Piero Paladini e il ciclo di Acaya – La costruzione di un’opera.

Da qualche tempo a questa parte, sono immancabili l’offerta e la domanda turistica per un territorio quanto mai affascinante, che offre storie, colori e odori capaci di avvolgere visitatori e indigeni di una medesima, forte atmosfera: il SALENTO.

Perché è così: chi vi arriva per brevi soggiorni ne rimane piacevolmente colpito, addirittura incantato; paesaggi, scorci urbani, bellezze naturalistiche, ospitalità: tanto da vedere e, sempre di più negli ultimi anni, anche da fare. Numerosissimi gli eventi in programma nelle zone più note e in quelle remote, dall’ormai ovunque famosa “Notte della Taranta”, proseguendo con il “Salento Finibus Terrae – Festival internazionale del cortometraggio”
e il “Salento Film Festival – Festa del cinema indipendente internazionale”, attraverso il “Salento Guitar Festival”, fino alle innumerevoli e variatissime sagre e feste paesane. Moltissimi i centri da visitare e poi l’immancabile Lecce, la perla del Salento, con il suo Barocco e la sua pietra dorata, che le mani di abilissimi e spesso ignoti scalpellini hanno trasformato in finezze da merletto.

Il castello di Acaya

Oggi però vogliamo rivolgere un invito a chi da turista è disposto a trasformarsi in viaggiatore, per darsi il tempo di conoscere realtà più profondamente radicate in quella terra, e storie affascinanti che raramente trovano posto nelle guide. Soprattutto per cogliere presenze che appartengono alla vita contemporanea di un luogo che ancora combatte contro una certa marginalizzazione. Un luogo in cui la cultura, quella vera, che cresce quotidianamente e che non sempre si affaccia agli “eventi”, fa fatica ad emergere e a resistere, scansata per far posto ad attrazioni effimere, che non vantano radici, né continuità e ricerca. Dove la Storia, proprio quella con la S maiuscola, può essere raccontata da lu rusciu de lu mare [[Titolo di un antico canto popolare gallipolino, riportato in vita negli anni ’70. ]], il suono della risacca che ne accarezza i versanti ionico e adriatico.

C’è un tratto di costa, quella che va dalla località di S. Cataldo a Torre dell’Orso, che la calca vacanziera non permette di godere. Bisogna andarci d’inverno, o nelle stagioni dolci e intermedie, l’autunno e la primavera. Sulla scogliera bassa, di roccia bianca calcarea, calpestata dagli antichissimi Messapi e scavata per ospitare insediamenti rupestri e sepolture a ridosso dell’acqua, si ergono Torre Specchia e più avanti Roca Vecchia. Il vento ha scolpito le torri di guardia fatte edificare da Gualtieri VI di Brienne, duca d’Atene e conte di Lecce, che in Italia aveva cercato e ottenuto fortuna presso i principi francesi della casa d’Angiò, per divenire infine signore di Firenze; qui si apre la Grotta della Poesia, brillante e glauca, nella cui sorgente sommersa d’acqua dolce una principessa si bagnava e radunava i poeti accorsi da tutto il Meridione a comporre versi sulla sua bellezza.

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Inoltrandosi verso l’interno lungo le strette strade provinciali, tra gli olivi secolari, le masserie diroccate, i campi sterminati di oxalis pes-caprae (acetosella gialla, nel dialetto locale pappacitu, assai nota e mangiata), ecco l’apparizione surreale di un castello: siamo all’Acaya e la storia che lega questo lembo di terra alla Francia in qualche modo continua. Era ancora il 1266 quando Carlo I d’Angiò, appena divenuto sovrano del Regno di Napoli, ebbe tra i suoi cavalieri di sangue francese Gervasio della Chya, poi italianizzato in Acaya; molti i doni del re al suo feudatario, come i casali di Galugnano e di S. Cesario, cui il successore Carlo II aggiunse nel 1294 il borgo di Segine e alcune case in Brindisi [[O. Brunetti – M. Galeota, A difesa dell’impero: pratica architettonica e dibattito teorico nel Viceregno di Napoli nel Cinquecento, Congedo Editore, Galatina 2006; A. Monte, Acaya: una città fortezza del Rinascimento meridionale, Edizioni del Grifo, Grumo Nevano 1996.]]. Circa 240 anni dopo, proprio a Segine, Giovan Giacomo dell’Acaya, architetto imperiale, nominato da Carlo V supervisore di tutte le piazzeforti del Regno, edifica il suo capolavoro urbanistico, ingegneristico e militare: ristrutturata, Segine diventa la sua città ideale e da allora prende il suo nome [[F. Abbate, Storia dell’Arte nell’Italia meridionale, 3, Donzelli, Roma 2002. Una lapide datata 1535 e posta all’ingresso della città ne sancisce la conclusione e la nuova denominazione.]]. Oggi rimane esempio unico di città fortificata del Meridione giunta integra fino a noi.

Varrebbe la pena (e il lettore potrà farlo abbastanza facilmente, anche cercando in rete – ndr. clicca QUI) di soffermarsi sulla vicenda umana e artistica di quest’uomo del pieno Rinascimento, che incarna appieno il mito dell’artista totale: fedelissimo al vicerè di Napoli, lo spagnolo Don Pedro De Toledo, e benvoluto dallo stesso imperatore Carlo V, apprende ed elabora una cultura sofisticata e cortese, che agli insegnamenti di architetti insigni quali Matteo d’Afflitto, Filarete, i Sangallo e Francesco di Giorgio Martini, unisce le teorie naturalistiche di Bernardino Telesio, che gli danno agio di improntare l’architettura dell’uomo a quella dell’universo. Viaggia attraverso tutto il Sud d’Italia per visionare e intervenire sugli edifici militari, affiancato da Francesco Maria Della Rovere, duca di Urbino, con il quale sviluppa un’idea avanguardistica delle caratteristiche necessarie ai luoghi di difesa [[S. Pepper, Artisans, Architect and Aristocrats: professionalism and Renaissance military engineering, in D.J.B. Trim, The Chivalric Ethos and the Development of Military Professionalism, 2, Brill, Leiden 2003, p. 121.]]. Due matrimoni, numerosi figli, ma il prediletto, Manilio, nasce da una semplice relazione con Rebecca De Mitri: a lui confiderà le pene di una vita che si conclude nelle segrete del castello di Lecce, da lui stesso costruito, per aver fatto da garante ad un amico creditore insolvente.

Tracce storiche, reminiscenze che rischiano di divenire nostalgiche, sono state recuperate alla contemporaneità da un artista, Piero Paladini, nato e cresciuto negli stessi luoghi sopra descritti. La sua normale prassi estetica, esemplarmente realizzata nel ciclo di pitture ispirato alla vicenda esistenziale e artistica di Gian Giacomo dell’Acaya, si rivela – e volendo insegna – un metodo di conoscenza che ha molto in comune con la cultura e la sensibilità rinascimentale dell’antico architetto, in virtù di quella unitarietà delle conoscenze che fu il metodo eletto della cultura fino alla rivoluzione scientifica del 1600; un metodo che faceva lavorare l’intelletto coinvolgendo i sensi, convincendolo con le immagini e la fantasia, infine traducendo tutto in teoria finissima.

Raccontata da Paladini, la storia di Gian Giacomo dell’Acaya rifugge dalla mera illustrazione e si presenta come una costruzione complessa d’immagini, presentate sia sotto forma di icone figurative che di scrittura. Osservandole, è evidente che idee nuovissime s’intrecciano in una fitta rete di suggestioni tra le più varie, di tributi ai maestri del Trecento, del Quattrocento. E benché – si sa – un’opera d’arte sia tale quando nasconde il processo tecnico e mentale che l’ha portata a compimento, è bello percepire nelle tele e negli scritti le accelerazioni e le pause fatte dal pensiero creativo del loro autore, le commozioni, i deragliamenti della riflessione, le appropriazioni perfette di forme altrui che davvero, tra le sue mai, si trasfigurano per diventare lemmi di un linguaggio originale. Questo, in Paladini, è ormai una cifra inconfondibile che attraversa tutta la sua opera sin dagli esordi e sempre più matura e si affina. Insieme al segno riconoscibile e identitario, sovrana regna la contaminazione: tra la storia e l’invenzione, tra le epoche, tra il cielo e la terra.

Il percorso narrativo parte dall’ultima fase della vita dell’architetto del Regno e si snoda attraverso quindici tappe, quindici pitture acriliche dipinte su tela di juta [[Il ciclo in verità comprende nella sua completezza diciotto dipinti, tre dei quali sono stati realizzati dall’autore dopo aver approntato i testi e perciò non compaiono in quella sede]]. (Ndr. Vedi il PORTFOLIO in fondo all’articolo e i LINK utili.)

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Opera 1 – L’età dei sogni. Ospite nelle mie stesse camere, quelle più segrete, figlio mio, prendo a scriverti alcune mie memorie, prima che quelle fuggano via, anzi svaniscano, precedendomi [[I corsivi, anche quelli che seguono, sono tratti dai testi di Piero Paladini.]].

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Opera 3 – Battaglia ai francesi. L’intuizione è spesso premonizione e non bisogna averne paura, ma solo trarne spunto per assecondare il proprio destino…

Nessuna atmosfera sotterranea per il primo quadro, intitolato L’età dei sogni. Piuttosto, da lì in poi, le memorie fluttuanti di un’età di libertà e di immaginazione, quando l’adolescenza feconda trova i modi della sua realizzazione nell’età adulta, non senza aver percorso molte strade. Vediamo la realtà (quella dei cavalieri, delle cacce e delle battaglie, delle sirene che richiamano a sorti grandi e terribili, ed è già evidente che dietro la figura del Dell’Acaya c’è quella del pittore e forse anche la nostra), assorbita e trasformata nel sogno della vita, la cui sola presenza basterebbe a fare la realizzazione dell’esistenza. E possiamo apprezzare, per esempio nell’Opera 2 – Caccia alla volpe, il modo usato da Paladini per catapultare l’osservatore in un passato che sfugge alle cronologie: lo storico dell’arte vi riconosce la stessa impettita verticalità arborea che Botticelli pone nella sua raffigurazione della novella di Nastagio degli Onesti[[Boccaccio, Decameron, V giornata, 8. Il quadro di Botticelli cui si fa riferimento fa parte di quattro tavolette oggi disperse tra Madrid e Firenze: 1487, L’uccisione della donna, Madrid, Museo del Prado.]]. Oppure, in Opera 6 – Carlo Quinto, la regolarità della pavimentazione su cui i personaggi del Pinturicchio poggiano con stabilità[[ Pinturicchio, ciclo di affreschi nella Cappella Baglioni della Collegiata di Santa Maria Maggiore a Spello; in particolare, la Disputa di Gesù coi dottori, 1500.]], mentre qui i vuoti del cuore che accompagnano l’incontro tra Gian Giacomo e l’imperatore si mutano in levitazioni e galleggiamenti per aria. Ugualmente, riferibili ad Ambrogio Lorenzetti [[A. Lorenzetti, Allegoria ed effetti del Buono e del Cattivo Governo, affreschi nella Sala dei Nove del Palazzo Pubblico di Siena, 1338-1339.]] sono le architetture e i passi cadenzati delle cavalcature in Opera 7 – In viaggio per le vie del regno e in Opera 8 – Le grave, ma il racconto porta inesorabilmente altrove:

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Opera 8 – Le grave. Dopo due giorni di viaggio, sulla via che da Napoli portava a Giovinazzo, d’un tratto la terra si presentò divisa in due sotto i nostri piedi (…). Ciò che ai nostri occhi apparve straordinario fu il vedere un intero feudo sottoposto al terreno, in un luogo avulso dalla naturalezza (…) e fu in sogno che vidi quella città apparentemente deserta prendere vita, e lì uomini capaci di sfidare l’aria volteggiare da una torre all’altra.

E mentre si disfa ogni sentore di mera imitazione, compare sotto i nostri occhi la pittura pura, quella capace di riprodurre non ciò che vede, ma ciò che l’artista dice di quanto ha visto [[Pensiero da riportare a P. Picasso.]]. Il personaggio storico, gradualmente, scivola a poco a poco verso un passato a-storico, che potrebbe benissimo essere un presente divinato da antiche forme. Egli diviene solo, esemplarmente, uomo, con le sue mani, la sua opera, il suo fare:

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Opera 11 – L’idea di uomo. (…) un solo uomo è l’idea di una moltitudine di uomini diversi ma eguali, come dire che l’acqua è la domanda e nel terreno vi son le risposte, sempre dissimili e meravigliose.

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Opera 12 – La costruzione di un’opera. (…) con tale presupposto affrontavo la realizzazione di ogni mio progetto, ponendomi dentro e fuori di esso, per non perdere mai di vista il mondo che era attorno e che lo avrebbe contenuto (…).

Ci si potrebbe chiedere se la pittura di Piero Paladini sia una pittura anacronistica: in considerazione delle tecniche adottate, che ne ripropongono “vecchi” fondamenti quali il disegno, un uso eletto del pennello e della tela, stesure accurate; ma anche in conseguenza della totale mancanza in essa del glamour e di quella certa inverecondia che accompagna molti fra gli attuali innumerevoli prodotti d’arte. La risposta è senza dubbio negativa. Come afferma Luciano Caramel[[L. Caramel, Lo specchio magico della limpidezza figurale, in I luoghi della mente, catalogo della personale presso la Galleria Tornabuoni, Firenze, maggio 2004.]], la tecnica pittorica di Piero non è un obiettivo ma uno strumento, intrinsecamente legato all’iter necessario che dall’idea giunge all’opera terminata. È consuetudine corrente di molti artisti contemporanei, infatti, scegliere il mezzo della loro espressione aprioristicamente, ossia, non sempre video e nuove tecnologie, istallazioni e performance sono realizzate perché specificamente il loro linguaggio serva a veicolare determinati significati. Sempre più spesso, anzi, l’arte si presenta come “evento” – come sopra accennavamo – forzando l’effetto che il mezzo permette, limitando il senso a notevoli luoghi comuni e affidando la comunicazione a quel tipo di elaborazione concettuale, tipicamente contemporanea, capace di affermare tutto ed il contrario di tutto. Ciò che fa dire a Yves Michaud [[Y. Michaud, L’arte allo stato gassoso. Un saggio sull’epoca del trionfo dell’estetica, trad. di L. Schettino, Edizioni Idea, Roma 2007.]] che, ormai senza accorgercene, viviamo paradossalmente sommersi di “arte”, le passiamo accanto indifferenti visto che la fine del regime dell’oggetto d’arte non solo ha fuso quest’ultima ai prodotti provenienti da altri ambiti ma ne ha anche appiattito la funzione sociale, la portata filosofica, la necessità esistenziale. Segno dei tempi, indubbiamente: non necessariamente segno positivo e ineluttabile, se l’artista accetta la sfida di avere ancora un sogno, quasi a recuperare quell’idea ormai desueta di aura, spenta dall’inizio dell’era della riproducibilità tecnica [[Chiaro il riferimento a W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 2000 (4).]].

Anche Piero Paladini si lega al “concetto” ma il suo è di cifra diversa: ad esso egli affida la ricerca e ne sfrutta i limiti; le pause e le incapacità della logica, gli angoli bui alla ragione sono quelli in cui l’immagine arriva forte a tendere la mano per farsi afferrare e spostare il pensiero più in là; intanto l’artista dipinge e strato su strato decantano i movimenti e le attese dell’immaginazione abbracciata al ragionamento. Il pericolo insito nell’autoreferenzialità viene disperso attraverso la necessità del dato reale di partenza: che sia un personaggio storico, un lembo di letteratura, la mitologia o un ricordo d’infanzia, è sempre l’esperienza umana quella da cui l’artista comincia il suo viaggio. Certo, non la cronaca né l’aneddoto: fin troppo ci siamo abituati alla ripetizione tautologica della realtà che mostre, fiere, biennali propongono di continuo, per non parlare delle produzioni video, cinematografiche e televisive. L’esperienza umana da cui Piero procede nel suo lavoro è quella di uomini che abitano la terra da poeti [[Riferimento al verso attribuito a F. Hölderlin, tratto dal poema In amabile azzurro, tramandato da W. Weiblingen, Phaëton, 1823, in F. Hölderlin, Poesie scelte, a cura di S. Mati, Feltrinelli, Milano 2010, p. 284.]]. E ci piace sottolineare la parola “lavoro”, che implica impegno, apprendimento, elaborazione, pretesa. Perché forse è sostanzialmente questo che può distinguere oggi l’artista dal falso artista: la coscienza che la cosiddetta ispirazione, il gesto che pretende d’essere di per sé risolto o risolutivo non bastano più.

Anna Maria Panzera

LINK UTILI:

NEL PORTFOLIO IL CICLO COMPLETO DI ACAYA – OPERE DI PIERO PALADINI – CLICCA SULLA PRIMA IMMAGINE 

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Anna Maria Panzera
Anna Maria Panzera vive a Roma. Insegnante e storica dell'arte, collabora con istituzioni museali e universitarie per attività di ricerca, didattica dell'arte, formazione e comunicazione. Autrice di numerosi articoli su riviste scientifiche e divulgative, ha pubblicato vari volumi, tra cui, con L'Asino d'oro edizioni, "Caravaggio, Giordano Bruno e l'invisibile natura delle cose" (2011) e "Camille Claudel" (2016).

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