Corleone… Il mio paese sognato.

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Negli anni ’50, quando sono nato io, nel quartiere di San Giovanni, a Corleone, in Sicilia, ancora non c’era la luce elettrica. Si usava la lampada a petrolio. Credo di essere stato un figlio molto amato. Sicuramente molto desiderato, perché mia madre ci mise quasi quattro anni prima di restare incinta. Per quei tempi, un tempo « infinito », da far quasi pensare che non potesse avere figli. Lei, naturalmente. Perché allora, se non si avevano figli, la « colpa » era sicuramente della donna. Ma poi il « miracolo » avvenne e, nella casa di San Giovanni, da mio padre (un bracciante agricolo di 36 anni) e mia madre (una casalinga di 26) sono nato io, il figlio primogenito. Non senza qualche complicazione, comunque, perché a farmi nascere (la notte tra il venerdì e il sabato santo) non bastò la sola ostetrica, ma ci volle anche l’aiuto del medico, il dott. Peppino Alfieri. E, due anni e mezzo dopo, nacque anche mio fratello. Ricordo (é il mio primo ricordo in assoluto) che avevamo ancora la lampada a petrolio. Ho davanti agli occhi la sua luce posta sul comodino accanto al letto di mia madre. Sicuramente mi avranno detto « guarda, questo é il tuo fratellino », ma io ricordo solo quella luce fioca sul comodino in parte coperta dal corpo di mia zia, una donna imponente, che indossava una grande veste blu a pois bianchi.

La nostra casa era un « loft » di … 30-35 metri quadrati, nella parte alta del paese, a due passi dalla Torre Saracena e dalle Rocche di San Giovanni. Mio nonno materno, la sera quando andavo via da casa sua in braccio a mia madre, scherzando mi diceva: « Dove vai dove cantano i cucchi? (le civette) ». Attorno a casa mia, infatti, c’erano tante montagne. Ed anche prati dove giocare era un vero piacere. Guardavo ogni giorno la torre saracena in cima al castello Soprano e ne ero affascinato e intimorito. Con gli occhi della mia fantasia vedevo eserciti di soldati saraceni salire e scendere dal castello. A volte li sentivo « amici », nostri antenati. A volte li pensavo come invasori e nemici. Specie quando il mio pensiero andava al giovane Leone, che nell’800 fu costretto a fuggire da Corleone, prima in Sicilia orientale e poi in Calabria, per non cadere sotto il dominio arabo. Lì divenne monaco basiliano, prese il nome di Luca, morì ultracentenario, divenne santo (San Leoluca) e da secoli ormai è il patrono di Corleone. E la mia distanza dai presunti antenati arabi aumentava, se pensavo che nel 1237 Corleone era stata rifondata/ripopolata da una colonia di lombardi provenienti dall’Oltrepò pavese, autorizzati dall’imperatore Federico II. Paradossale per quanto possa sembrare, le radici dei corleonesi sono in « Padania ».

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Ma torniamo al mio « loft ». In un angolo c’era la cucina, nell’altro il posto per il mulo (un « santo » animale, con cui io giocavo passandogli sotto la pancia, senza che desse mai segni di insofferenza), nell’altro ancora il, diciamo così, soggiorno, e infine l’alcova. Io, fino alla nascita di mio fratello, dormivo nel lettone, in mezzo a mamma e papà. Poi in un lettino accanto al lettone, dove ricordo che stentavo molto a prendere sonno, perché la notte avevo paura di un grosso buco nero proprio davanti ai miei occhi. Qualche anno dopo avrei capito che quel buco altro non era che l’ingresso del soppalco, dove mio padre teneva la legna per l’inverno. Ma per molto tempo dovetti convivere con quella paura, di cui non parlavo con nessuno per il timore di essere preso in giro.

Quel « loft » non era un « lusso » che si permetteva la mia famiglia, ma la condizione in cui viveva la stragrande maggioranza delle famiglie corleonesi di quegli anni. La « rivoluzione » sarebbe avvenuta qualche anno dopo, con l’emigrazione di massa. Svuotò Corleone di migliaia di persone, ma la « arricchì » con i risparmi che i tanti emigrati mandavano alle loro famiglie. Anche mio padre emigrò in Germania e la prima volta che ritornò a casa, dopo quasi un anno, portò in regalo a me e a mio fratello gli zaini per andare a scuola e due grandi camion in plastica per giocare. Non avevamo mai visto nulla di simile. E un po’ ci sentivamo in imbarazzo con gli altri bambini, che i libri li legavano ancora con un elastico e giocavano con qualche cavallino di cartapesta.

Adesso, dopo più di mezzo secolo, cos’è Corleone per me? Forse un odore particolare, quello della pioggia che bagnava il fieno, quando – bambino – tornavo in paese in groppa al mulo, percorrendo viottoli e trazzere, al ritmo lento dei suoi passi. O forse l’altro odore, quello dell’acqua della Cascata delle Due Rocche, dove facevo il bagno, nudo, tanti anni fa, insieme ad altri ragazzi come me. O forse l’altro ancora, quello del sudore che colava dalla fronte del contadino, che mieteva il grano con la falce. O, infine, forse, l’odore della polvere che s’alzava nell’aia, dove lo stesso contadino col tridente provava a separare il grano dalla paglia.

Corleone per me è forse il sapore dei fichi d’India di cui andavo ghiotto da ragazzino, quando mio padre me li sbucciava con le sue mani dure e forti, risparmiandomi le loro spine. O forse anche il sapore della pasta con i finocchi e le sarde, cucinate da mia madre (e mai nessuno come lei!) il primo marzo, festa di San Leoluca, il padrono della città, il 19 marzo, festa di San Giuseppe, e il Venerdì Santo. O forse, infine, quello dell’estratto di pomodoro asciugato al sole su grandi tavole in legno (in dialetto, i scanatura), che mi divertivo a leccare col dito, facendo arrabbiare di brutto mia nonna e mia madre.

Ma Corleone è anche il ricordo di quell’asilo parrocchiale da dove scappavo dieci minuti dopo che mio padre mi ci lasciasse. « Resto se tu mi fai compagnia », gli dicevo. E lui, paziente: « Va bene, aspetta un attimo che vado a comprare una cosa e torno… ». Ovviamente non tornava più. Ed io me la davo a gambe fino a casa, beccandomi la punizione di mia madre, che mi toglieva le scarpe per impedirmi di correre e giocare sui prati. Meno male che poi arrivava sempre mia nonna a “salvarmi”. Rimproverava mia madre, mi metteva le scarpe e mi diceva: “Vai fuori a giocare, sangu miu” (“sangue mio”). Mi voleva tanto bene mia nonna. E mi viziava. Si era convinta, però, che « questo bambino scuola non ne voleva » e lo ripeteva spesso a mia madre, quasi per giustificare le mie ripetute “fughe”. Fu una delle poche previsioni che non azzeccò. Glielo dissi, ridendo, molti anni dopo, il giorno della mia laurea.

Corleone è il luogo del mio primo innamoramento. Lei era di Roccamena, un paese vicino Corleone. Avevamo 14-15 anni. Che fossi innamorato di quella ragazza l’aveva capito tutto il liceo. Persino lei. Ma io non avevo il coraggio di dirglielo. Un giorno, alla fine dell’ora di francese, me lo chiese lei: « È vero che sei innamorato di me? ». Una domanda a bruciapelo, che mi fece arrossire di vergogna. Le risposi « No », per paura che fosse lei a dirmi « Ma io non sono innamorato di te ». Una settimana dopo si era messa con un altro, facendomi schiattare di rabbia e di gelosia.

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Ma questi, in fondo, sono ricordi simili a quelli di tanti miei coetanei di tanti paesi e città d’Italia. Corleone, nell’immaginario collettivo, è diventata una cittadina particolare per le sue strade e le sue piazze costellate metaforicamente di tante croci, una per ogni morto ammazzato. Quelli degli anni ’50 non li ricordo. Ero troppo piccolo. Ricordo solo una sera d’autunno del 1958, mi pare che fosse l’8 settembre, quando mio padre tornò a casa raccontando trafelato che in una sparatoria a santo Rocco ne avevano ucciso tre. Poi cominciai a vederli io i morti ammazzati a Corleone. Ciccio Coniglio, in corso Francesco Bentivegna, Pietro Lisotta in via Adriano Canzoneri, Peppino Scalisi in piazza Giuseppe Vasi. E tanti altri, troppi. Grazie al padrino di celluloide e (più ancora) ai padrini in carne ed ossa, Corleone era diventata « Tombstone », pietra tombale. E i corleonesi tutti complici o succubi della mafia. Ricordo che io e altri giovani come me ci sentivamo stretti in un cerchio di paura e di vergogna: paura della mafia e vergogna di essere considerati suoi complici o succubi. Provammo a spezzare quel cerchio, gridando all’Italia e al mondo che a Corleone c’era la mafia, ma anche le forze che la volevano combattere. Riscoprimmo l’antimafia sconosciuta di Corleone, quella antica quanto la mafia, animata da personaggi come Bernardino Verro, Luciano Nicoletti, Andrea Orlando, Giovanni Zangara e Placido Rizzotto. Tutti dirigenti e militanti del movimento contadino, e tutti assassinati dalla mafia. Insomma, “l’altra Corleone”, quella di cui andare orgogliosi e fieri.

Ma questo ritrovato orgoglio e questa rinnovata fierezza non piacque alla mafia. Ricordo le fiamme e l’odore acre del fumo della notte tra il 16 e il 17 aprile 1991, quando la redazione del giornale « Città Nuove », di cui ero direttore responsabile, venne danneggiata da un incendio. Una sensazione di paura e di rabbia impotente, quando mi telefonarono i carabinieri. Per la prima volta ebbi forte la sensazione che Corleone, la mia città, mi fosse ostile. Una sensazione dolorosa, perché la città dove si nasce la si considera un po’ una madre. E sentirsi traditi dalla propria madre è terribile. Volevamo sostituire la subcultura dell’omertà e del silenzio con la cultura della parola scritta e parlata. Ma lorsignori ci « spiegarono » che a Corleone era rischioso. Persino il maresciallo dei carabinieri mi disse: « Glielo avevo detto di non scrivere certe cose! ».

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Non finì lì. La mia « disobbedienza » civile continuò. E la notte tra il 28 e 29 gennaio 2006, mi ricordarono ancora quant’è pericoloso « disobbedire » alla mafia e ai mafiosi: la mia macchina fu completamente distrutta dalle fiamme. E stavolta sentii ancora più forte l’ostilità di Corleone. Di sera calpestavo le pietre delle strade per tornare a casa e quel rumore mi feriva le orecchie. Guardavo le luci dei lampioni e mi ferivano gli occhi. Ebbi forte la tentazione di scappare via con la mia famiglia. Mi sentivo « nudo », scoperto, alla loro mercé. Per fortuna scattò forte la solidarietà dei cittadini onesti a Corleone e in Italia. E sono ancora qui ad indignarmi e a lottare, facendo finta che Corleone sia Stoccolma e la Sicilia la Svezia.

Lo facevo da piccolo, ma anche adesso guardo spesso la Torre saracena. Anzi, un giorno o l’altro vi salirò nuovamente per vedere dall’alto lo straordinario paesaggio di Corleone: i tetti, i monumenti, le strade, il verde. E poi i paesi del circondario: Contessa Entellina, Roccamena, Camporeale, San Giuseppe Jato, San Cipirello. E persino il mare di Trapani, nelle mattinate in cui il cielo è particolarmente sereno…

Doveva essere questo il paesaggio che vedevano i soldati saraceni di guardia sulla Torre. Da lì si dice che, col sistema degli specchi, comunicassero con tutti i castelli di Sicilia, dal mar Tirreno al mar Mediterraneo. Un sistema ingegnoso, com’erano ingegnosi gli arabi. Peccato o meno male che siano stati sconfitti da Federico II? Peccato o meno male che Corleone sia stata rifondata da una colonia di lombardi provenienti dall’Oltrepò pavese? Boh…

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Sono decisamente orgoglioso, invece, della partecipazione dei corleonesi alla guerra del Vespro, nel marzo del 1282. Corleone fu la seconda città dopo Palermo a insorgere contro gli Angioini. Li cacciarono via perché non sopportavano più i loro soprusi e le loro angherie. E poi scesero con le armi a Palermo per portare il loro aiuto al senato palermitano, che definì Corleone « soror mea », con tutti i vantaggi economico-commerciali che questo status comportava. D’allora c’è un filo molto robusto che, nel bene e nel male, lega Corleone a Palermo.

Nel male, sono noti, infatti, i legami tra la mafia palermitana e quella corleonese (Michele Navarra, Luciano Liggio, Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, etc.). E altrettanto noti sono i legami tra la mala politica delle due città (Vito Ciancimino, Salvo Lima, Giovanni Gioia, per citare i più famosi). Meno noti, nel bene, sono i legami tra il corleonese Bernardino Verro e il palermitano Rosario Garibaldi Bosco, primi dirigenti del movimento dei Fasci dei lavoratori di fine ‘800. O quelli tra il prizzese-corleonese Nicolò Alongi e il palermitano Giovanni Orcel, dirigenti del movimento operaio e contadino nel primo ventennio del XIX secolo.

Per la città di Palermo nutro lo stesso odio-amore che ho per Corleone. Mi piace il suo mare e Monte Pellegrino, che magari non sarà il più bel promontorio del mondo, come lo definiva Goethe, ma è comunque bello. Mi piace passeggiare in via Libertà, come ho letto che faceva Bernardino Verro « nelle molli serate d’inverno » dei primi del ‘900. Ma mi piace farlo anche nei suoi vicoli multietnici e pieni di vita. Mi piace il gelato « da Ciccio » e il panino con le panelle, ovunque. Odio, però, la Palermo delle tante croci. Quella di piazza Marina, dove nel 1909 la mafia assassinò Joe Petrosino, il primo poliziotto italo-americano che ne intuì la pericolosità. Quella di via del Giusino, una traversa di Corso Vittorio Emanuele, dove nell’ottobre 1920 fu assassinato Giovanni Orcel. E poi quelle di piazza generale Turba, dove il 30 aprile 1982 furono trucidati Pio La Torre e Rosario Di Salvo. Quelle di via Isidoro Carini, dove il 3 settembre dello stesso anno furono uccisi Carlo Alberto Dalla Chiesa, Emanuela Setti Carraro e Domenico Russo. E, per finire (speriamo davvero e per sempre), quelle sull’autostrada nei pressi di Capaci e in via Mariano D’Amelio.

In fondo, questa è la condanna di tanti corleonesi e siciliani « normali ». Vorrebbero normalmente sentirsi legati alle loro radici, ma non ci riescono. Almeno non ci riescono del tutto, perché qualcuna vorrebbero reciderla. Ci provano, ci stanno provando da anni, con le « primavere » e forzando le albe. Ma vengono poi ricacciati indietro. E devono ricominciare daccapo, condannati, come moderni Sisifo, a ripetere faticosamente lo stesso cammino…

Dino Paternostro
Segretario della Camera del lavoro di Corleone
Responsabile del Dipartimento “Legalità” della Cgil di Palermo

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1 COMMENTAIRE

  1. Corleone… Il mio paese sognato.
    Uno spaccato autobiografico interessante e stimolante, per tutti coloro che cercano nel loro piccolo di ricostruire una città diversa , e riscoprire il volto eroico e affascinante di tanti uomini e donne che hanno combattuto e combattano per quei valori umani per i quali vale pena vivere e anche morire!
    grazie, Dino

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