Corleone: Un paese natio

Altritaliani mi ha invitato a partecipare a questa bella iniziativa del sito e lo stesso fanno i miei amici corleonesi. Io sono restio perché mi sento inadeguato rispetto ai tanti che nei paesi vivono o trascorrono con regolarità le vacanze. A me pare di avere poco o nulla da raccontare nel senso turistico, che possa servire da suggestione a quanti si trovano in Sicilia e decidono di fare un’escursione magari per interrompere il rituale della vita di spiaggia.
Giovanni Perrino

E siccome l’amarcord felliniano è sempre un buon punto di partenza… lascio che affiorino i ricordi del borgo natale! Ma io non ho un borgo” natale”, mi chiedo subito essendo nato in un ospedale di una grande città. Sento che qualcuno sorridendo mi spiegherebbe che di sicuro anch’io ho un paese natio poiché il borgo natale è il paese dove si è nati, dove si è vista la luce.

Ma io non ricordo, insisterei, io al mio paese sono stato portato dopo aver visto la luce e quando ero piccolo ho visto solo buio… non ho ricordi, per così dire, luminosi.
Potrei raccontare di quando scorrazzavo felice con i miei compagni per i campi che, dalla Chiesa di Santa Maria e dalla Via Colletto che non c’era ancora, scendevano verso quello che oggi è il Corso dei Mille.

Giocavamo agli indiani e ci sparavamo addosso con dei rudimentali fucili di legno che noi facevamo sparare con botti e fischi incredibili e terrificanti. Già allora frequentavo poco l’oratorio, non mi piaceva giocare a pallone con i più grandi, poi c’era stato un episodio sgradevole. Un giorno la maestra di catechismo decise di festeggiare l’anniversario di sacerdozio del parroco con uno spettacolo. A me fu assegnata la parte del mafioso, mi misero dei baffi finti e una coppola, avrei dovuto annacarmi e parlare mollemente per sembrare doppio e misterioso come un vero mafioso. Fu un vero disastro perché, non riuscendo ad entrare nella parte, alla recita mi veniva da ridere e ciondolare con le mani in tasca dovevo apparire una vera macchietta a giudicare dalle risate del pubblico…altro che mafioso, ci voleva ben altro!

Fu chiaro che io non avevo la stoffa…dell’attore s’intende!

Quando un pomeriggio entrando in sagrestia vidi che il parroco palpeggiava la maestra di catechismo mentre lei diceva no, no! decisi che all’oratorio non sarei più andato e tornai con la mia banda a scorrazzare nei campi.

Ma fu così solo per un certo periodo perché poi iniziai il cursus honorem di un regolare corso di catechesi durante il quale da Fiamma bianca passai a Fiamma gialla e infine rossa prima di accedere alla prima comunione. Ogni traguardo era siglato da un diploma con medaglia che il Vescovo in persona mi consegnava per la mia diligenza e la passione con cui mi applicavo alle cose di Chiesa.

La sintonia durò poco e finì ingloriosamente: infatti, non feci neanche la Cresima e la mia religiosità evolse in spirito critico che a scuola mi attirò fin dall’inizio la disapprovazione dell’insegnante. Prova ne erano i voti bassi e appena sufficienti fin dalla prima media proprio in religione il cui libro di testo mi toccava studiare per i continui controlli del professore sulla mia assiduità nello studio.

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A partire da Religione, la prima materia in pagella, fino all’Educazione fisica che era l’ultima delle materie oggetto di valutazione, i risultati erano modesti, più in queste due discipline che nelle altre. In Educazione fisica, mia croce e delizia, il docente di fede monarchica e chiaramente filofascista, mi prendeva in giro perché ero diventato grassottello. Aveva deciso che, non riuscendo ad arrampicarmi sulla corda, meritavo tutta la disistima sua e dei miei compagni che si sganasciavano dalle risate a vedermi penzolare “ appeso” alla fune.

Dalla scarpata di Santa Maria invece tornavo sempre sporco e felice. Come tutti i ragazzini, appena finiti i compiti, correvo a giocare finché non giungeva l’inverno.
Accadde che un nero mattino di pioggia andando a scuola, all’altezza della Piazza Nascè, trovai un filo rosso a barrarmi la strada ed un carabiniere a deviare i passanti per le strade laterali.

Si diceva che c’era un morto appena ammazzato nelle prime ore del giorno e che il cadavere era ancora sulla strada in attesa degli accertamenti. Cercai di sbirciare senza riuscire a vedere nulla.

Il Carabiniere ci cacciò via con modi sbrigativi. Tu vai a scuola, mi disse perentorio e non occuparti di cose che non ti appartengono.
A scuola quel giorno le lezioni furono regolari e nessuno disse una parola sul morto ammazzato ma a me quella strada sbarrata e quel carabiniere mi picchiava in testa e non vedevo l’ora di tornare a casa per curiosare.

Anche il ritorno fu regolare, il solito traffico di carretti e di auto nella più totale confusione e le grida dei venditori del vicino mercato. Nessuno voleva dire cos’era accaduto né chi fosse il morto.
Nulla era successo ma io mi chiedevo dov’era finito il morto, dove l’avevano portato.
Il cielo era scuro e faceva un gran freddo quella mattina.
A tavola raccontai subito l’accaduto ma i miei genitori glissarono parecchio dicendo che c’era stato un diverbio fra uomini di malaffare e che poi succede che questi malavitosi si sparano fra loro.

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Mio padre a mezza voce, attorcigliando gli spaghetti nella forchetta, rivolto a mia madre, fece dei nomi che io non afferrai; quando gli chiesi chi era stato, mi disse mangia, sono cose e fatti che non ci riguardano e meno si sa di certa gente meglio è per tutti.

Poi…tu sei picciriddo, concluse.

Così, a causa di questi ricordi, mi pare che in questo paese ho visto il buio invece della luce che tutti i bambini ricordano.
Un’altra volta, ma sempre in quegli anni, accadde che era pomeriggio e giocavo sul balcone.

C’era vento e il cielo era ancora una volta buio e piovoso. Passò un’ambulanza e subito dopo la macchina della polizia, mia madre mi disse entra che chiudiamo le persiane tanto fra poco piove…dopo il vento viene l’acqua!
Salutò e scambiò alcune parole con la sua vicina di casa anch’essa sul balcone.
Dicono che hanno ucciso a Pian di Scala il Dottore Navarra, disse sotto voce la vicina.

Mizzica rispose mia madre, questa si che è grossa, e chiuse le persiane. Io rimasi con il pallone in mano senza poter giocare dato che nelle stanze non c’era spazio ma di questo fatto si parlò a lungo per via che la moglie del dottore capomafia, la Signora Masina, si faceva confezionare gli abiti nella sartoria di Corso Bentivegna che mia madre gestiva con sua sorella. La Signora, ricca proprietaria di suo, non aveva colpa. Lei non c’entra, ripeteva mia madre assolvendola e ricordando la sua generosità verso la Parrocchia e le famiglie bisognose.

Certo, a parte il maltempo, non si può dire che Corleone fosse negli anni sessanta un bel paese.

Era un centro agricolo povero, ricco di braccianti analfabeti che stavano per diventare emigranti ai quattro angoli del mondo dove cercavano braccia di umani che all’epoca si chiamava “forza lavoro”.

I proprietari dei terreni erano o si servivano dei mafiosi e di lavoro in paese non v’era neanche l’ombra.
Un vero inferno la Corleone di quegli anni, Tombstone, l’aveva soprannominato un giornalista americano.

Per me quel Tombstone era davvero una martellata sulla nuca che rimbombava nelle orecchie con un’eco assordante e doloroso. Con gli amici ci chiedevamo cosa fare, Danilo Dolci aprì un centro di lettura e ci diede dei libri come antidoto contro Tombstone per recuperare la speranza in qualche anche minimo cambiamento.

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Servirono eccome quelle medicine, l’Antologia di Spoon River che imparai quasi a memoria e poi letture, tante letture di testi anche difficili e amari come le medicine, penso a Pavese, amatissimo in quegli anni.

Fu così che, lentamente, quel paese dove non ero neanche nato, pieno di freddo e di povera gente oltre che di violenza mafiosa, divenne negli anni il “mio” paese. Mi chiedo se e come posso chiamare natale un paese così. Non ho una risposta razionale da dare. Se per l’anagrafe non lo è, dentro di me lo è sempre stato, come se là fossi nato e poi anche vissuto anche quando me ne sono andato quasi fuggendolo inorridito. Sono stato impastato di quella terra e di quell’aria, quelle case coi muri scrostati, le chiese cadenti e le strade sconnesse dove camminavo bambino, sento non da ora che mi appartengono come una pelle, ancor più che un vestito, qualcosa di così naturale al punto che sono certo che sarei stato diverso io senza quel labile natale.

Sono stato accolto nei miei anni in tanti posti, paesi e città e di molti di essi mi sono innamorato senza chiedere nulla ma accettando di buon grado quel che di volta in volta ricevevo, fosse stato il primo amore, la prima esperienza sessuale, la prima attività politica, tutto quello che poi sarebbe diventata la mia visione del mondo, la mia privatissima lente che mi consentiva di orientarmi con autonomia e una certa padronanza nella complessità della quotidiana esperienza.

Una volta soffrii molto quando, in occasione di un articolo che avevo scritto per Città Nuove, il giornale che tanta parte ha avuto nella ricostruzione morale e democratica del paese, un lettore di giovanile entusiasmo, mi rimproverò di essermene andato…è facile ragionare così quando si è lontani, scrisse polemicamente.
Risposi che in realtà io non me ne ero mai andato, che quel paese lo portavo con me nei posti più impensabili, che mi ero sempre reso disponibile a dare una mano ai miei numerosi e cari amici, che non mi ero mai tirato indietro, io come tanti altri, che serbano un legame inscindibile con la propria terra nonostante le ferite di un’identità a volte non facile da portare in giro.

Ma quella battuta mi fece male. Il ricordo va al giorno in cui all’Università la Sapienza mi recai con la mia ragazza nuova di zecca in segreteria per prenotare un esame. L’impiegato, guardando la residenza sulla carta d’identità, si sporse dal banco e ridendo disse, fammi vedere dove tieni la lupara. Io arrossii di vergogna, avrei preferito sprofondare. Cristina non fece una piega, scoppiò a ridere e poi mi disse, dai…ma ridi pure tu!
Non fu facile, avrò fatto un sorriso da ebete per superare l’imbarazzo.

Le mie estati a Corleone sono sempre state lunghe e indimenticabili, la grande casa di Santa Lucia piena di zie sempre più anziane ma sempre pronte a circondarmi di attenzioni.

In quella casa, a metà fra paese e campagna, avrò fatto pochi bagni di mare ma tanti bagni di affetto e di calore umano che mi hanno inondato e dato forza ed energia per tutto il resto dell’anno.

Sarebbe lungo raccontare il mare di odori, di sapori, di colori, l’aria fresca della sera con le cicale in concerto, le vecchie canzoni che facevo cantare a mia madre felice di ricordare la sua giovinezza.

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La piazza Garibaldi con la storica cartolibreria, punto d’incontro di amicizie solidissime ma anche di pareri, punti di vista, scontri, discussioni cui seguiva la scinnuta per la via principale fino alla Villa comunale. Quante volte, passeggiando e discutendo animatamente, abbiamo spianato il famoso Corso Bentivegna fino a sera tardi quando ci si spingeva fino alla Cappella di Santo Lucuzza e anche oltre, in aperta campagna, finché i piedi non ne potevano più e anche gli occhi si chiudevano per il sonno.

La vecchia montagna sempre vigile e protettiva coi suoi castelli, soprano e sottano, la verdissima vallata che da Chiosi a San Marco si stende fino alle contrade estreme al limitare di Roccamena e di Contessa Entellina, i paesini che la punteggiano che di notte sembrano decorazioni natalizie.

Oggi sono certo che sono questi i miei luoghi dell’anima.
Io torno almeno una volta l’anno a Corleone dove ho parenti e amici molto cari ma mi chiedo se ciò che ho scritto esiste ancora. Forse è come la storia del paese natio/ non natio, della luce e del buio, dei luoghi che potrebbero essere non luoghi non perché non esistono ma perché temo che come dappertutto, i giovani non li riconoscano più come tali. Tutto oggi appare logorato e sfumato e solo la mia memoria mi tiene saldamente attraccato a quelle strade. C’è ancora la cartoleria ma manca da tempo Zi Totò, le balate sono state sostituite da un anonimo asfalto, difficilmente si passeggia perché le strade sono intasate da un traffico caotico, santo Lucuzza non è più il limes di nulla in quanto altri quartieri sono sorti dove prima era campagna.

Anche la Santa Lucia, tornata a nuova vita, accoglie grida e giochi di bimbi e non so se lucciole e cicale si sentono ancora fra rami della grande robinia di guardia all’ingresso.

Questo, mi chiedo, è il prezzo della riscossa, quello che il paese, come tanti altri, ha pagato come tributo al progresso. I vecchi mafiosi sono morti o in galera ma alcune frange di nostalgici, nonostante gli sforzi della scuola e il controllo delle forze dell’ordine, sono presenti e continuano a remare contro, in barba all’indubbio progresso economico e al ripudio della mafia della gran parte della popolazione.

Oggi il paese è spesso pieno di turisti; molti anni or sono si era cominciato col mostrare agli occasionali curiosi la casa dove fu arrestato Liggio o la villa megagalattica di Totò Riina; oggi questi “ monumenti” importano meno e il turista scopre splendide chiese e castelli di roccia, monasteri e palazzine di caccia oltre a percorsi naturalistici e molto altro che, pur con rinnovata cura rispetto al passato, attende un’adeguata valorizzazione. Il petrolio verde anche a Corleone non manca come non mancano giovani intelligenti capaci di pianificare un’economia turistica basata sulla valorizzazione del territorio e sulla salvaguardia delle sue eccellenze in quel clima nuovo che mi pare di sentire nell’aria.

Giovanni Perrino

LINK: Giovanni Perrino: “Dorso d’asino – Possibili rallentamenti”.

Nota biografica:

Giovanni Perrino è nato a Palermo e vive fra Roma e Mantova. Allievo di Natalino Sapegno all’Università “La Sapienza” di Roma, tesse con passione legami e sintonie fra lingue e culture diverse a partire da quella russa. Dirigente dell’Ufficio Istruzione presso l’Ambasciata d’Italia a Mosca, si è con successo occupato della diffusione dell’insegnamento della lingua italiana nelle scuole russe. Con E. Solonovich ha dato vita al premio Lerici Pea-Mosca con l’obiettivo di tradurre e far conoscere al pubblico dei rispettivi Paesi gli autori emergenti e le dinamiche in atto nei rispettivi ambienti letterari.

In collaborazione con l’Università di Voronezh e con lo storico Giorgio Scotoni, si è occupato dell’occupazione nazi-fascista della Russia (1942-43) e ne cura gli aspetti didattici anche attraverso gemellaggi fra scuole e campus internazionali.

Sue poesie sono state pubblicate sia su riviste russe, armene e italiane, sia in varie antologie. Ha pubblicato, altresì, le seguenti raccolte: Malastrana, Ed. All’Antico Mercato Saraceno, 2004; Ellis Island. Poesie dopo l’11 settembre, Interlinea, 2007.

Nel 2011 ha partecipato al Festival della letteratura di Mantova e nel 2012 ha pubblicato, sempre per Interlinea, la raccolta “ Dorso d’asino – possibili rallentamenti” che, presentato in molte città, fra cui Mosca ( Istituto Italiano di Cultura), riscuote notevoli consensi.
Una scelta antologica si trova nl n. 27 della rivista “ Poeti e Poesia”.

Opere poetiche:

“Malastrana” ed.All’antico mercato saraceno – Treviso 2004
“Ellis Island, poesie dopo l’11 settembre”- Interlinea,2007
“Dorso d’asino – possibili rallentamenti” –Interlinea 2012
Bella Achmadulina, “Lo giuro”, ed. Interlinea 2008 – Introduzione
Alberto Caramella, “Poesie”, Ed. Pagliai-Polistampa 2006 – Introduzione

Sue poesie, tradotte in russo da E.Solonovich, sono pubblicate in:
“Rivista delle letterature straniere” ott.’08, “ Le più belle filastrocche di tutti i tempi” ed.Liberamente 2009, nell’antologia “In questo margine di valigie estranee” Ed.G.Perrone 2011 e in riviste italiane quali: “Poesia” Ed Crocetti, “Poeti e poesia” Ed. Pagine, “I quaderni del LericiPea” Ed.Interlinea

Saggi:

“Memorie dei reduci del Don” a cura di – Ed. Aurora- Vladivostok 2006
“ Taganrog, città simbolo della misteriosa giovinezza di Garibaldi“ in “ Garibaldi,orizzonti mediterranei”a cura di Annita Garibaldi Jallet – Ed. Sorba 2008
“ L’insegnamento della lingua italiana come L2 in Russia” – ed. Guerra 2009

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Giovanni Perrino
Giovanni Perrino è nato a Palermo e vive a Mantova. E’ stato docente di italiano e latino nei licei e poi Dirigente Scolastico con vari incarichi ministeriali all'estero sia in Commissione Europea che in sedi diplomatiche. L'esperienza più lunga a Mosca dove fino al 2010 ha diretto l'Ufficio Istruzione dell'Ambasciata in cui si è occupato di diffusione della lingua italiana nelle scuole e nelle università della Federazione. Presiede l’associazione territoriale dell'A.N.P.I. "U. Roncada", in provincia di Mantova e si occupa di poesia dal 2003. E’ autore delle seguenti raccolte: Malastrana, Ed. All’Antico Mercato Saraceno,Treviso 2004; Ellis Island. Poesie dopo l’11 settembre, Interlinea,Novara 2007; Dorso d’asino –Possibili rallentamenti, Interlinea, Novara, 2012 ( Premio Lerici, 2014); Liturgia degli anni, Ed.Raffaelli Rimini, 2018

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