avrei trovato l’espressione esatta di quel mio disagio nelle parole della protagonista dell’Insostenibile leggerezza dell’essere, di Milan Kundera: Lei voleva dir loro che dietro il comunismo, dietro il fascismo, dietro tutte le occupazioni e tutte le invasioni si nasconde un male ancora più fondamentale e universale, e che l’immagine di quel male era per lei un corteo di gente che marcia levando il braccio e gridando all’unisono le stesse sillabe.

Maurizio Puppo

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Maurizio Puppo
Maurizio Puppo, nato a Genova nel 1965, dal 2001 vive a Parigi, dove ha due figlie. Laureato in Lettere, lavora come dirigente d’azienda e dal 2016 è stato presidente del Circolo del Partito Democratico e dell'Associazione Democratici Parigi. Ha pubblicato libri di narrativa ("Un poeta in fabbrica"), storia dello sport ("Bandiere blucerchiate", "Il grande Torino" con altri autori, etc.) e curato libri di poesia per Newton Compton, Fratelli Frilli Editori, Absolutely Free, Liberodiscrivere Edizioni. E' editorialista di questo portale dal 2013 (Le pillole di Puppo).

4 Commentaires

  1. La sinistra di lotta e la strumentale leggerezza del bene e del male.
    Caro Maurizio,
    abbiamo già avuto possibilità di confronto e colgo anche quest’occasione per tornare, in effetti, sullo stesso argomento.
    Il precedente motivo di confronto fu rappresentato dall’ampia discussione relativa all’attacco renziano alla sostanza dell’art. 18 dello Statuto; ad appena due anni dalla legge « Fornero ».
    In quell’occasione tu, giustamente, sostenesti l’opportunità di tutelare anche chi si assumeva il rischio di impresa, riconoscendogli il diritto di liberarsi di personale inadeguato o incapace o disonesto e, nel contempo, di tutelarsi contro i rischi di un ciclo economico negativo, operando dei licenziamenti senza l’assillo e la « spada di Damocle » del c.d. « reintegro ».
    Il mio intervento fu teso ad evidenziare che il diritto del tuo ipotetico datore di lavoro non era mai stato in discussione! Non a caso, rilevavo che le tue legittime preoccupazioni erano assolutamente « infondate » perché la vigente legislazione – relativa ai licenziamenti individuali, cui ti riferivi – già consentiva, attraverso:
    1) licenziamento per « giusta causa »;
    2) licenziamento per « motivi soggettivi »;
    3) licenziamento per « motivi oggettivi »;
    4) licenziamento per « motivi disciplinari »;
    5) eventuali licenziamenti « collettivi »;
    6) e, perché no, licenziamenti « discriminatori », quasi impossibili da dimostrare da parte del lavoratore;
    ampissime possibilità – ai datori di lavoro – di liberarsi di eventuali lavoratori « indesiderati »; per tutti i motivi da te indicati!
    Si trattava (quindi)solo di non consentire licenziamenti senza alcuna « giusta causa », perché questo – come tentavo di evidenziare – avrebbe posto i lavoratori in balia del datore di lavoro! Se ci si pensa solo un attimo, si tratta di una (semplice) scelta di civiltà!
    Nella tua replica, non « di merito », affermasti, tra l’altro, che “A parlare delle riforme del mercato del lavoro senza cognizione di causa, si corre Il rischio di parlar di nulla o per sentito dire ».
    Concordo pienamente.
    Mi consentirai quindi una battuta.
    Nel leggere il tuo articolo – allorquando sostieni di non aver partecipato alla recente manifestazione della Cgil perché « Nel jobs act che voi tanto odiate non c’è mica solo quell’attenuazione dell’art. 18 che, magari giustamente, vi suona odiosa, Ci sarebbero ….. » – mi è venuta spontaneamente alla memoria una frase citata, credo, da Plinio il vecchio: « Ne supra crepidam sutor judicaret »!
    Voglio dire, caro Puppo, che i contenuti del Jobs act e della « legge di stabilità » hanno tutt’altre caratteristiche rispetto a quelle che tu ritieni « giuste » e, addirittura, « di sinistra »!
    Anche questa volta, rilevo con semplicità:
    1) la leva fiscale cui fai tu riferimento per le future assunzione con contratto di lavoro a tempo indeterminato, esiste già dal lontano 1990. Si veda l’art. 8, comma 9 della legge 407/90. Quella di Renzi, quindi,è una “minestra riscaldata”. Una vera e propria « bufala », con l’aggravante che la legge del ’90 era rivolta a disoccupati e cassintegrati da almeno 24 mesi – più « bisognosi », probabilmente – mentre per la legge di stabilità sarà sufficiente che siano disoccupati da più di sei mesi. E’ del tutto evidente, a essere malpensanti, che i 6 piuttosto che i 24 servono per agevolare coloro che, senza più l’intralcio dell’art. 18, licenziano loro lavoratori per poi assumere disoccupati con la “dote”!
    2) anche relativamente agli ammortizzatori sociali , che tu ritieni “applicabili a tutti, belli e brutti”, devo, purtroppo, disilluderti. Evidentemente, ti è sfuggito che non sarà più prevista né a cassa integrazione per “chiusura aziendale” né quella per “procedura concorsuale”. Quella “in deroga” è prevista solo limitatamente 2015. C’è, è vero, un aumento dell’Aspi a favore dei lavoratori ultracinquantenni, ma forse non hai notato, caro Puppo, che è prevista la cancellazione dell’indennità di mobilità di lunga durata!
    3) tra l’altro, un altro particolare – che evidentemente deve essere sfuggito alla tua attenzione – è che in futuro la durata della nuova Aspi sarà direttamente proporzionale all’anzianità contributiva dei lavoratori disoccupati: Un criterio che non ha nulla a che vedere con l’esigenza di tutelare i lavori precari e perciò discontinui e di minore durata.
    4) in più, caro Puppo, hai rilevato che il Jobs act non spreca neanche una parola a favore dell’esigenza di ridurre le troppe tipologie contrattuali esistenti?
    5) inoltre, ritieni “giusto” e “di sinistra” rendere lecito il c.d. “demansionamento” dei lavoratori?
    6) consideri altrettanto legittimo avallare il sostanziale “spionaggio elettronico” sui posti di lavoro?
    Avevi proprio ragione: “A parlarne senza (cognizione di causa), si corre il rischio di parlar di nulla o per sentito dire”!
    Cordialmente, Renato Fioretti

    • La sinistra di lotta e la strumentale leggerezza del bene e del male.
      Caro Renato,

      io ho proprio la netta impressione che il « jobs act » non ti ispiri molta simpatia. Al punto da non lasciare aperto nemmeno il più piccolo spiraglio di discussione.
      Il che, abbi pazienza, non mi convince molto. Ti dico perché.

      Intanto, ad oggi il fatidico « jobs act » altro non è che una dichiarazione di principi generali, le cui declinazioni pratiche saranno definite più tardi. Quindi, dire ad ogni passo « è già così oggi, perché l’articolo comma non so che cosa della legge xxx lo prevede già », mi pare che non abbia senso, se non come come sfoggio di cultura su questo campo specifico. Limitiamoci a discutere, per il momento, dei principi generali, i soli che conosciamo; discuteremo la sensatezza delle loro applicazioni pratiche quando le conosceremo.

      Tornando appunto a questi principi generali. Tra questi, scusa se insisto, c’è la volontà (la volontà! D’accordo? Non c’entra il comma bis etc etc.) di favorire il contratto a tempo indeterminato rispetto ad altre forme contrattuali. C’è l’estensione della garanzia di maternità alle lavoratrici assunte con contratti precari. C’è il principio di una più forte rete di ammortizzatori sociali.
      Il fatto che tu sia contrario, radicalmente contrario, ad altri punti (l’attenuazione dell’articolo 18 o il demansionamento) non dovrebbe impedirti di valutare con maggiore serenità questi principi, queste intenzioni, che almeno sulla carta non fanno poi così’ schifo, no? Perché « fare di tutta l’erba un fascio »?

      Venendo poi a certi punti che ti fanno trasalire. Ad esempio, il demansionamento. Mi pare che il jobs act preveda – anche qui, per il momento solo a livello di principio generale – possibilità limitate (limitate) di cambiare mansione mantenendo lo stesso livello di retribuzione. Io personalmente ritengo che non solo sia giusto, ma persino necessario. Può capitare che una persona si ritrovi ad occupare un posto che non è adatto a lui o per cui le sue competenze sono insufficienti; oggi, di fatto, queste persone sono inamovibili. Poiché incompetenti per il ruolo che occupano, non possono più progredire; ma neppure (sacrilegio!) tornare a mansioni meno impegnative. Quindi ci sono persone che, secondo il celebre principio di Peter, trascorrono la maggior parte della vita lavorativa in ruoli per cui non sono adatte.
      Non solo. Una (limitata) possibilità di demansionamento permetterebbe inoltre a persone competenti e volenterose di accedere più facilmente a ruoli e posizioni che invece sono bloccate ad vitam aeternam dalla presenza di incompetenti o lavativi. Paura che le persone siano utilizzare per compiti non all’altezza delle loro competenze? Mah. Oggi accade più facilmente il contrario; cioè che dei cretini occupino posti di responsabilità, solo perché per uno scherzo del destino se lo sono ritrovato come dono del cielo e da lì in poi, non si può più cambiare nulla.
      Quanto alla cassa integrazione, il principio del jobs act mi pare condivisibile: è inutile applicare la cassa integrazione per aziende che chiudono. Il problema non è tenere in vita artificialmente, a spese ella fiscalità generale, le aziende che non hanno futuro, magari con il folklore annesso della processione guidata dal prete e del politico trionfante che dice « abbiamo salvato i posti di lavoro ». Il problema, secondo me, è assicurare sostegno al reddito e alla ricerca di impiego di chi l’ha perso, il lavoro, consentire alle aziende sane di riprendersi da momenti di crisi e a quelle nuove di nascere (soprattutto a quest’ultime!!!).

      Venendo poi all’art. 18, tu dici che già oggi le aziende possono licenziare senza problemi. Ma allora, se è vero, perché ci tieni tanto all’art. 18, visto che non serve a nulla? Dici però che è un « principio di civiltà ». In Francia, dove viviamo tutti e due, l’art. 18 non c’è. Ne deduco che viviamo in paese incivile. Ah no? E perché no? Sento già la replica. perché in Francia se sei licenziato becchi il sussidio di disoccupazione. Esattamente quello che si propone il jobs act, che a te pare una barbarie! Perché in Francia va bene fare così e in Italia non si può nemmeno parlarne? Non capisco. Perché?

      Concludo dicendo, caro Renato, che non credo che il problema sia, come lasci pensare nel tuo commento, la « competenza » tecnica sulla materia del diritto del lavoro (sulla quale,mi sembra, tu pensi di avere l’esclusiva. Te la lascio volentieri, nessun problema). Il problema è un po’ più politico. Questa è una riforma che esprime il punto di vista di una sinistra liberale: assicurare tutele e diritti ai lavoratori ma lasciare anche una certa libertà nel rapporto tra loro e i datori di lavoro. Tutelare il lavoratore quando perde il posto, non le aziende magari male amministrate. Capisco che questo punto di vista, quello di una sinistra liberale, ridimensioni il ruolo del sindacato, che perderebbe molto del suo potere di interdizione e di mediazione. Ma forse bisognerà farsene una ragione.
      Un caro saluto, maurizio

      • La sinistra di lotta e la strumentale leggerezza del bene e del male.
        Caro Maurizio,
        ho sempre detestato la presunzione e la supponenza; soprattutto quando, anche a cercarle con la lampada di Aladino, non vi si scorgono neanche le fondamenta minime del sapere e della conoscenza. Lungi da me, quindi, il convincimento di possederne, addirittura, l’esclusiva!
        Alle suddette ho preferito non la falsa modestia ma la consapevolezza. Per poter, in questo senso, operare tranquillo: ho studiato, studio e continuerò a farlo.
        Alcune questioni, in particolare, hanno occupato (e continuano a occupare) gran parte del mio tempo; tra queste, sicuramente, tutte le problematiche attinenti il “lavoro”.
        Ti parlerò con estrema franchezza.
        Naturalmente, considerati i contenuti della tua replica, non sprecherò altro tempo per tornare su tematiche che ritenevo di aver già illustrato con dovizia di particolari; anche con l’ausilio di precisi riferimenti legislativi.
        Perché, vedi, caro Massimo, nelle questioni sulle quali mi sono intrattenuto e rispetto alle quali hai poggiato la tua risposta, non c’è nulla, ma proprio nulla, da discutere rifugiandosi “in politica”.
        Quando si affrontano questioni di carattere specifico: cassa integrazione, tipologie contrattuali, art. 18, disoccupazione, ecc.ecc., esprimersi – come fai tu – in termini di “simpatia”, “serenità”, “lavativi” e “cretini”, non ha alcun senso; se non quello di dimostrare incompetenza ed incapacità di discutere il “merito” dei singoli problemi. Il jobs act e la c.d. “legge di stabilità” prevedono degli “indirizzi” – in materia di mercato del lavoro – rispetto ai quali è doveroso discutere essenzialmente in termini tecnici, affrontando la sostanza dei singoli provvedimenti.
        Questo, purtroppo – mi dispiace, ma è così – è un terreno nel quale il confronto è di tipo “specialistico”.
        La politica, soprattutto quando si affrontano argomenti dei quali non si conosce nemmeno l’ ABC, finisce per essere un alibi alla non conoscenza! Naturalmente, non sostengo che non sia necessario affrontare l’aspetto politico delle questioni; ma “buttarla sempre in politica”, evitando quelli che tu – erroneamente e semplicisticamente – ritieni essere “tecnicismi”, serve a coprire solo le proprie deficienze.
        Non riprenderò, quindi, alcun elemento della nostra discussione. Come già detto, la materia è tanto importante dal meritare un adeguato livello di confronto.
        Solo in ossequio alla verità, ti faccio presente di non aver mai definito una barbarie il sussidio di disoccupazione che si propone il jobs act. Si tratta di una tua considerazione – evidente conseguenza della tua scarsa dimestichezza con i “tecnicismi” – che non ha alcun riscontro con le mie affermazioni.
        Relativamente alla “civiltà”, a mio avviso legata alla sopravvivenza dell’art. 18 e da te – impropriamente – richiamata per il confronto italo/francese: perché non introdurre anche in Francia il divieto di licenziamento senza “giusta causa” – scusa il tecnicismo – piuttosto che cancellarlo (integralmente) in Italia? Ti rendi conto che, parlare di “civiltà”, tralasciando di allargare la discussione anche alle questioni che attengono alle diverse (singole) storie nazionali, agli usi, ai costumi, all’economia e alla struttura industriale e sociale, si corre l’unico rischio di affermare colossali “bufale”?
        Concludo regalandoti un consiglio.
        Considerata la tua incompetenza, non all’altezza per stabilire se la mia sia presunzione o, molto più semplicemente, prodotto di elementari reminiscenze scolastiche e frutto di buone letture, ti invito a leggere, – relativamente agli argomenti affrontati – qualche articolo di Luciano Gallino, Emilio Carnevali, Piergiovanni Alleva, Pietro Ichino e Tito Boeri; solo per citarne qualcuno.
        A, eventualmente, risentirci a letture ultimate.

        • La sinistra di lotta e la strumentale leggerezza del bene e del male.
          Renato, come sai, esistono specialisti della materia che rigettano la filosofia del jobs act (uno probabilmente sei tu, e mi tolgo il cappello), ma anche altri altrettanto specialisti che la abbracciano. Quindi come vedi la competenza specialistica non è una chiave discrimlinante in materia. Altrimenti tutti gli specialisti sarebbero sempre dello stesso avviso. Il diritto non è una scienza esatta, per cosi’ dire, declina principi che sono politici; cioè che rappresentano scelte sul modello di società. Devo anche dire che i tuoi toni mi paiono del tutto fuori luogo, preferirei che in questo spazio si riuscisse a discutere in modo più gqrbato e civile. Io propongo le mie opinioni e credo di avere il diritto di farlo. Tra i vari esperti che hai citato, peraltro, ve ne sono diversi le cui idee sono molto vicine a quelle del jobs act. Un saluto, maurizio

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