Ermanno Bencivenga, Filosofia: istruzioni per l’uso.

Non abito più nel mio villaggio natale dai tempi dell’università. Da qualche anno, inoltre, non abito più in Italia. Nei miei periodici ritorni a casa, mi capita di incontrare amici e conoscenti che non vedo da tempo, immancabilmente meravigliati e affascinati alla notizia delle mie peregrinazioni esistenziali. E poi arriva la domanda: “E che lavoro fai?” –“Faccio il filosofo”. La meraviglia si colora di perplessità. Se avessi detto di fare il cuoco, o il giardiniere, la mia risposta molto probabilmente sarebbe stata accompagnata da domande puntuali: “da quanto tempo?”, “dove?”, “ti piace?”, “guadagni bene?”, etc. Che cosa faccia un filosofo, del resto, non va da sé. Voi, ad esempio, siete proprio sicuri di saperlo?

Emiliano_1.jpgIl libro di Ermanno Bencivenga si apre più o meno così, evocando quell’insieme di sguardi perplessi e interrogativi di chi vorrebbe aver capito qual è il tuo mestiere ma, allo stesso tempo, non si raccapezza. Per sciogliere tale imbarazzo, l’autore si propone di spiegare “che cos’è la filosofia”, nella convinzione che essa sia una pratica, un’attività individuale che, per essere compresa, deve essere fatta. La definizione non precede l’oggetto che definisce, ma, per così dire, si fa con esso. Il lettore di questo libro non si troverà di fronte a una sequela di nozioni compiute da assimilare, ma ad una serie di situazioni ordinarie attraverso cui allenare la sua forza critica (krinein, che in greco significa separare, distinguere, discernere, giudicare). E questo nei territori più svariati: dall’etica alla metafisica, dai problemi relativi alle nostre percezioni ai misteri dell’identità personale.

Le pagine intelligenti di Bencivenga fanno emergere il senso di una pratica tanto ordinaria quanto, per molti aspetti, insolita, tenuto conto del funzionamento naturale di quell’essere complesso che è l’homo sapiens. Sì, perché la filosofia contrasta l’inerzia delle nostre abitudini, il loro cieco (e utile) automatismo, preservando nel nostro intimo il senso del possibile e dell’inimmaginabile. Se da una parte, infatti, i nostri comportamenti più efficienti (sul piano dell’adattamento biologico) sono quelli spontanei e incoscienti – una volta finito il periodo dell’apprendimento, nessuno pensa più a come lavarsi i denti, allacciarsi le scarpe, guidare una macchina, etc.: lo fa e basta –, dall’altra, l’ambiente che ci circonda potrebbe mutare all’improvviso, rendendo le nostre pratiche inutili e inadeguate. La filosofia, secondo Bencivenga, risponderebbe a questo paradosso, aiutandoci a conciliare la necessità di apprendere e quella di disapprendere. Tutto questo grazie al linguaggio e alla parola. Per la sua straordinaria capacità articolatoria, il linguaggio permette infatti all’uomo di costruire modelli di comportamento in situazioni diverse e inedite, di anticipare moltissime (se non tutte) le situazioni prevedibili, senza correre i rischi che comporterebbe il realizzare quelle situazioni. Al linguaggio io aggiungerei anche l’immaginazione, quella forza anticipante e realizzante che permette all’uomo di proiettarsi nel futuro, di cercare i possibili effetti del presente, di estendere nelle direzioni più disparate le sue possibilità vitali e orientare così il suo divenire storico.

Ma c’è un senso ancora più profondo nell’idea di filosofia di Bencivenga, che mi pare particolarmente urgente ritrovare nei nostri tempi confusi e invadenti. Fare della filosofia, e, da questo punto di vista, anche della “Storia della filosofia” (quella che si apprende nei manuali per intenderci), è un esercizio di dialogo interiore continuo, dove si incontrano le più diverse voci. Imparare a porsi delle obiezioni, a chiedersi “Perché ne sono sicuro?”, “Lui o lei cosa farebbero?”, mettersi insomma al posto dell’altro, significa educarsi a un’interiorità polifonica e agile, souple, capace di parlare molteplici voci. Filologia e filosofia sono quindi inseparabili. Colui che ama la parola ama la sapienza e viceversa, perché l’uomo è un essere che vive e si manifesta nel linguaggio, e attraverso il linguaggio realizza le condizioni di una buona vita, con se stesso e con l’altro.

Nella videosfera che avvolge le nostre metropoli postmoderne, il mercato di massa dei viaggi signoreggia e propone di partire lontano per ritrovare se stessi incontrando l’altro, il diverso. Ma basterà? «Alla fine del viaggio, ci troveremo di fronte lo stesso supermercato, gli stessi programmi televisivi, lo stesso MacDonald’s e probabilmente (a lungo andare) anche la stessa lingua. Quindi il diverso bisogna cercarlo dentro, in uno spazio privato in cui condurre i giochi più sfrenati, tentare le ipotesi più folli e vedere dove ci portano. Il diverso cioè sarà la filosofia a darcelo…».

Cercatelo in questo libro. Lo troverete in 5 capitoletti di cui, nel rispetto dello spaesamento che accompagnerà la vostra lettura, non ho voluto parlare.

Emiliano Ferrari

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