150 – The transcultural geniuses: la verdadera histoire de Shakespeare, Florio e altri loro amici

Shakespeare sarebbe stato italiano ? o meglio : avrebbe dovuto smettere di essere italiano, almeno in parte, per diventare Shakespeare ? È la storia – la storia di una ricerca – che vorrei provare brevemente a raccontare qui – adesso, nel mensile dedicato al 150esimo faticoso anniversario dell’Unità d’Italia : perché è anche la storia di come il Bel Paese ha «espulso» e poi ignorato, dimenticato un suo geniale e in certo modo fedele figlio. Per altro, è una storia che di necessità mischia o traduce, converte l’una nell’altra, diverse lingue e culture.

To tell this story…

En quelle langue devrais-je écrire…? in English ? which was the final one – or maybe one of them – quella in cui il genio – o forse erano due, i geni, y quien sabe, tal vez más.. – avrebbe, avrebbero scritto i suoi, i loro capolavori, fra i più sublimi che mente umana abbia mai concepito ?

Or perhaps should I write in Italian, perché appunto il genio – … el genio ? quizas eran dos, et peut-être davantage – il genio, dicevo (i geni ?) era nato italiano, ma poi era dovuto fuggire. Era l’epoca dell’Inquisizione, della fede assoluta che uccide: e il genio era ebreo, erano ebrei i genitori, poi marrani, mentre lui si convertirà – dit-on – al protestantesimo. England was his second and final country.

Y yo podria escribir tambien en castellano, es decir el idioma de Cervantes, porque es increible, verdad ? justamente… No, no, nada más por ahora. Digamos solamente que hay una misteriosa… spanish connexion.

Finalement je pourrais écrire en français, car le génie possédait à fond aussi cette langue, dont il était traducteur, et quel traducteur… – et puis, ici et maintenant (sur le site Altritaliani, en France, au Canada…), c’est la langue “pont” de la majorité de nos lecteurs, qui ont différentes langues maternelles (comme par hasard, c’est la plupart du temps le français lui-même, puis viennent l’anglais, l’italien, l’espagnol…)

Pour raconter une histoire, cette histoire…

Les faits, tout simplement.

Brièvement.

Nous sommes au cœur du XVIe s.., pour suivre Michelangelo Florio : juif italien, ou si vous voulez italien juif, né de parents convertis au catholicisme, il se convertit à son tour au protestantisme (une conversion qui ne visait sûrement pas le quieto vivere, dans l’Italie de la Contre-Réforme), et se voit obligé de fuir en Angleterre, et puis encore en Suisse, et peut-être ailleurs en Europe. Enfin on le retrouve de nouveau en Angleterre, à Londres, avec son fils, Giovanni / John… C’est lui, Shakespeare – ou peut-être ce sont eux deux, père et fils ensemble.

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Telle est la « bombe » que lâche Lamberto Tassinari avec son dernier travail (John Florio. The man who was Shakespeare, Giano Books, 2009// à partir d’une première version, en italien, comme il se doit pour ce bi-national, international… Bifronte ! Shakespeare ? È il nome d’arte di John Florio, ivi, 2008. Dove si noterà, fra l’altro, un’inclinazione tutta italiana per la suspence teatrale, con inversione nel titolo rispetto alla più recente versione inglese. Pour en savoir un peu plus, dans la langue que l’on voudra, et aussi pour commander le livre, en italien ou anglais, go here

Que Shakespeare ne soit pas Shakespeare, mais Marlowe, Bacon, de Vere, ou même Elizabeth, la reine d’Angleterre, et bien d’autres encore, alimente depuis des siècles débats, polémiques, légendes, plus ou moins étayés par des faits, plus ou moins fantaisistes. Ce génie est insaisissable.

Mozart, Cervantès, Shakespeare, le génie en général, d’ailleurs, a toujours fait problème. Il a souvent suscité des «questions», sur le modèle d’Homère, le plus grand de tous, le seul dont nous pouvons «scientifiquement», presque métaphysiquement, affirmer… qu’il n’a pas existé (et je ne peux pas m’empêcher de penser, en mélangeant dans mes souvenirs Proust et Croce, que c’est une chance de ne rien savoir de sa vie, de n’avoir que ses œuvres…).

Mais alors à quoi bon revenir sur l’affaire Shakespeare, avec un nouveau nom, Florio, qui d’ailleurs n’est même pas nouveau, car cette hypothèse avait déjà été faite, au début du XXe siècle ? Tout simplement parce que Lamberto Tassinari, dans son travail, jette sur cette formidable aventure une lumière nouvelle.

Una luce nuova

Nouvelle, nel senso di nuova, ed ecco che mi rendo conto che è l’italiano, prima ancora che l’inglese, e sicuramente più del francese, la lingua che devo scegliere per ponderare questo mio commento : perché è innanzitutto all’Italia, e agli Italiani che si rivolge questo libro (John Florio. The man who was Shakespeare, Giano Books, 2009, anche in versione italiana), anzi, questi libri, o ancora, questo work in progress (Tassinari al momento in cui scrivo continua a navigare fra fatti e autori dei secoli XVI e XVII, un siglo de oro, sempre cercando – e a volte trovando – conferme, nuovi legami).

Perché il lavoro di Tassinari, dunque, getta sull’avventura shakespeariana una luce integralmente nuova ? Per due ragioni, che cercherò brevemente di illustrare.

Il saggio indica la luna, dice un famoso motto, e gli sciocchi guardano il dito. Ora, a rischio di passare io stesso per sciocco, non mi soffermerò sulla «luna» che Tassinari cerca di mostrarci (lo svelamento della vera identità di Shakespeare, nelle reali spoglie di un ebreo italiano convertitosi al protestantesimo e rifugiatosi in Inghilterra, Florio), ma proprio sul «dito», che nel lavoro di Tassinari è quello che, a mio avviso, più innamora – e il dito si chiama Florio, anzi i Florio, Michelangelo e Giovanni / John, padre e figlio.

È il ritratto di questi due umanisti formidabili, appunto, la prima e più grande novità del libro, il suo guadagno certo, al di là del fatto che la loro identità con Shakespeare sia effettivamente e senza riserve comprovata. Con una domanda in filigrana che cresce pagina dopo pagina: come mai l’Italia ha dimenticato questi suoi due immensi emigrati ?

(Peccato, a mio avviso, che Michelangelo sia via via messo come da parte, mentre il fuoco dell’attenzione si sposta sul geniale John, il figlio – eppure, è il padre che avrebbe in gran parte scritto uno dei capolavori-picco della produzione shakespeariana … I Sonetti).

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La seconda novità del libro, sta nello sguardo che Tassinari porta sullo straordinario periodo a cavallo fra XVI e XVII secolo. Olanda, Inghilterra, Spagna, Portogallo, Italia… l’Europa insomma, ma con vicino il profumo dell’Africa, e le terre dell’Islam, le Americhe con i loro laboratori di straordinari metissaggi e di atroci genocidi, i confini della Terra che si spostano, si scontrano, si mischiano, sino a toccare le due estremità del Pacifico : è un mondo per la prima volta mondializzato, con una sorta di affermazione ante litteram (ma che affermazione !) di uno spirito transculturale, il mondo che emerge dalle pagine di Tassinari. E, come animati da una sorta di telepatico spirito assiale (il termine è stato volentieri usato da Toynbee per l’epoca che ruota intorno al VI secolo, e ha visto nascere le dottrine, le visioni del mondo, di Eraclito, Pitagora, Zoroastro, Budda, Mahavira, Lao Tse, l’autore del Deutero-Isaia…), tre colossi, almeno tre, sembrano parlare una lingua sorprendemente simile : Cervantes, Montaigne, Shakespeare, cioè, nella prospettiva di Tassinari, Florio, che è la chiave per accedere agli altri due.

Delirio ? Forse. Sicuramente l’autore del libro è posseduto da una passione dannata e formidabile, da personaggio balzacchiano, o meglio, viste le circostanze, da instancabile Don Quijote, che si batte con coraggio, a volte spavalderia, contro i mulini a vento. Contro i pregiudizi di una critica istituzionalizzata che lo isola con il silenzio, anche perché non è un «addetto ai lavori».

E poi, che importa ? Mi sento di dirlo, perché ho seguito sin dall’inizio il lavoro di questo amico ; perché ho visto un « dilettante » pieno di passione, un «non shakespeariano», costruirsi da autodidatta, sul campo, un’incredibile e forsennata erudizione, anno dopo anno, da quando, quasi vent’anni fa, parlammo per la prima volta della Tempesta, di cui si era appena innamorato.

Anno dopo anno… sino a una sorta di identificazione maniacale con Shakespeare, che dico, con Florio, ma sempre sostenuto da cultura ed intelligenza, nonché una buona dose di umorismo – anche per parare il muro oppostogli, salve poche eccezioni, dagli «specialisti», che a volte, pur affascinati dalla tesi, hanno finito per non dirne nulla, come timorosi di compromettersi.

Mi sento di dirlo, perché l’ho letto e riletto, discusso, mi sono arrabbiato, e perché in alcuni punti, in alcuni passaggi, che trovo scorciatoie troppo esuberanti, pamphlettistiche, magari – almeno apparentemente – arroganti, ero e rimango in disaccordo con l’autore. Ecco, proprio per tutte queste «divergenze», che agiscono come un vaccino contro l’adesione, l’apologia, posso dirlo con tanta più convinzione, entusiasmo, compromettendomi : questo libro merita assolutamente di esser letto.

Lo credo, e lo dico, non per fare piacere ad un «amico» (che anzi a volte si riscalda per le mie «amichevoli» ma ferme critiche), bensì per le ragioni «secondarie» che ho cercato di chiarire. Se anche si finisse per dimostrare che Shakespeare non è affatto Florio – ma vorrei dirlo una volte e per tutte : le prove addotte a sostegno di questa tesi, anche se forse ancora non decisive, sono comunque spesso «pesanti», e fortemente seducenti –, anche se tale tesi cadesse, resterebbe il riscatto di questo grande umanista, Florio (anzi, due : padre e figlio), e uno sguardo originale, fecondo, su un periodo chiave della nostra storia, lo svelamento, da quel punto di vista, di un intero mondo di scambi, e connessioni. Il libro, poi (che Lamberto mi perdoni), si legge a tratti come un romanzo giallo, quasi verrebbe voglia di ricavarne una sceneggiatura – e fa, comunque, discutere.

In questo senso, il pasticcio multi-linguistico con cui ho aperto l’articolo, con gli switches (si je peux dire) fra le diverse lingue, vorrebbe essere un omaggio a Florio, almeno così come emerge dal libro, magneticamente transculturale : nel contempo profondamente e molto poco italiano, o se si vuole, che per potersi conservare all’Italia e alla sua cultura, ha dovuto farsi inglese, francese, spagnolo, et peut-être davantage… (Senza parlare, è ovvio, del suo bagaglio di sempre: l’ebraico, il greco, il latino…)

L’ «Italiano» impaziente che in apertura d’articolo avesse «cliccato», per saltare avanti, dovrebbe allora, a questo punto, fare un salto indietro, e soffermarsi, all’inizio, fra le diverse lingue. Per capire meglio non solo il mondo dell’emigrante Florio, ma anche quello di molti di noi, italiani e non, sempre di più addestrati al gioco cortese dello scambio, e del metissaggio, fra lingue.

Ma – qualcuno, arrivato sin qui, potrebbe domandarsi – non sarà che, magari attraverso Florio, lo struggente oggetto di conoscenza del libro finisce per essere, al di là di Shakespeare e Florio, noi, in quanto emigrazione transculturale, oggi ? Io stesso me lo son chiesto, leggendo, ed ho finito col dirmi che era almeno in parte vero, ma che in fondo non aveva molta importanza, non intaccava la solidità del costrutto globale. Anzi… (Non è un caso, forse – e comunque mi fa piacere ricordarlo – che l’amicizia cui ho fatto allusione sia nata dentro la rivista Viceversa in quel crogiuolo di genti e di lingue che è Montreal / Montréal…) [[Mutatis mutandis mi è tornato in mente un bellissimo passo di Lévi-Strauss, che mi permetto di riprodurre integralmente : « si le but dernier de l’anthropologie est de contribuer à une meilleure connaissance de la pensée objectivée et de ses mécanismes, cela revient finalement au même que, dans ce livre [Le cru et le cuit], la pensée des indigènes sud-américains prenne forme sous l’opération de la mienne, ou la mienne sous l’opération de la leur. Ce qui importe, c’est que l’esprit humain, sans égard pour l’identité de ses messagers occasionnels, y manifeste une structure de mieux en mieux intelligible à mesure que progresse la démarche doublement réflexive de deux pensées agissant l’une sur l’autre et dont, ici l’une, là l’autre, peut être la mèche ou l’étincelle du rapprochement desquelles jaillira leur commune illumination. Et, si celle-ci vient à révéler un trésor, on n’aura pas besoin d’arbitre pour procéder au partage, puisqu’on a commencé par reconnaître que l’héritage est inaliénable, et qu’il doit rester indivis. » (1964: 21 s.).]]

Resta invece un’ultima domanda, cui si è già accennato, e che mi sembra attualissima, da approfondire, nel momento in cui si celebra, o almeno si riflette su, il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia : come e perché il nostro paese ha dimenticato, e continua a dimenticare, a ignorare, questo suo grande «figlio» ? Se qualcuno fra i nostri lettori, shakespeariani o meno, ha un’idea in proposito, si faccia sotto…

Giuseppe A. Samonà

p.s. Se fosse un film, come l’ultimo (non irresistibile) di Sorrentino, si potrebbe prendere tutta questa storia anche come una riflessione sulla paternità, la filiazione. The transcultural geniuses : the father, the son.  Per divertirsi, sempre chi abbia dimistichezza con l’inglese, dia un’occhiata a queste divertenti « mini-rappresentazioni ».

John Florio’s Three easy pieces, the benign virus. Please, spread it.
Thank you.


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Giuseppe A. Samonà
Giuseppe A. Samonà, dottorato in storia delle religioni, ha pubblicato studi sul Vicino Oriente antico e sull’America indiana al tempo della Conquista. 'Quelle cose scomparse, parole' (Ilisso, 2004, con postfazione di Filippo La Porta) è la sua prima opera di narrativa. Fa parte de 'La terra della prosa', antologia di narratori italiani degli anni Zero a cura di Andrea Cortellessa (L’Orma 2014). 'I fannulloni nella valle fertile', di Albert Cossery, è la sua ultima traduzione dal francese (Einaudi 2016, con un saggio introduttivo). È stato cofondatore di Altritaliani, ed è codirettore della rivista transculturale 'ViceVersa'. Ha vissuto e insegnato a Roma, New York, Montréal e Parigi, dove vive e insegna attualmente. Non ha mai vissuto a Buenos Aires, né a Montevideo – ma sogna un giorno di poterlo fare.