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La rivoluzione pacifica degli indignati e il sacco di Roma del recente 15 Ottobre e le speculazioni politiche. Il coraggio degli indignati che non si arrendono a chi cerca di seppellire con l’alibi della violenza una giusta protesta politica che se inascoltata potrà riservare brutte sorprese. Il dopo “berlusconismo” è incominciato. Si spera che il palazzo e i partiti se ne accorgano presto.

Nei due o tremila teppisti che scientificamente hanno messo a ferro e fuoco il centro di Roma, nella manifestazione del 15 ottobre degli indignati che in Italia come in tutto il mondo hanno protestato pacificamente, non c’è nulla di rivoluzionario. C’è invece molto di antirivoluzionario e tanto di una costante italiana che si ripete nella storia.

Spesso, nella storia della nostra repubblica, quando subentrano istanze di cambiamento e di rinnovamento nella politica, arrivano le provocazioni, se non peggio le stragi (di Stato) e il terrorismo con le sue negatività e il suo desiderio di allontanare i cittadini dalla scena della partecipazione civile e democratica che è poi l’essenza stessa della democrazia.

Tutti hanno visto e assistito dal vivo o in diretta nella rete e alla televisione, allo scempio che questi teppisti hanno fatto delle giuste istanze di chi protestava chiedendo, come in analoghe iniziative in corso in tante città del mondo, meno finanza e più vita, meno privilegi per pochi e più opportunità per tutti.

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Guerriglia urbana, l’aggressione non solo alle banche e alle forze dell’ordine ma finanche a case private e ad automobili di ignavi cittadini. Deve essere chiaro che tutto questo non aiuta gli indignati, non ne rappresenta lo spirito, volenti o nolenti, ne fossero coscienti o meno, coloro che hanno così voluto rubare la scena ad una sacrosanta protesta si sono fatti strumento di quelle forze del privilegio, del conservatorismo, che non accettano e non vogliono capire che il mondo è cambiato, e che in Italia il vento ormai gira contro il “berlusconismo” spargendone in giro le sue ceneri.

Gli indignati non sono solo protesta, sbaglia chi crede che seppure nella sua non granitica organizzazione, questo movimento mondiale non sia portatore di novità (queste sì veramente rivoluzionarie). Laddove l’occidente, ma anche l’oriente è rimasto muto, sordo e cieco, masse di persone, attraverso le sofferenze del proprio vissuto hanno raggiunto un grado di coscienza che da tempo non si verificava. La rete, le sue innovazioni hanno contribuito a diffondere un malessere comune, articolando un racconto di vita in cui ognuno riesce a riconoscersi.
Siano efferate e corrotte dittatura come in Libia o in Tunisia, oppure ammalate o false democrazie come in Italia o in Grecia, per citare solo due esempi, la rete è diventata la piazza della democrazia, il luogo in cui discutere e da cui convocarsi per esprimere il proprio malessere contro quell’autentica antipolitica che si sta consumando in tanti palazzi del potere sparsi nel mondo.

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Un mondo che sembra perdere i suoi storici riferimenti come la stessa America di Obama sempre più in fatica e in crisi. Un mondo che sembra aver smarrito il senso della vita e dell’umanità, che sembra favoleggiare un’esistenza vuota, fatta di apparenze con miti di ricchezza e benessere che sono costruiti su speculativi modelli di consumo, dove tra il mezzo e il fine non c’è più alcuna differenza.

Un mondo che non è retto più da equilibri politici e da confronti ideologici su quale modello di società per il futuro, ma che sembra retto da logiche finanziarie ed economiche transnazionali, da occulti gruppi di potere economico, difficilmente definibili e circoscrivibili ad un’area geografica piuttosto che un’altra. A questo mondo sembra asservita una classe politica che dalla Francia alla stessa America, passando per l’Europa e coinvolgendo le neopotenze come India, Cina, Brasile ed altre, sembra soggetta a queste logiche senza riuscire più a governare con l’economia i modelli di sviluppo. Una macropolitica che ha terribili ricadute sulla micro politica del vivere quotidiano delle persone. Ad iniziare dalla classe media che forse più di tutti soffre l’andamento apolitico di questa globalizzazione.

E’ così che un precariato senza fine si è sostituito alla certezza del lavoro, un’infima economia di borsa, fatta di giochi e speculazioni ha soppiantato l’idea e il modello di un’economia reale fatta di produzione. Un’economia di servizi si è sostituita ad un’economia di produzione reale. La stessa idea di città e di organizzazione della vita sembra funzionale non più alla produzione ma al solo consumo e forse neanche dato che i consumi sono giunti alla crisi dopo questa grande nuova depressione economica.

Una concezione della vita che fa dei nostri centri storici, desolanti agglomerati d’uffici che alla sera svuotano le strade di vita e di senso.
Gli indignati partono dal particolare ma il loro vissuto trova una sintesi che è comune alle diverse realtà sociali nel mondo. L’esempio italiano, pur con qualche distinguo è riferibile a gran parte del mondo. E spiega come la stessa equazione: più consumi uguale più benessere sia messa oggi in discussione, come molti dei luoghi comuni, specie delle più effervescenti tesi neoliberiste. Ad esempio sulle privatizzazioni da privilegiare sempre e comunque.

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In Italia, l’attuale recessione fa implodere i consumi e questo induce a riconsiderare il valore della stessa vita.
L’evidente vacuità di una società delle apparenze porta ad un sano ed inevitabile recupero di nuove socialità e alla convinzione che occorre riproporre, in forme nuove, un recupero dell’essere nella sua più intima e totalizzante accezione. Gli stessi ultimi referendum hanno dimostrato come nella domanda di partecipazione alla politica non solo come spettatori ma come protagonisti, ci fosse anche una netta scelta di modello sociale e di vita. Il no al nucleare significa sì sviluppare la ricerca su nuove forme di energia, ma anche, che i consumi energetici possono, nel medio termine, essere sacrificati e ridimensionati. Il no alla privatizzazione dell’acqua pubblica esprimeva ed esprime la convinzione che esistono beni materiali e aggiungerei morali che non sono negoziabili, come l’acqua. Il no alle leggi “ad personam” non esprimeva solo una protesta contro l’attuale agonizzante (politicamente) premier, ma contro l’idea di una società retta sulle caste e le lobby, sui privilegi, quasi come se non bastasse il dato summenzionato del 10% d’italiani che gestisce la gran parte delle ricchezze del paese. Questa convinzione non nasce ora, all’improvviso. Se si pensa al successo negli anni passati dell’editoria di denuncia contro le caste, in un paese che non è di grandi lettori, si capisce che il fenomeno era da tempo in maturazione.

Sono ipocriti tutti coloro che tendono ad assegnare l’etichetta di antipolitica a tutti questi movimenti di contestazione al degenerato modello politico e sociale che è sintetizzato forse in modo riduttivo come “berlusconismo”. La realtà è all’opposto. Sono proprio questi movimenti di indignati la parte più sana di un sistema politico assolutamente autoreferenziale ed incapace di analisi e sintesi sull’evoluzione dell’Italia e del mondo di oggi. Non è un caso che questo sistema politico cerca di liquidare questi movimenti, di ridurne il valore, di emarginarli o peggio isolarli o peggio ancora di confonderli con quei teppisti che a Roma hanno impazzato.

La vera antipolitica è quella del parlamento succube del capo del governo, che a sua volta è succube della propria irresponsabilità politica, strangolato da quella stessa corte di nani e ballerini che costituivano l’essenza mediatica del suo “regno” e che era consacrato sull’altare di Arcore nelle sere del bunga-bunga.
Ma anche l’opposizione nelle sue componenti maggiori non sembra avere il coraggio di abbracciare questa protesta fino in fondo. Si smarca dalle proteste dei lavoratori precari, alle raccolte per i referendum offre le tavole, ma non vuole comparire, ed ancora troppo sospeso tra i giochi di palazzo senza capire che il futuro è fuori da quei polverosi e stantii edifici.

Gli indignati sono la prova di come il quadro sociale sia cambiato e come non si possa il tutto ridurre nei modelli ormai superati degli anni settanta, ovvero con la classica divisione: centro, destra e sinistra. Del mondo variegato degli indignati va colta la concretezza della domanda politica, l’essenza della domanda, che se analizzata fa ben capire, ad esempio, come quei teppisti facinorosi che sfasciavano le vetrine davvero non c’entravano nulla con la manifestazione. Negli “indignados” ci sono persone che immaginano un’economia asservita alla politica e non una politica fatta strumento di pochi gruppi economici che muovono le sorti del mondo.

Tra i manifestanti c’erano persone che immaginano un mondo dove il lavoro sia un valore da difendere e valorizzare ed una società sana deve puntare su di essa altro che sul precariato o su forme di assistenzialismo. Credono in un paese che premi il merito, che rinunci alle ipocrisie. Pertanto, mettono in discussione gli ordini professionali e gli stessi titoli di merito, confidando di più nell’effettiva conoscenza e nell’effettivo valore delle persone. Quello degli indignati non è un mondo che invidia le grossolane ricchezze e i luccichii di Berlusconeide, semplicemente vuole abbattere questo mondo per costruirne uno in cui chi è il capo del governo lo sia non solo perché onesto (e già non è il caso italiano) ma perché è capace e perché mette in testa ai suoi pensieri il bene del paese che rappresenta, e non le convenienze sue e dei suoi.

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Questo mondo ha i suoi riferimenti interni ed internazionali (prima Naomi Klein e non ultimo Steve Jobs, che è stato colui che ha fornito i mezzi per un nuovo tipo di comunicazione, ma già si affacciano alla popolarità nuovi studiosi e ricercatori di questo pensiero del “movimento”), ha la sua creatività nel manifestarsi, ha le sue teorie estremamente pratiche, sempre frutto della durezza di una vita che spesso ha offerto poche speranze. L’istanza veramente rivoluzionaria è quella di avere un paese normale, che esca dalle droghe di un sistema economico che ad esempio premia chi non produce ma specula (si pensi alle tassazioni), un paese dove chi ha di più paga di più e chi ha di meno non è lasciato solo. Insomma, si vuole uscire da un mondo costruito sulle divisioni e gli egoismi per rientrare in un altro fatto di partecipazione democratica e solidarietà, ma questa volta, senza ipocrisie.

Ci si domanda una cosa che appare scontata, ovvero il perché ancora oggi le rendite finanziare, spesso frutto del gioco di borsa siano tassate per il 12% mentre il lavoro per oltre il 44%? Insomma un premio a chi gioca e una punizione a chi produce.
Dicevamo che ogni volta che il cambiamento si affaccia, arrivano le strategie delle tensione, gli anni di piombo, la ricerca costante di indurre tutti a rinchiudersi nel disperante solitudine del proprio particolare.

Questa volta però avviene che i nuovi strumenti e la rete impediscono manovre di questo genere. E, la più grande risposta del movimento è stata la solidarietà verso le forze dell’ordine, a loro volta vittime di questo sistema che ne penalizza il lavoro e le possibilità, ma non solo la collaborazione degli stessi indignati nel ricercare questi teppisti affinché fossero consegnati alla giustizia. Ancora una volta l’azione politica e rivoluzionaria di chi protestava è stata quella di dimostrare che in realtà la politica oggi sono loro e l’antipolitica è quel governo asserragliato sulla difesa dei suoi privilegi e un parlamento di non eletti, ma di nominati che pensa solo a difendere i propri parlamentari anche contro l’evidenza dei fatti, anche se si tratta di persone indagate per mafia, o corruzione.

Ecco, oggi è il paese reale che è politico l’altro è un paese che vive un mondo parallelo drogato da un’informazione sempre più evanescente e mortificata dalle logiche di potere esercitate dai potenti di turno. Rispetto a questo l’opposizione, a cui va riconosciuta anche una onestà di fondo (ma l’abbiamo detto l’onestà non basta!) si dimostra incapace di rappresentare queste istanze finendo per allungare questa diversità.

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La realtà è che quella che noi chiamammo:
La primavera italiana, dovrebbe attraversare anche il mondo partitico che dovrebbe rendersi conto che oggi non è minacciata ad esempio, solo una classe operaia sempre più ridimensionata e sempre meno incidente sulla realtà sociale, ma la classe media e che essere moderati oggi non significa come un tempo essere automaticamente di centro o peggio democristiani.

Ed ancora che senso ha dirsi conservatori in questa fase? Conservatori di cosa? Del “berlusconismo”? Tra l’altro storicamente i conservatori quasi per statuto mirano al consolidamento di un modello e sistema sociale radicato in decenni ed ispirato ad alcuni valori più o meno solidi fondanti la società e francamente questo non ci appare nella svolazzante società italiana della seconda repubblica o del tardo impero (ci si consenta la battuta) della prima, capace ogni giorni di dire tutto e il suo contrario.

In tal senso trovo limitativo un discorso di preferenze ideologiche da vecchio stampo, la sinistra con la sinistra, il centro con il centro e la destra a destra. La realtà è che comprese le istanze di questo 99% del mondo, le ricette o le ideologie dovrebbero dare risposte a questo. Quindi sul benessere, sull’ambiente, sull’incidenza dell’economia nella politica, sui privilegi, sul modello produttivo e di lavoro e finanche su come sviluppare le città, le differenze culturali di un mondo globale.

Troverei tedioso porci il problema delle classi agrarie (ormai ridotte a lumicino) se non domandandosi cosa significa, ad esempio, la distruzione dell’agricoltura per favorire operazioni finanziarie.
E’ del tutto evidente che la sinistra di oggi è molto più rappresentata dalla classe media che magari da una classe proletaria del nord Italia (ma come è oggi la classe proletari) che magari è culturalmente più vicina (credo ancora per poco) alla Lega.

Del resto nella stessa Francia, Hollande sembra molto più attento alla difesa della middle class che unicamente alla classe operaia.
L’abbiamo detto e ripetuto sarebbe un errore confondere come fanno alcuni i conservatori con i moderati. I moderati amano il progresso. E progresso e conservazione non sempre coincidono.

Nicola Guarino

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Nicola Guarino
Nicola Guarino, nato ad Avellino nel 1958, ma sin dall’infanzia ha vissuto a Napoli. Giornalista, già collaboratore de L'Unità e della rivista Nord/Sud, avvocato, direttore di festival cinematografici ed esperto di linguaggio cinematografico. Oggi insegna alla Sorbona presso la facoltà di lingua e letteratura, fa parte del dipartimento di filologia romanza presso l'Università di Parigi 12 a Créteil. Attualmente vive a Parigi. E’ socio fondatore di Altritaliani.