La fretta del progresso

Il presunto scontro di civiltà nell’era della globalizzazione nasconde il conflitto sul presunto valore della modernità. Nel medioriente è ancora considerato un tabù, ma c’è la primavera araba con tutte le sue contraddizioni. In occidente l’eccesso di velocità genera una società dell’ansia e della frustrazione. L’emblematico caso Italia.

“Caro Umberto….” biascica Franco “Il futuro semplicemente non c’è e lo sai bene. Quello che stiamo vivendo è brutto brutto, il nostro futuro è l’inferno. Basta guardarsi intorno per scoprire quello che ci aspetta. Già viviamo imputriditi da una volgarità estrema che passa attraverso la banalizzazione di tutte le idee e di tutte le cose, attraverso l’esibizione di un’assoluta assenza di pudore… Ti viene voglia di cancellare tutto. Noi andiamo a girare nei quartieri distrutti di questa infelice città dove non c’è nemmeno la possibilità di vivere e comunicare il dolore da parte della gente che vi abita. Ma anche comunicare, anche denunciare è diventato inutile perché la denuncia fa parte della retorica del consumo…” [[(Da “In senso cinico” _ Conversazioni a cura di Umberto Cantone, intervista a Daniele Cipri e Franco Maresco. Ed. La Palma Palermo 1993).

Emblematica la frase di Franco Maresco se si considera che il citato libro, da cui è tratta, è del 1993, anno chiave per l’Italia, nel passaggio tra l’ideologico della prima repubblica e il post-ideologico che caratterizzerà la cosiddetta seconda repubblica n.d.r.]]

CHIA-2.jpg Si certo, il tema è l’eccesso di velocità ma potrebbe essere fin troppo facile oggi dire meglio calmarsi, rallentare. Oggi in piena crisi economica mondiale. Ma è veramente facile farlo? E’ cosi? Davvero conviene?

La prima idea che viene in mente, pensando alla velocità, è la modernità. Ma cosa è il moderno? Potremmo dire che moderno è cio’ che semplicemente è del tempo presente, contemporaneo, che rispecchia i gusti presenti quasi in contrapposizione a quelli passati. Se ne ricava che la modernizzazione, ha come risultato il modernizzare ovvero il rendere moderno o più moderno, ovvero al passo con i tempi.

Ma torniamo al primo assunto perché velocità si rapporta a modernità? Come visto il moderno ha che fare con il tempo e precisamente con la sua dimensione presente; ma, come è facile intuire, il presente è il tempo meno storico, se il passato è la storia e il futuro è la prospettiva storica, è evidente che il presente con il suo fluire è in un continuo suo naturale movimento, diversamente dal passato che conosce solo un movimento di riflessione ed interpretazione e dal futuro che si fonda sulla statica del progetto e alpiù sulla dinamica delle possibili proiezioni sempre successive ad avvenimenti di attualità. Sostanzialmente il passato e il futuro sono statici mentre il presente è dinamico e quindi puo’ avere una sua lentezza oppure una sua velocità.

Ecco, che una costante ricerca del moderno impone una velocità di realizzazione e di appropriazione, dei modelli, delle tendenze e delle nuove consuetudini che vengono inscenate dalla modernizzazione e dai suoi contenuti. In questo senso, non è un caso che nel tempo l’essere al passo con i tempi, l’essere moderni e quindi la modernità hanno finito per essere non più un modo di vivere o di pensare ma un “valore” in sé.

Un valore ideologico assoluto e, in buona sostanza, sociologicamente e politicamente trasversale, che prescinde dagli orientamenti filosofici e/o politici. Nella società occidentale (il concetto è un po’ improprio, bisognerebbe parlare di società a modello produttivo e capitalistico di origine occidentale, visto che in questo valore si riconoscono in buona sostanza, la vecchia Europa, la giovane Australia, ma anche l’America o le Americhe volendo aggiungere le insorgenti società Brasiliane o Argentine, ma anche paesi come il Giappone, la Cina, l’India, la Corea del Sud, la Taillandia ad esempio, che, seppure con contraddizioni e conflittualità presenti e sempre pronte a riemergere, sembrano oggi affidarsi a questo “valore” della modernità) cio’ che non è moderno, quello che non è progresso è immediatamente l’opposto, ovvero antico o peggio vecchio, regresso, involuto, ed ideologicamente considerato reazionario.

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La progressione è l’attualizzazione della modernità, che tiene insito in sé l’idea di progresso, ovvero dell’avanzamento, dello sviluppo che poi n’è un sinonimo. Il progresso, nella nostra accezione, è l’anima di questo “valore” della modernità ed in un certo senso costituisce esso stesso un “valore”. Al punto che in alcuni paesi ci sono stati partiti che si sono definiti o, addirittura, nominati progressisti, quindi fautori di una idea di progresso, fautori di un’idea della innovazione sia pure in campo sociale e/o politico. E’ talmente un valore che al pari del “non essere” moderno, il “non essere” progressista, costituisce, ormai da tempo, un motivo di critica e di stigmatizzazione.

Progresso e modernità in quanto “valori assoluti”, le virgolette non sono casuali, secondo questa interpretazione che informa i modelli per cosi dire occidentali o pseudo tali, non ammettono di essere messi in discussione e, pertanto, sono fondamentali in ogni campo, nella scienza come nella tecnica e quindi nell’industria come nella moda e nel modo di vivere, fino nel privato; fare progressi negli studi, progressi nell’amicizia. Progresso indica quindi un miglioramento, un divenire o un essere migliori. Essere a passo con i tempi innesca un processo emulativo e poi di omologazione. Un valore che diventa identificativo di una civiltà. Verrebbe da dire con termine prossimo al religioso, un valore “fondamentalista”

new_406c4221cf589.jpg Ma il rapporto con la modernità, inteso in tal senso, non è lo stesso ovunque. La differenza con il mondo mediorientale, con i paesi del golfo arabo, con alcune aree dell’Asia, salta immediamente agli occhi, se si pensa al fenomeno della moda.

Non mi soffermo sull’Africa equatoriale che subisce ancora oggi, nei suoi modelli di sviluppo, le influenze coloniali e neocoloniali del suo recente passato storico, e dove il recupero di una propria definita identità sembra una battaglia ancora lontana dall’essere vinta.

In un qualunque paese occidentale, verificheremmo facilmente una evoluzione dello stile e dell’abbigliamento ad esempio, dalla “Bella epoque” ad oggi. Una differenza, che balzerebbe agli occhi con estrema facilità. Viceversa, è difficile verificare analogo cambiamento di stile, specie nell’abbigliamento femminile, in una società mediorientale. Nello Yemen o nel Pakistan sostanzialmente non si riscontrano negli ultimi quattrocento anni, significativi cambiamenti nel vestirsi.

Bando a commenti di ordine di valore o di giudizio, che nella loro soggettività direbbero poco o nulla, quello che è interessante è l’idea di progresso e quindi di sviluppo produttivo e di ripartizione della ricchezza in rapporto all’evoluzione sociale e delle abitudini e stili di quel mondo.

Peraltro, questa discrasia di culture, nel tempo della globalizzazione, costituisce uno degli aspetti di maggiore conflittualità e contraddizione tra le società del nostro tempo. Un tema che crea non pochi imbarazzi nella formazione del pensiero politico, ma in concreto anche nelle azioni di governo quando i governanti si trovano a confrontarsi con realtà culturali, morali e psicologiche cosi disomogenee, all’interno dei propri Stati.

E’ evidente che questi paesi mediorientali hanno avuto un progresso scientifico. L’Iran è prossimo alla conquista nucleare, se poi sia un’effettiva conquista è sentenza che lasciamo ai posteri. Alcuni, paesi del golfo arabo ostentano una modernizzazione nelle architetture davvero spinta e ambiscono, a proposito di velocità, ad essere sede di gran premi di formula 1 automobilistica. Anche se questa modernità appare ancora un valore per pochi che siano carichi di petrodollari, mentre i costumi e la società, nel loro privato, restano sostanzialmente, quelli di svariati secoli or sono. Ma tolti questi facili esempi è evidente che le velocità di questi due mondi è diversa.

Nelle società teocratiche e anche in quelle che non lo sono dichiaratamente, ma dove l’elemento religioso continua ad avere un peso frenante alla velocità, la velocità evolutiva in generale è estremamente rallentata. In quello che abbiamo definito occidente, viceversa, con il pensiero positivista, contrastando come non scientifici i dogmi religiosi, partendo dall’idea dell’imperfezione umana, si è giunti ad una visione evolutiva segnata dal progresso come percorso, sempre rettificabile, alla continua ricerca del perfettibile, se non del perfetto. Un tema che fu di estremo interesse fra gli altri per Durkheim, Max Weber e lo stesso de Tocqueville che ne fecero in qualche modo premesse dal loro pensiero filosofico e sociologico.

Per le società a base teocratica, la perfezione è nelle cose di dio e quindi, in quanto la stessa società degli uomini è una cosa di dio, essa tende all’immutabilità, e qualsiasi variazione (nucleare incluso) deve inserirsi, paradossalmente, in un quadro che dovrebbe restare immutabile.

E’ un po’ la disputa che in altri tempi (come magnificamente riportata da Eco nel suo Il nome della rosa) contrapponeva in occidente una Chiesa che si voleva immutabile ad un’idea aristotelica del progresso (come nella famosa disputa sulla comicità oggetto del succitato romanzo).

solitudeB.jpg In effetti, quanto avvenuto di recente, con il pessimo film americano su Maometto, che ha scatenato delitti e distruzioni in molti paesi mediorientali, sarebbe avvenuto nell’Europa del medioevo o ai tempi dei crociati. La laicizzazione progressiva di quel continente, e di chi si rivolge a quel modello o “valore” di modernità, fa oggi che, ad esempio, venga premiato all’ultima mostra del cinema di Venezia, il film dell’austriaco Seidl in cui vi è la scena di una fervente cattolica che si masturba con un crocifisso, eppure nessuno cattolico o protestante ha bruciato il Lido di Venezia o chiesto la testa del regista.

Certamente, non va sottovalutato che l’immutabilità teocratica di quei paesi è oggi messa in discussione dalla Primavera araba, che alla luce delle vicende libiche, con l’uccisione dell’ambasciatore americano, si tende, a mio avviso erroneamente, a sminuire di valore.
Lo stesso successo dei Fratelli Musulmani in Egitto, nelle prime elezioni libere nella storia di quel paese, non va letto come una contraddizione.

Chi conosce nel profondo quelle realtà, sa che il successo di quel partito è equivalente alla vittoria della Democrazia Cristiana nel nostro immediato dopoguerra. La vittoria del moderatismo nei confronti di alternative progressiste (per restare nel tema) non ancora organizzate e sicure. L’alternativa sarebbe stata il successo degli eredi del passato e decaduto regime. A suo modo, quella vittoria dei fratelli musulmani, va intesa come un progresso, un’evoluzione, un segno di modernità.

Tuttavia, quella primavera non necessariamente dovrà avere i connotati della nostra modernizzazione, a meno che non si pretenda di avere un modello egemonico di valore da imporre all’intera umanità.

E c’è di più. Alla distanza questo modello sorgente ed in evoluzione della primavera araba, potrebbe mettere in crisi il nostro modello, che è in evidente ed effettiva crisi, ufficialmente dal 2007/2008 ma in modo latente da moltissimo tempo, come sosteneva fra i tanti inascoltati lo stesso Zygmunt Bauman e prima di lui lo stesso Paul Krugman.

Anche perché la crisi dell’impropriamente chiamato occidente (si dovrebbe parlare anche di realtà come Cina, India, dove ci si dibatte tra arcaico e moderno con evidenti contraddizioni, o ad esempi come il Brasile dove si registra una riduzione delle diseguaglianze e la stessa idea di progresso non è coincidente con la nostra), non permette a queste neo-democrazie di vedere in quel modello, un modello da acquisire in tutto e per tutto.

Cosa non ha funzionato nel nostro modello?

E’ assolutamente evidente che la modernizzazione dell’Europa e dell’America ma anche del Giappone e finanche in paesi come l’India o nella dittatoriale Cina, ha contribuito nei primi casi all’affermazione della democrazia e della democratizzazione, pure nei paesi fino ad oggi retti da dittatura o caste, penso all’India, una democratizzazione ancora acerba, piena di conflitti e difficoltà, ma si tratta pur sempre di processi storici che richiedono i giusti tempi di maturazione.

Culturalmente negli ultimi quarant’anni hanno pesato e molto le teorie neoliberiste che coram populo sembrano essere le prime indiziate dell’attuale crisi economica mondiale (forse la peggiore degli ultimi secoli). Alla base di quei principi vi erano una deregulation assoluta del mercato e della finanza, una corsa a realizzi economici immediati e di breve ma anche lungo periodo, una esaltata valutazione della speculazione finanziaria ad assoluto svantaggio dell’economia reale; ovvero di quella economia che si fonda su politiche industriali, sulla occupazione e sullo scambio di cose alla luce del sole e sotto ferree regole di commercio ed impresa. Peraltro queste teorie neoliberiste si sono innescate su una idea di modernizzazione come appunto “valore” e non come modo o modello di vita. Finendo, per non riempire di contenuti reali e di veri valori quella parola moderno, che è sembrata sempre più caratterizzata dalla semplice omologazione ad un modello consumista, che la crisi dei consumi a sua volta mette in crisi.

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Il tutto attraverso uno spregiudicato uso di strumenti persuasivi (in primis la televisione) di massa, la svalutazione di valori ritenuti fin li “sacri” per qualunque democrazia a vantaggio di disvalori per i quali semplicemente tutto quello che non è vietato dalla legge è permesso; come se legge e morale dovessero sempre e comunque coincidere. Una cosa che non è cosi come potrebbe dire anche uno studente del primo anno di giurisprudenza. Senza considerare che chi nel mondo ha applicato queste dottrine spesso l’ha fatto anche ben aldilà delle stesse leggi.

Si potrebbe discutere sul concetto di morale, ma non è quello che in questo momento m’interessa, anche se posso dare per certo che la morale abbia una sua origine religiosa, ma nel corso del tempo si è andata affermando una sorta di morale laica che è a presupposto del contratto sociale che lega i consociati di qualsivoglia polis o paese.

Piuttosto, mi sembra rilevante notare che la velocità che ha caratterizzato il XX secolo, non a caso ricordato come il secolo breve, è oggi messa in discussione da una generale riconsiderazione del modello di vita. Già da alcuni decenni sociologi come Radovan Richta o Alain Touraine su opposti fronti e partendo da ottiche diverse, segnalano la necessità di ridefinire lo scopo della vita di ogni uomo e quindi dell’umanità. Un’umanità che in estrema utopia (ma l’utopia è spesso la stella polare del vero progresso) dovrebbe addirittura liberarsi dalla schiavitù del lavoro.

Questo per dire di un recupero della vita non più attraverso un consumismo spinto (lavoro, produco, consumo), ma attraverso un consumo ragionevole e funzionale alle aspirazioni di ciascuno (se ne ricaverebbe un lavoro ragionevole, una produzione ragionevole, un consumo ragionevole).

Questo innescherebbe anche una rivalutazione, nella diversità dei consumi, e contrasterebbe con l’omologazione che tende ad annullare le differenze di ciascun gruppo sociale e finanche quelle individuali. Un contrasto all’omologazione salutare, in questi tempi di globalizzazione, dove la capacità di accoglienza verso gli altri deve coniugarsi con la propria identità culturale, e dove ben venga anche all’interno di ogni comunità l’idea di una tollerante e tollerata diversità.

L’eccesso di velocità crea smarrimento. La sensazione falsa di seguire una linea retta che retta non è (credo si possa sostenere che la Storia non è materia coerente) determina il pericolo di uscire fuori strada e di doversi fermare e per molto tempo, prima di ritrovarsi.

Una velocità incontrollata ha portato le nostre civiltà a doparsi con falsi modelli e con disvalori che hanno finito per colpire i nostri modelli socio-educativi e per minare la stessa coesione sociale dei nostri sistemi, generando una società dell’ansia, soggetta a perdita d’identità, ad una volontà critica di ciascuno piegata dall’incapacità di adattamento a modelli disumani di liberismo che contrastano con il percorso storico verso la democrazia, che, a mio avviso, seppure in crisi, resta ancora il migliore dei mondi possibili.

voielles_03.jpg Il caso Italia è l’esempio più lampante di quanto sostengo.

In Italia le teorie neoliberiste, anche mal applicate (a questo punto direi fortunatamente), hanno, negli ultimi quaranta anni, generato distorsioni ed anomalie politiche come il craxismo e il berlusconismo ed ancora oggi le maggiori difficoltà alla realizzazione di una democrazia sostenibile, provengono da tendenze populiste e dalla ricerca omologativa dell’unanimismo.

Distorsioni verificabili empiricamente sia in chiave globale che in sede locale. In generale, la crisi delle ideologie e la fine del socialismo e del capitalismo tradizionale hanno prodotto un indebolimento della politica a dispetto di una economia che si è saputa riorganizzare in pochi gruppi di potere capaci, in scala mondiale, di agire e manovrare su tutti i mercati condizionando le stesse scelte di politche nazionali e continentali come la fluida e contraddittoria storia recente dell’Europa dimostra.

In Italia, ad esempio, valori come la solidarietà vanno riscoperti, e la stessa tenuta psicologica dell’italiano medio è messa a dura prova dalla velocità e confusione di messaggi che arrivano da ogni parte. Bisognerebbe restituire agli italiani la capacità di avere una visione libera e critica del mondo che li circonda. Di recuperare una piena fiducia nelle proprie istituzioni e nella politica che dovrebbe ispirare, attraverso i suoi valori, anche la quotidianità di ciascuno di noi.

Appare, pertanto evidente che alla primavera araba, dovrebbe seguire una primavera dell’occidente nella sua più ampia accezione, (non va bene quel nostro atteggiamento, da maestrini, sostenuto rispetto ai giovani arabi che morivano per il loro futuro). Una primavera dove la politica, partecipata e non subita dai cittadini, dovrebbe ritrovare la sua centralità, dopo mezzo secolo di sostanziale smarrimento di ideali, con soggetti politici privi di coerenza, con episodi da basso impero che un po’ dappertutto ed ancora oggi, hanno incrinato il valore alto che la parola democrazia aveva.

Insomma, quel 99% che emblematicamente infiamma Wall Street, come gli indignados delle diverse piazze del mondo, deve uscire vincente dalla protesta ed avviarsi ad essere, attraverso rinnovati soggetti politici, forza di proposta e di autentica modernizzazione.

Questo riporta in primo piano l’abbandono degli eccessi di velocità e il contemporaneo riscoprire un’idea della vita che si coniughi all’idea di uno sviluppo che sia nella dimensione del rispetto umano dove ai disvalori di una concorrenza senza regole, di una corruzione strumento per ogni necessità, si oppongano altri valori più pacifici e condivisi come quello del rispetto delle regole comuni, del senso di comunità, del valore del merito, della redistribuzione della ricchezza che favorisca il bene comune contro un deviante bene egoistico ed esclusivo. Dove ritrovi fiato anche l’idea di Storia, come eredità da cui attingere, esperienza fondamentale per uscire da un modernismo tutto centrato sul presente e che divenga invece, prospettiva del e per il futuro. Un futuro vissuto senza eccessi, ma con una velocità responsabile e controllata.

(le immagini sono opere della transavanguardia italiana dei pittori Nicola De Maria, Sandro Chia, Mimmo Paladino, Carlo Maria Mariani e Alberto Abate. Nel video: Cinico TV di Cipri e Maresco).

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Nicola Guarino
Nicola Guarino, nato ad Avellino nel 1958, ma sin dall’infanzia ha vissuto a Napoli. Giornalista, già collaboratore de L'Unità e della rivista Nord/Sud, avvocato, direttore di festival cinematografici ed esperto di linguaggio cinematografico. Oggi insegna alla Sorbona presso la facoltà di lingua e letteratura, fa parte del dipartimento di filologia romanza presso l'Università di Parigi 12 a Créteil. Attualmente vive a Parigi. E’ socio fondatore di Altritaliani.

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