Genova…per me: Ditele che la perdono, per averla tradita.

“Ditele che la perdono, per averla tradita”. Genova, dove sono nato e cresciuto, per me in fondo è sempre stata una città straniera. Dove stavo io, i ragazzi, quando al sabato andavano in centro al cinema o a vedere le vetrine dei negozi, dicevano “andiamo a Genova”. “Cosa fai oggi?”. “Vado a Genova”. Perché noi stavamo in periferia. Estremo ponente. Una quindicina di chilometri dal centro di Genova – cioè dal centro di ogni cosa.

E quel quartiere era diventato parte della città solo negli anni Venti del secolo scorso – del Novecento. “L’odierno consiglio dei ministri, riunitosi oggi, alle ore 16, a Palazzo Viminale, al completo con la presidenza dell’On. Mussolini, (…) ha approvato (..) l’ampliamento della città di Genova, aggregando ad essa 19 comuni limitrofi”.

Diciannove. Cos’è Genova se non una litanìa? Apparizione, Bavari, Bolzaneto, Borzoli, Cornigliano Ligure, Molassana, Nervi, Pegli, Pontedecimo, Prà, Quarto dei Mille, Quinto al Mare, Rivarolo Ligure, Sampierdarena, San Quirico, Sant’Ilario Ligure, Sestri Ponente, Struppa, Voltri. E così – “aggregando ad essa”, ecco, “i comuni limitrofi” – era nata la cosiddetta “grande Genova”. Un serpente che ha ingoiato un coniglio (per Montale) di una trentina di chilometri. Da Voltri l’industre dove il vento regna (a ponente) a Nervi (a levante).

Noi eravamo la parte occidentale del coniglio, cioè no, del serpente: Prà. Incastrati. Da un lato, la Voltri ventosa che segnava la fine del mondo genovese, ne costituiva le colonne d’Ercole. Dall’altro la Pegli ottocentesca con la sua passeggiata a mare, e la magnifica villa Durazzo Pallavicini di romantica malinconia, che mette in scena la storia e la fa finire in paradiso: un laghetto dove le diverse civiltà sono infine riunite in armonia (vaste programme). Prà nel decreto legge mussoliniano veniva indicata con l’accento, ma secondo me andrebbe scritto con l’apostrofo: perché elisione di “Prata qualcosa”. Prata Palmarium, forse? I prati delle palme? In effetti c’erano dei prati, su in campagna. E pure delle palme. E soprattutto il basilico, perché in tutte le ricette del pesto alla genovese si diceva sempre di usare “il basilico di Prà”. Perché? “Perché se non è quello di Prà sa di menta”. (il saper di menta, per il pesto, è considerato peccato mortale).

Lì a Prà (o a Pra’ come si dovrebbe scrivere secondo me) gli abitanti, oltre a mangiare le trenette al pesto, erano in grande maggioranza comunisti. Genova è sempre stata una città rossa. Ma lì da noi altro che rossa: era rossissima. Io in un certo senso mi sentivo comunista, ma (come dire?) un po’ anche no. (Ero veltroniano ante litteram, senza saperlo. E prima di Veltroni).

Mi sentivo comunista quando vedevo i figli dei ricchi che andavano a scuola sbadigliando e lamentandosi, povere stelle; e invece i miei genitori e i miei nonni e tutti i miei antenati di scuola ne avevano potuto fare o pochissima o proprio niente. E ditemi voi se quella non era un’ingiustizia, ma un’ingiustizia da far spavento, accidenti!

E tutti a lavorare come bestie in giovanissima età per guadagnare una miseria e se non fosse stato anche (e sottolineo “anche”) per i comunisti e tutto il casino che avevano fatto, a me e a quelli come me sarebbe toccata di sicuro la stessa sorte. E quindi un po’ comunista mi sentivo per forza. Però “anche no”. Perché non ci voleva molto a capire che i comunisti raccontavano anche delle clamorose belinate, come si dice a Genova e dintorni, appunto. Nel senso di fesserie. Ad esempio che in Russia, anzi in Unione Sovietica i lavoratori stavano bene. Ma figuriamoci! Lo si capiva al volo che stavano male e probabilmente peggio che in Italia! E poi perché secondo me il merito e l’iniziativa e la voglia di lavorare erano delle belle cose. E non era giusto trattare allo stesso modo chi ce le aveva e chi no.

Genova vertiginosa

A ciascuno secondo i suoi bisogni, aveva detto Marx, e fin qui siamo d’accordo. Ma, una volta soddisfatti i bisogni essenziali, una volta assicurata la necessaria parità delle condizioni di partenza, a ciascuno anche secondo i suoi meriti. Accidenti. Così sembrava a me. (Con il tempo avrei trovato, per questa mia posizione, una definizione soddisfacente: “aspirante socialista liberale”. E lo sono tuttora: aspirante, intendo).

Allora quando passavo davanti alla sezione del Partito e vedevo la falce e il martello, mi interrogavo. Non sapevo se sentirlo davvero mio, quel simbolo. E un giorno, mentre così di me si spendeva la miglior parte, proprio sopra la sezione, sul muro del palazzo, ho visto un’ombra scura. E quell’ombra era il profilo del Duce. Di Benito Mussolini, porca miseria! Di tre-quarti. Con l’elmetto. E la mascellona. Inconfondibile.

Non è che lo si vedesse proprio bene bene. Lo si intuiva. Ma una volta visualizzato, non c’erano più dubbi. E come mai c’era il Duce? Roba da matti. Erano gli anni Settanta e dalla fine del fascismo erano passati trent’anni, e trent’anni son tanti. Per noi ragazzini il fascismo era una roba talmente antica da non poterci nemmeno pensare. Una cosa veramente lontanissima. Trent’anni prima! Già un’estate era un tempo lunghissimo e praticamente infinito (dalla fine della scuola al rientro in classe: un’enormità). Mi volete dire come avremmo fatto a considerare reale una cosa di trent’anni prima? (Inciso: il tempo infinito che separava, allora, me bambino dal fascismo, è esattamente pari al tempo che separa, adesso, me adulto dal mio esame di maturità, 1984, Liceo Scientifico Statale Luigi Lanfranconi, Genova Voltri. Astenersi spiritosoni e perditempo).
La Genova dei vicoli

Insomma, com’è che dopo così tanto tempo si poteva trovare ancora l’ombra del ritratto del Duce e proprio sopra la sezione del Partito? Qualcuno me l’aveva raccontata così: lì, prima di esserci la sezione del Partito, c’era la casa del fascio. Con il ritratto del Duce soldato. Ora, i fascisti un po’ l’avevano capita, l’antifona: prima o poi le cose sarebbero andate storte. E allora erano stati a loro modo previdenti. Avevano usato una vernice “di quelle che tornan su”. Cosa vuol dire? Eh, vuol dire che tu ricopri con altra vernice per cancellare il tutto, e quella dopo un po’, lenta ma inesorabile, filtra attraverso gli strati. E rieccoti il Duce.

E allora per tutto il dopoguerra c’era stato questo balletto; il morto che afferra il vivo, come dice una potente metafora marxiana. I comunisti ogni tanto prendevano secchio e pennelli e via, la verniciata, oh finalmente non si vede più quello schifo; e dopo un po’, tant’è, il profilo riappariva e il morto acchiappava il vivo. E più di ogni libro e fotografia e filmato d’epoca e racconto di chi c’era e di tante altre cose, ecco, quelle macchie mi parevano la vera prova di quello che era stato e non era più. (E poi certo: quell’ombra mi portava l’eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva. E il suon di lei).

Negli anni l’ombra si è fatta sempre più pallida. Il morto ha avuto sempre più difficoltà ad afferrare il vivo, ed io, crescendo, ho cominciato ad andare a Genova. Voglio dire, in centro. All’inizio, per vedere la partita di pallone. Una domenica ci andavamo noi sampdoriani. La domenica dopo, i nostri nemici (non avversari, eh, intendiamoci: NE-MI-CI) genoani. C’era un vicino che mi conosceva benissimo ma era talmente genoano che, quando la domenica mi vedeva con la sciarpa blucerchiata (cioè della Sampdoria) al collo, non mi salutava. Distoglieva lo sguardo. Brava persona. Non potevo biasimarlo: ero come lui anch’io. Il mio amico del cuore era genoano, e in quanto tale mio nemico. E tuttavia restava anche amico del cuore. Detta così, mi pare una cosa limpida, facile da capire.

Alla partita si poteva andare con l’autobus, l’”Uno”, che attraversava tutto il Ponente, inesorabile, metro dopo metro. Lentissimo. Oppure con il treno, più veloce. Quindi noi prendevamo sempre quello. Una stazione per quartiere, per “delegazione”, come si dice. Partenza dalla stazione di Genova-Prà. Poi appunto Pegli. Poi la zona industriale: Sestri (Ponente) Cornigliano e Sampierdarena (San Pier d’Arena, fino alla riforma toponomastica del 1936). È la Genova d’uomini destri – Ansaldo San Giorgio Sestri – di Giorgio Caproni. Un tempo, riviera di spiagge e splendide ville sul mare. È a Cornigliano Ligure che il bambino Guido (Gustavo) Gozzano va al mare e incontra una cattiva signorina (che vuol dire cocotte, mammina? Vuol dire una cattiva signorina) che perdutamente ride.

Tra le gioie defunte e i disinganni, dopo vent’anni, oggi si ravviva il tuo sorriso (dice Gozzano, ormai grande). Dove sei, cattiva signorina? (E nel frattempo quella riviera era diventata scenario di fabbriche e fabbriche. Cavour sapeva che l’Italia era lunga e quindi per farne una nazione ci volevano i treni e per i treni ci volevano le locomotive e il ferro dei binari. E allora nel 1853 va a pescare un giovane professore di analisi infinitesimale, intelligente come pochi: Giovanni Ansaldo. Gli affida la Taylor & Prandi, società nata pochi anni prima e già fallita. Il ragazzo ci sa fare. Sampierdarena è dunque il luogo in cui nasce l’Ansaldo, appunto, e anche il nome della prima locomotiva a vapore progettata in territorio italiano.

Passa ancora un po’ di tempo e alla fine degli anni Venti le spiagge di Sampierdarena – laica, mazziniana – lasciano il posto alle banchine del porto e stavolta è per sempre, la Sampierdarena di mare non esisterà mai più. Dove sei, cattiva signorina?. E via, fabbriche su fabbriche. Dell’acciaio, delle macchine, delle navi, dei motori. Fabbriche brutte rumorose e inquinanti, certo. Ma anche veicolo di accesso ad un modesto benessere. Non per tutti, ma per tanti. Per tanti che dal benessere erano storicamente rimasti esclusi. Ideali dunque, quelle fabbriche, per essere odiate e disprezzate da intellettuali controcorrente, da cantautori in direzione ostinata e contraria, da furiosi profeti scalzi. Da quelli che vogliono le biciclette per correre in mezzo al verde – come diceva Antonio Pennacchi, parola più, parola meno – ma non l’altoforno necessario per costruirle).

Dopo la Genova d’uomini destri, si trova quello che fu (per secoli e millenni e forse più) l’antico confine: lo sperone roccioso di San Benigno che fino agli anni Trenta del Novecento aveva fisicamente separato Genova dai suoi vicini di ponente. Lo sperone da cui l’esercito piemontese, con il generale Alfonso La Marmora alla sua testa, aveva bombardato Genova per domare l’insurrezione del 1849, distruggendovi un meraviglioso monastero (meraviglioso, certo, come tutto ciò che non abbiamo conosciuto e mai potremo conoscere).

Lo sperone poi lo avevano sbancato (come si dice. Almeno credo) durante il fascismo, per costruirvi l’elicoidale d’accesso all’autostrada (allora, autocamionale). E passato il confine che confine non è più, adesso siamo a Genova. Cioè, in centro, scusate. Din don, stazione di Genova Principe, ci scusiamo per il ritardo.

Quando si passava a Principe si pensava inevitabilmente che lì attorno c’erano i carruggi con le bagasce. Cioè i vicoli con le prostitute. Il più famoso era Via Pré. Proprio a due passi dalla stazione. Via Pré era per tutti sinonimo di luogo degradato, popolato da “légères” (in genovese: poco di buono). Quando di una donna si voleva dire che era volgare e presumibilmente di facili costumi, si diceva: “sembra una di Via Pré”. E da quel momento in poi quella reputazione non se la toglieva più, la poveretta. Perché la gente è cattiva, la gente giudica. Non sono cattivi solo i ricchi (il che è doveroso, giusto e normale). Anche i poveri lo sono.
Santa Brigida

È terribile ma è così. E anche quelli che non sono né poveri né ricchi. E anche i comunisti. Che pure soprattutto a quei tempi pensavano assolutamente di essere i buoni, e di aver fatto ricorso talvolta a qualche piccola cattiveria solo per assoluta necessità: noi non potemmo essere gentili, aveva detto Brecht (anche lui, parola più parola meno). E comunque c’è poco da fare: siamo cattivi anche tutti noi (io, poi, non ne parliamo). Soprattutto quando pensiamo di essere gli unici buoni in un mondo di stronzi. “Sembra una di Via Pré”, dicevo. E tutti ripetevano a noi ragazzini: se andate a Genova (per dire se andate in centro, ma d’accordo, non costringetemi a ripeterlo ogni volta: penso che ormai il concetto sia chiaro), se andate a Genova fate attenzione! Non andate nei carruggi, soprattutto in Via Pré. Perché vi ruban tutto e fate dei brutti incontri che poi vi rovinate per tutta la vita!

Naturalmente tutto questo non faceva che suscitare curiosità e attesa e grande voglia di rovinarsi per tutta la vita. E così alla prima occasione, di corsa, giù da Principe, in Via Pré. Sorpresa: parlavano tutti napoletano. Ma come? A Genova parlavano napoletano? Mah. Vuoi dire che a Napoli parleranno genovese? E chi lo sa. Mica c’eravamo ancora mai stati, a Napoli. Comunque c’era davvero un gran casino. La gente seduta sulle sedie fuori dai palazzi o dai negozi, un litigio e una trattativa continua, e delle grandi bionde con delle tette, pardon, con delle scollature, allucinanti, e uomini grossi come alberi con le corde vocali carteggiate dal fumo, che quando parlavano producevano delle vibrazioni da far tremare le case, e quelli che ti si avvicinano per sapere se volevi la droga, e le sigarette di contrabbando, o i servizi della bionda. Oggi l’unica cosa che è cambiata è la lingua: parlano tutti dialetti africani, oppure spagnolo. Qualcuno francese. E sempre un po’ di napoletano. Ma a parte questo, c’è sempre lo stesso casino.

Da lì ricomincia ogni volta un viaggio che fine non ha. A metà di Via Pré, una stretta salita e poi una piccola piazza. Santa Brigida, e un grande truogolo, cioè un lavatoio. Oggi, delizioso dehors di un bar. È in quella piazza che Vittorio Gassman, anzi Fausto, il capitano cieco di “Profumo di donna”, va a trovare una prostituta. Un donnone come piace a lui. Il donnone, nel film, è Moira Orfei. Stava in un palazzo tutto scale, la Moira-puttana.

Come tutta Genova del resto (tutta scale, volevo dire; non puttana, cosa avete capito). Nel film, un signore compunto attende il suo turno con il donnone, leggendo il Corriere Mercantile. Antichissimo giornale genovese, che un tempo usciva al pomeriggio. Attirandomi malefico, con certi titoloni su improbabili e senz’altro sensazionali acquisti della Sampdoria, poi puntualmente smentiti: “Michel Platinì vicinissimo alla Sampdoria” – è un ricordo, tra i tanti (nel sogno mi perseguita). Io guardavo, tentennavo, contavo gli spicci e poi compravo, Mercantile e un etto di focaccia; leggevo in fretta, mi dicevo tra me e me “tutte musse”. “Mussa”, in genovese ha due significati: il primo è frottola. Il secondo ve lo spiego un’altra volta. (Ai non liguri fornisco un indizio: termine usato per indicare il più tipico argomento di conversazione maschile dopo il calcio). Il Mercantile lo accartocciavo e via, lo buttavo insieme alla carta unta della focaccia; un altro giorno è andato la sua musica è finita, mi han fregato anche stavolta e passerà.

La piazza Santa Brigida del capitano Fausto finisce in una scalinata che taglia Via Balbi, strada dell’Università. In Via Balbi c’è la facoltà di Lettere con l’Istituto di Letteratura Italiana. Proprio davanti alla scalinata della biblioteca universitaria. Dove un giorno era caduta una studentessa, rotolata giù dalle scale, la poverina, mentre il professore Edoardo Sanguineti stava uscendo per andare a prendere un caffé e fumare. Sanguineti insegnava lì. E aveva scritto una poesia sulla studentessa rotolante. La pelle bianca e le macchie di sangue gli avevano fatto impressione. A me invece faceva impressione sapere che uno come Edoardo Sanguineti stava a due passi da dove potevo andare anch’io. Perché Sanguineti aveva scritto libri e articoli sui giornali e sulle riviste e aveva fatto il gruppo 63 con gente come Arbasino e Balestrini e se ne parlava a scuola. Voglio dire, Sanguineti era uno che poteva alzare il telefono fare il numero e chiamare, che ne so, Pasolini. Per dirgli, presumibilmente, “Pier Paolo, belin ma non capisci proprio un cazzo”. Non si sarebbe espresso in questi termini esatti, ma il senso sarebbe stato quello.

Perché non andavano d’accordo per niente. Dicevano entrambi di essere comunisti ma in realtà erano cane e gatto. Quello, Sanguineti, era comunista sul serio (nessuno è perfetto), un materialista storico che di più non si può. Mentre l’altro – Pier Paolo – era bravo (perché era bravo, Pier Paolo, poche carabattole: certe cose sono magnifiche). Però politicamente parlando secondo me era tutto chiacchiere e complesso edipico. E rimpianto del tempo che fu e volo lirico sulla bellezza dei sottoproletari. Che più gli dicevano “Ah Pa’, ma che cazzo stai a di’ che ‘un te capisco”, più lui, Pier Paolo, se ne andava in estasi. Era bravo ma di politica per me non capiva molto. Ovvio che con Sanguineti non potesse andare d’accordo. Comunque sia, tutto quello che volevo dire era che Sanguineti poteva chiamarti così su due piedi Pasolini. O Italo Calvino, o Alberto Moravia. Ecco.

Sanguineti poi era chiaramente un essere diabolico. Non era umano come possiamo essere io e te, hypocrite lecteur (mon semblable, mon frère!). Scriveva la palus putredinis, il purgatorio dell’inferno, scriveva poesie che a me parevano senz’altro bellissime da quanto non ci capivo niente – tutte piene di parole strane e misteriose, una vertigine, un incanto magico e maligno. E i romanzi? Dopo un po’ ti gira la testa. Sai come quando si andava al cinema e si diceva “ti sei divertito?” “Sì, ho pianto tanto”. Ecco, io mi dicevo “ti è piaciuto?”, “sì, non c’ho capito un tubo”.

Insomma a me Sanguineti pareva un personaggio di fantasia, come Paperino, o Topo Gigio. E invece bastava fare il biglietto (perché se tu non lo paghi vuol dire che qualcuno prima o poi dovrà pagarne due: ecco una delle pochissime cose che ho cercato di insegnare alle mie figlie); prendere il treno a Prà, anzi a Pra’ con l’apostrofo, poche stazioni, Via Balbi, (se proprio non volevi passare da Via Pré perché bla bla bla), civico 6, scale a destra, primo piano, istituto, permesso, buio (probabilmente risparmiavano sulla luce), scusi, c’è mica il professor Edoardo Sanguineti? I bidelli ti guardavano, e con un po’ di fortuna dopo due minuti te lo trovavi lì. Con la sigaretta in bocca, perché fumava sempre. E io una volta l’ho pure intervistato e lui era gentilissimo e fumava una sigaretta dopo l’altra, però di quelle sottili.
Genova tutta scale

E un poco più tardi l’ho avuto come professore all’Università. Letteratura Italiana. Tesina sul Novellino. Sempre lì in via Balbi 6. Aveva smesso di fumare e come sostitutivo orale succhiava il reganisso (radice legnosa dell’albero di liquirizia: la si mette a mollo nell’acqua una notte e il giorno dopo è perfetta per essere succhiata). Per me era come se ti dicessero che se fai due fermate puoi dare l’esame e fare la tesina sul Novellino con Mandrake, o Minnie, o Diabolik. Che succhiano il reganisso.

Ecco. Genova per me era quella cosa lì. E dopo Via Balbi ritrovavi i carruggi con Via del Campo, quella della canzone di Fabrizio De André che la conoscono tutti: Via del Campo c’è una bambina, gli occhi grigi come la strada paraparapapapaparapa. L’immagine degli occhi grigi come la strada è bellissima, va pur detto. De André era genovese di origine provenzale. Suo padre era stato vice sindaco (repubblicano). Anche Fabrizio nel centro storico ci andava da straniero, perché era nato e cresciuto nei quartieri dei signori: Pegli e poi Albaro, cioè l’equivalente genovese dei Parioli. E quando si è messo a cantare in genovese, De André, a metà degli anni Ottanta, tutti a fare oooooh che meraviglia. Un po’ come quando veniva il medico a fare le visite nelle case dei poveri e prima di andarsene diceva una battuta in dialetto, per ingraziarsi i pazienti e mostrarsi democratico e vicino al popolo. E dopo, se ne parlava in casa con accenti di divertita commozione: belin hai visto il dottore, belin ha parlato genovese, belin ma che bravo, che simpatico che è. In realtà però De André che cantava in genovese faceva un po’ tenerezza, perché nonostante i suoi sforzi lo pronunciava come si pronuncia una lingua straniera – una lingua che non era né quella del suo territorio, né quella della sua classe sociale. E brandiva il pugno chiuso in faccia agli altri senza alcuna incertezza né dubbio, senza se e senza ma; e disprezzava le modeste ambizioni di quelli nati poveri (se il fuoco ha risparmiato le vostre millecento, tuonava!) come sanno fare solo quelli nati ricchi, nati padroni, nati signori. Ma in certe cose era bravo anche lui. Come Pier Paolo. Nascon fiori dove cammina, aveva scritto della bambina (fa anche rima); e a ben vedere nascono sempre quei fiori, nella strada grigia. Ma forse più che di una bambina si trattava di un travestito. In effetti in via del Campo io di prostitute non ne ho viste mai.

Ma appena lì dietro, a sinistra, nel Ghetto (ebraico) sì, eccome; e quelli erano e sono soprattutto travestiti. Con certe manone che se ti danno una sberla ti ammazzano. Con la loro clientela di professionisti, avvocati, ingegneri, ragionieri, professori, e ci fermiamo qui. Vecchio professore cosa vai cercando in quel portone – aveva scritto sempre De André – forse quella che sola ti può dare una lezione. Clienti e bagasce, poveracci e signori, e tutti i giorni che il Signore mandava in terra c’erano tutte queste scopate mercenarie sparse in questo labirinto, in questa medina del Signore Iddio, in questo dedalo infinito dei vicoli, ragnatela mediorientale piena di cose non tutte sante e non tutte belle, ma sempre profumata dagli antichi negozi delle spezie. Perché le spezie un tempo erano state la ricchezza più preziosa della modernità. La merce più ambita. (Si dice per le loro capacità di conservare i cibi, ma la tesi è controversa. Oppure per le loro proprietà medicinali. Ad esempio i chiodi di garofano, secondo tal Aldobrandino da Siena, scacciavano i cattivi umori). Tante di quelle spezie passavano da Genova e se ne trova ancora traccia, di questa ricchezza della modernità, nelle drogherie (Lo avrebbe raccontato bene poi Maurizio Maggiani, lunigiano trapiantato nei carruggi, nella sua Regina disadorna: era stato grazie alle spezie che Genova un tempo era stata grande tra le grandi città del mondo).

E andando avanti nella città assolata, incontri Genova di guerra, di morte, Genova sfigurata. Fino a poco più di vent’anni fa c’era un buco; un buco in mezzo alla città, dietro la facciata del teatro lirico, del Carlo Felice, proprio davanti alla Piazza De Ferrari che della città è, o vorrebbe essere, l’ombelico. Mezzo secolo, c’è voluto per ricostruirlo: sventrato dalle bombe durante la Seconda Guerra Mondiale, tornato all’onor del mondo nel 1991. E da lì, lasciata la cattedrale di San Lorenzo con la sua bomba caduta e inesplosa (poi dice che le raccomandazioni in alto loco non servono), ti infili nelle strade misteriose, Sant’Agostino e Mascherona e Piazza Sarzano e lì vicino il cunicolo della galleria della Grazie. Dove sono morti in tanti, trecentocinquantaquattro, una sera d’ottobre del 1942. Una sera senza bombe ma con un allarme e una ressa e poi i corpi allineati lì fuori, sotto i portici della Banca d’Italia. Lo ha raccontato nel suo libro “una vita, quasi due” Miriam Mafai, allora ragazzina, che abitava a Genova e li aveva visti, quei corpi. Lo ha raccontato mia madre che c’era (bambina, sopravvissuta per miracolo, come si dice anche quando non si crede ai miracoli.

Edoardo Sanguineti e GenovaNella ressa erano morte sua madre e sua sorella). Io non so raccontarlo e non lo racconto, infatti. Ma so che la Genova della tragedia e dello spavento è quella delle Mura di Malapaga, titolo italiano di Au-delà des grilles, magnifico film di René Clément del 1949. Con Jean Gabin, e Isa Miranda. (Attrice fuori da ogni tempo, e soprattutto dal suo – troppo torbida prima, per il cinema dei telefoni bianchi della sua giovinezza, troppo sofisticata dopo, per il neorealismo della sua maturità. Ma indimenticabile Malombra fogazzariana, e poi miglior attrice, a Cannes, proprio per il ruolo in Au-délà des grilles). Il film è girato proprio lì, tra le macerie. Dove lui, francese, assassino in fuga, si innamora di lei (cosa non difficile), che fa la cameriera. Per farsi bello, va vicino al porto, in una strada lunga lunga e stretta stretta che si chiama Vico dei Caprettari, a farsi fare la barba in una meravigliosa bottega art déco; quella bottega, se la cercate, la troverete ancora, identica a sé. Poi, assieme, prendono l’autobus fino all’altro lato, quello di Levante, della città; al sole. Felici come si può essere felici sulla passeggiata di Nervi, a picco sopra le scogliere, a guardare il tremolar della marina. Alle spalle, i giardini con il Roseto, e gli scoiattoli, di Nervi.

Ma poi Genova di macerie li inghiotte di nuovo, i due innamorati clandestini, e con loro ogni volta inghiotte anche me. Con quel batticuore e quel rimpianto e quello spavento. E dallo spavento fuggi, perché da vivere ne resta pur sempre ancora un po’.

E allora, perché i carruggi tacciano d’improvviso e ti lascino in pace, perché si spenga l’interminabile eco dei tuoi passi, ci sarà il tempo rituale che Genova pretende per sé.

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E allora io forse andrò, nel sole che abbaglia, nella tarda mattina di luce mediterranea, a leggere il Secolo XIX (leggi: secolo decimonono), prendendo l’aperitivo in Piazza delle Erbe, con le frittelle e le torte di verdura e i piattini infiniti e i turisti che dicono yes, how nice, how interesting. O forse tornerò a guardare Genova ed il porto antico in automobile, dalla strada sopraelevata, come Franco Nero in un inseguimento di un film poliziesco degli anni Settanta, come se Genova fosse d’improvviso il più futurista dei quadri – che scorre velocissimo sotto di sé. Il tempo per tornare ad incantarmi nel quartiere medievale del Carmine, proprio a due passi dalla via Balbi dell’Università e da Piazza della Nunziata; dove d’improvviso di ogni disturbata passione, lo sapeva bene Montale, per miracolo tace la guerra. In Salita dell’Olivella e poi nella piazza incantata della Giuggiola solo silenzio e nessun segno della città che pure è lì sotto a due passi. Per poi mangiare da Mario, sopra la Commenda, antico ospitale che dava ristoro ai pellegrini): tra ferrovieri, manovali, docenti universitari, signore di facili costumi, turisti che si sono s-perduti e più in generale, persone che hanno tutte le carte in regola per essere degli artisti (tra cui, decisiva, quella di avere pochi soldi in tasca).

Il tempo per l’Ecce Homo di Antonello da Messina a Palazzo Spinola di Pellicceria, e quello per la bellezza romanica di Santa Maria di Castello e dei suoi chiostri dove ogni volta si ritrova l’Annunciazione di Giusto d’Alemagna e il silenzio e il mondo si ferma e il mondo non c’è. (E per ritrovarlo basterà fare due passi lì sotto per ritrovare, alle Grazie, davanti al mercato del pesce, il ristorante la Rina dove andavano a mangiare Sandro Pertini, e Gianni Brera). Il tempo per un altro aperitivo a Boccadasse, nel borgo marino con le sedie sulla spiaggia e lì dietro, nella piazzetta lontana dal mondo, nel ristorante riconoscerai le parole scritte a mano da Giovanni Arpino (e il suo capitano cieco, forse, sarà ancora a letto con la signora, a Santa Brigida?).

Il tempo forse per inseguire le lucertole di Salita delle Battistine dove ha vissuto Nietzsche. E lì sotto, i giardini mal frequentati dove in certi pomeriggi allucinati di sole si incrociano e si rincorrono gli sguardi. Dove vanno studentesse dopo la lezione nel pomeriggio ormai quasi estivo a prendere il sole aprendosi la camicia sudata sul reggiseno; e gli uomini, a cercare quello non trovano nel mondo che hanno già.

Poi, quando il tempo è quasi finito come finisce ogni tempo, decidi di andare in paradiso. Per farlo, ci dice Caproni, bisogna prendere l’ascensore di Castelletto, che ti porta su per la collina, sopra il centro storico. E lì, la spianata. Troverai, sotto di te, la città intera (geranio, polveriere), Palazzo Ducale con la sua torre e la bandiera genovese, la croce di San Giorgio (poi affittata a prezzo modico agli inglesi), i giardini della Strada Nuova, Via Garibaldi: palazzo Rosso, palazzo Bianco, la strada più bella d’Europa, diceva Fernand Braudel, e chissà se è proprio vero.

I tetti delle case della città d’ardesia ed i giardini e il mare e il porto e sulla destra la Lanterna che di Genova è il simbolo, anche se rispetto alla città resta un po’ defilata e sulle sue, al punto che tanti genovesi passano la vita senza averla mai vista da vicino. E sulla spianata, non appena cala la sera: vedrai i genovesi rientrare a casa, scuri, per riporre le cose all’ombra dei loro armadi, e Giorgio Caproni che ascolta sua madre, “ma Giorgio, ma tu hai una famiglia”, e la ragazzaglia in libera uscita e cipria e odor di vita viva. Caproni, da livornese, sapeva bene che Genova (vecchia ragazza, pazzia vaso e terrazza) è piena di vasi (di gerani) e di terrazze, che spuntano per ogni dove.

Basta partire da Spianata Castelletto, lasciando Caproni a risolvere un problemino edipico con sua madre (“soli e fidanzati – come mai in tanti anni siamo stati”); salire su su su per le curve della strada, della circonvallazione, e guardare in alto, e vedere apparire le terrazze e i fiori rossi nei vasi e i gerani delle canzoni di Ivano Fossati. E poi da lì alla fine delle curve scendendo troverete una crêuza, cioè una mulattiera, pietre e mattoni rossi, e una Salita (ma per voi sarà, a quel punto, una discesa) che si chiama Montebello e al numero dodici una casetta rossa che è stata la mia, tanti anni dopo l’inizio di tutto.

La Genova di Boccadasse

Quando ormai già ero a Parigi ma volevo che Genova cessasse, almeno un po’, di essermi straniera: e mi sono ritrovato in questa casetta solitaria, incastrata per caso apparente tra i palazzi e le strade, appena sotto Corso Dogali dove è nato Eugenio Montale e appena sopra la Via Balbi dell’Università e di Sanguineti. E per mia figlia nata a Parigi quella casa era “Genova”. “Andiamo a Genova” per lei non voleva dire, come era stato per me, andiamo in centro; voleva dire “andiamo in quella casa”. E fuori dalla porta, davanti a quella casa che era Genova per lei, giocava con i gatti come si fa in campagna.

I gatti poi ti dicono di scendere in fretta giù per la mulattiera, e all’inizio della Salita Santa Brigida, davanti a te, dall’altro lato della strada, ritrovi il truogolo del capitano cieco, e accanto a te una lapide; con nomi e una data. Qui le Brigate Rosse hanno ammazzato il giudice Francesco Coco, e gli uomini della sua scorta con lui (perché la giustizia forse no, ma la morte è uguale per tutti). Bum bum, bum: è successo in un giorno degli anni Settanta quando io ero bambino e magari chissà, proprio mentre guardavo il profilo del Duce disegnato dalle ombre sopra la sezione del Partito. Hanno aspettato che uscisse dalll’Università, e gli hanno sparato, perché volevano fare la rivoluzione e il giudice Coco era considerato nemico della succitata rivoluzione e quindi due più due fa quattro.

Quando ci penso, che il tempo è passato, scrive Sanguineti. La rivoluzione non c’è stata, e da quella lapide della salita Santa Brigida, in due passi, si è di nuovo alla stazione di Genova Principe. Da qui, volendo, si può tornare a prendere il treno per il ponente, e il nastro ora si riavvolge. Ansaldo San Giorgio Sestri; Pegli luccicante di mare dove la Villa Pallavicini ti attende silenziosa e paziente, con la sua misteriosa pagoda e una ragazza, sola, perduta, a disegnar. E poi Prà (o Pra’, con l’apostrofo? Ma in fondo è un dettaglio). Lì, nel palazzo dove vi fu la sezione del Partito e ancora prima la casa del Fascio, non c’è più ombra, non c’è profilo, non ci sono macchie. Neppure a volerle vedere. E adesso io dubito del mio ricordo. Si tu n’as plus d’ennemi, c’est qu’il a vaincu, scrive un poeta francese, André Frénaud, in un libro che si chiama “Il silenzio di Genova”. Se non hai più un nemico, è perché ha vinto. Ma io non lo sapevo, che era una partita; e così Genova che non mi lascia – mia fidanzata, bagascia – mi ha fregato anche questa volta.

Se vi capita di andarci, o se vi capita di viverci: “ditele che la perdono, per averla tradita” (n.d.r. Francesco de Gregori, nella canzone “Atlantide”).

Maurizio Puppo

Publié le 29 août 2014

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Maurizio Puppo
Maurizio Puppo, nato a Genova nel 1965, dal 2001 vive a Parigi, dove ha due figlie. Laureato in Lettere, lavora come dirigente d’azienda e dal 2016 è stato presidente del Circolo del Partito Democratico e dell'Associazione Democratici Parigi. Ha pubblicato libri di narrativa ("Un poeta in fabbrica"), storia dello sport ("Bandiere blucerchiate", "Il grande Torino" con altri autori, etc.) e curato libri di poesia per Newton Compton, Fratelli Frilli Editori, Absolutely Free, Liberodiscrivere Edizioni. E' editorialista di questo portale dal 2013 (Le pillole di Puppo).

5 Commentaires

  1. Genova…per me: Ditele che la perdono, per averla tradita.
    Che bell’articolo, pieno di vita e di dolore. Più che essere un ligure, un fascista, un comunista o meno, essere solamente un uomo. Di quello, si`, abbiamo gran bisogno. Grazie.
    E.M.

    • Genova…per me: Ditele che la perdono, per averla tradita.
      Cara Eleonora, ho letto il suo commento al mio pezzo su Genova, e mi ha fatto molto piacere. La ringrazio davvero.
      Maurizio

  2. Genova…per me: Ditele che la perdono, per averla tradita.
    Come genovese espatriata da tempo, con un rapporto di amore e
    odio (forse e’ una parola troppo forte), ho letto con gran piacere il suo articolo. La prossima volta che andro’ a Genova, ci ritorno tutti gli anni avendo ancora familiari lì,
    lo portero’ con me per andare a vedere ‘meraviglie’ che mi erano ancora sfuggite.
    Grazie

    M Cristina Mauceri

    • Genova…per me: Ditele che la perdono, per averla tradita.
      grazie — tra genovesi espatriati (da tempo, anch’io!): ed è vero per tutti noi, le più grandi meraviglie sono sempre quelle che ci sono sfuggite. Un saluto, maurizio

      • Genova…per me: Ditele che la perdono, per averla tradita.
        Leggo il suo meraviglioso articolo soltanto oggi a molta distanza temporale dal suo rilascio, ma non posso esimermi dal ringraziarla o semplicemente dirle touché e chapeau.

        Mi spiego, anch’io sono uno di quei ragazzi che è cresciuto sentendo dire « andiamo a Genova ». Un marchio inconfondibile per chi ha l’orgoglio di venire dalla città di Sestri Ponente,l’altra Genova. Prendevo il suo stesso treno, soltanto qualche anno dopo, ma invece che al 6 mi fermavo al 5 di via Balbi. Tutta un’altra storia in un solo numero.
        In quegli anni, ricordo di aver incrociato tante volte Sanguineti, che passeggiava sul marciapiedi di fronte. Sinceramente, allora, non suscitava il mio interesse. Ricordo però la deferenza con cui veniva additato. A Balbi 5, il divo era però il meno poetico Victor Uckmar.

        Da anni ormai, ogni mattina mi sveglio in un palazzo del trecento in via Luccoli, da dove la saluto e ringrazio nuovamente, perché certe cose non le avevo proprio mai notate.
        Per tornare alle similitudini, io non sono espatriato a Parigi, ma solo perché l’avevano già fatto i miei, che poi alla fine erano tornati a Genova.

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