VENEZIA 68. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica 2011. Commento ai film premiati.

E così il Leone alato è volato in Russia. Il Leone d’Oro della 68. Mostra del Cinema di Venezia è andato al film “Faust” del regista Alexander Sokurov, una pellicola poderosa e impegnativa, tratta dall’opera di Goethe, con la quale il maestro russo ha concluso la sua personale tetralogia sul Potere, dopo “Moloch” (1999) su Hitler, “Taurus” (2001) su Lenin e “Il Sole” (2005) dedicato all’imperatore giapponese Hirohito.

Fin dal suo inserimento nella sezione in concorso “Faust” era già stato considerato tra le pellicole più accreditate ad un premio. Girato in 4/3, con una perenne luce tra il grigio e il marrone dal direttore della fotografia Bruno Delbonnel, e con le figure che a volte si distorcono e si allungano in una sorta di gioco onirico e da riflesso in un vetro opaco, quasi a voler mostrare la deformazione dell’animo umano, “Faust”, con i suoi dialoghi alti e interamente in tedesco (la lingua di Goethe) si regge sui personaggi principali: il protagonista, il Dr. Faust (l’attore Johannes Zeller) affamato di conoscenza (e non solo) e Mefistofele (magnificamente interpretato da Anton Adasinsky) che si presenta sotto le spoglie di un vecchio amorale e petulante strozzino, dagli occhietti vispi e il corpo pieno di pieghe e con gli attributi piccolini e posti sul fondoschiena.

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Il tormento, l’ossessione per la conoscenza di Faust è rappresentato dal suo continuo muoversi, agitarsi, con la macchina da presa pronta a seguirlo nel suo peregrinare per le strade e i vicoli, oppure nelle campagne, sempre seguito-incalzato dal diavolo intenzionato a prendersi cura della sua anima. L’inquietudine del personaggio sembra per un momento fermarsi quando la visione della bellezza della giovane Margherita (il dolce volto dell’attrice Isolda Dychauk) sembra incantarlo; l’attimo si fa eterno, l’amore che incanta e che appaga. In quel momento Faust sembra desiderare che il mondo si fermi, che la sua vita si cristallizzi in quell’istante. Ed è in quel momento, quando la macchina da presa si sofferma sul volto della giovane protagonista, che si intuisce il patto tra Faust e il diavolo. Tuttavia è solo un momento; l’ossessione per la conoscenza ha il sopravvento fino alla conclusione, sublime, suggestiva, tra i ghiacciai e i geyser islandesi, dove i due corpi spariscono con un tuffo nelle acque che da azzurrognole diventano un blu profondo: due corpi e due anime che si fondono in un abbraccio eterno. Immagini di rara bellezza che tolgono il fiato. “Faust” è un film complesso, imponente da rivedere, da capire e (ri)scoprire.
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La giuria della Mostra del Cinema, guidata dal presidente, il regista statunitense Darren Aronofsky, e di cui facevano parte come giurati il musicista inglese David Byrne, il regista Mario Martone, l’attrice Alba Rohrwacher, il regista statunitense Todd Haynes, la cineasta finlandese Eija-Liisa Ahtila e il regista francese André Techiné ha inoltre assegnato il Premio Speciale al film “Terraferma” di Emanuele Crialese. La pellicola, prodotta da Rai Cinema, e diretta dal regista di “Respiro” e “Nuovomondo” (in concorso nel 2006 a Venezia, vincitore del Leone d’argento) è stata considerata tra le migliori in competizione, rispetto a “Quando la notte” di Cristina Comencini e “L’ultimo terrestre” di Gian Alfonso Paciotti. Il film di Crialese affronta il tema dell’accoglienza degli extracomunitari, argomento di alta sensibilità che è stato illustrato anche in altre pellicole presentate alla Mostra, tra le quali “Il villaggio di cartone” di Ermanno Olmi (fuori concorso), “La-Bas” di Guido Lombardi (Settimana della Critica, premio Leone del Futuro) e “Io sono Li” di Andrea Segre (Giornate degli Autori).

Se in “Nuovomondo” Crialese raccontava gli italiani poveri del sud Italia che all’inizio del Novecento andavano a cercar fortuna in America, in “Terraferma” il regista descrive la varia umanità proveniente dall’Africa che fugge per mare a bordo di imbarcazioni di fortuna e sbarca lungo le coste italiane. In un racconto semplice, ma arricchito da immagini suggestive, il regista ambienta nell’isola di Linosa una vicenda di una famiglia di pescatori che un giorno salva dal mare una donna africana incinta (l’attrice Timnit T.) con il figlio piccolo. La legge del mare, quella che impone di trarre in salvo le vite umane, si scontrerà con la legge dello Stato, quella che obbliga i pescatori a non intervenire e a lasciare alle autorità il compito di prendere e rimpatriare i clandestini. In mezzo c’è l’umanità dell’anziano nonno pescatore a capo della famiglia, e i vari interessi del nucleo familiare, dal momento che nel periodo estivo stanno arrivando i turisti, e non è bello ridurre l’isola a un ghetto di clandestini. Tuttavia c’è la storia privata della donna salvata dal mare, con il suo carico di sofferenza, e il sentimento materno che la legherà, dopo le incomprensioni iniziali, alla nuora dell’anziano pescatore (una convincente Donatella Finocchiaro).

Sarà il figlio di quest’ultima (Filippo Pucillo, già interprete in “Respiro” e “Nuovomondo”) legato al nonno da affetto e saggezza, a dare una svolta alla vicenda. Girato con una suggestiva fotografia da Fabio Cianchetti (inquietante la scena notturna in mare di braccia e mani di africani disperati che cercano di salire su un’imbarcazione) “Terraferma” si sofferma sul tema dell’isola pacifica di pescatori che non sopporta volentieri questi sbarchi di immigrati, e privilegia il turismo di massa, ben rappresentato dal personaggio di Nino (Beppe Fiorello), uno dei figli dell’anziano pescatore animatore turistico che gestisce un chiosco sulla spiaggia; è lui che coinvolge i turisti nel tuffo dalla barca che si vede nel manifesto del film.

Ad un altro film italiano, “La-Bas” dell’esordiente Guido Lombardi è andato il premio Leone del Futuro Opera Prima Luigi De Laurentiis, presentato nella sezione Settimana della Critica, dove si racconta un’altra storia di immigrazione, sopraffazione e lotta per la sopravvivenza nella zona di Castel Volturno, in Campania, territorio spesso di cronaca giudiziaria per fatti di camorra. Con una sorta di film-inchiesta il regista Lombardi prosegue in quel modo di fare cinema-documento che è iniziato con “Gomorra” di Matteo Garrone. Un premio davvero meritato.

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Il Leone d’Argento per la migliore regia invece è andato al film cinese presentato a sorpresa “Ren Shan Ren Hai” (People Mountain, People Sea) del regista cinese Shangjun Cai. Una pellicola di forte impatto visivo (immagini spesso riprese con macchina da presa fissa) che racconta il tormento, la rabbia disperata di un operaio, Lao Tie (l’attore Chen jianbin) deciso a dare la caccia all’assassino del fratello, ucciso per rubargli la motocicletta. Lao Tie affronterà allora un viaggio – dal suo villaggio di montagna fino alla città, dove l’assassino si è rifugiato – che darà sfogo alla sua rabbia e sofferenza interiori a lungo represse. Se i dialoghi e le situazioni sono spesso disturbanti, la pellicola gioca sul filo dell’astrazione per concludersi con un finale catartico dove non c’è nessuna speranza di redenzione.

La coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile è andata al trentaquattrenne attore tedesco Michael Fassbender per il ruolo del protagonista nel film “Shame” del regista inglese Steve McQueen. Al suo secondo lungometraggio (per il film d’esordio “Hunger” McQueen aveva vinto La Caméra d’Or per la migliore opera prima al 61. Festival di Cannes. Fassbender oltre alla pellicola di McQueen era presente anche nel film “A Dangerous Method” di David Cronenberg, presentato in concorso alla Mostra, dove interpretava il giovane psichiatra Carl Gustav Jung, al fianco degli attori Viggo Mortensen (nel ruolo di Sigmund Freud) e Keira Knightley (nella parte di Sabrina Spielrein). L’attore tedesco aveva già lavorato con Steve McQueen nella sua prima pellicola nel ruolo dell’attivista nord-irlandese Bobby Sands, morto in prigione nel 1981 dopo una lungo sciopero della fame. In “Shame” Fassbender interpreta Brandon, un uomo che vive a New York, impiegato in una società d’affari, che non ha legami stabili, con pulsioni sessuali che riesce ad appagare solamente andando su siti Internet erotici, o a masturbazioni continue, anche in ufficio.

L’arrivo della sorella minore Sissy (Carey Mulligan) una cantante da piano-bar, anche lei reduce da una crisi maniaco-depressiva che l’aveva portata a un tentativo di suicidio, manderà in crisi la sua solitudine e il suo equilibrio. Steve McQueen illustra con una forza visionaria delle immagini e con la musica lenta e avvolgente di Harry Escott (in certi momenti ricorda le immagini sospese e la musica dei film di Wong Kar-wai) questa ‘discesa agli inferi’ del protagonista dalla vita vuota e solitaria, che sembra uscire da un racconto di Breat Easton Ellis o di Jay McInerney.
“Shame” è un film che o si ama o si odia; indubbiamente però Fassbender meritava la coppa Volpi.

E’ stata inoltre gradita la scelta della coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile all’attrice cinese Deanie Yip, interprete del film “Táo Jie” (“A Simple Life”) della regista di Hong Kong Ann Hui. La sessantaquattrenne attrice Yip in questo film, una commedia che vira nel dramma, interpreta una domestica, Ah Tao, che fin da giovane è a servizio in casa della famiglia Leung. La famiglia da anni si è trasferita negli Stati Uniti, ma ha lasciato la governante ad Hong Kong per tenere in ordine l’appartamento che possiedono in centro e che serve da alloggio ad uno degli ultimi discendenti della famiglia, Roger (l’attore Andy Lau) che è produttore cinematografico e viaggia spesso per lavoro. Quando Ah Tao, ormai anziana, verrà colpita da un ictus, sarà ricoverata dapprima in ospedale e poi, dal momento che non può più vivere da sola, portata in un ospizio. Sarà Roger, cresciuto dalla governante come un figlio, a sostenere le spese e ad andarla a trovare ogni tanto, per farle trascorrere gli ultimi suoi anni in serenità. La pellicola, oltre a raccontare la vita dell’ospizio, con la varia umanità che la frequenta, con i suoi momenti allegri e malinconici, illustra la lenta fine della vita, ma anche l’affetto e il riconoscimento di coloro che sono stati cresciuti da una persona diventata di fatto un membro della famiglia, alla quale portare rispetto e aiuto. Un film davvero commovente, sostenuto dalla bravura e dalla semplicità recitativa di questa straordinaria attrice Deanie Yip.
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A due giovani attori asiatici, i giapponesi Shôta Sometani e Fumi Nikaidô, interpreti del film “Himizu” (“La talpa”) del nipponico Sono Sion è andato il Premio Marcello Mastroianni per i giovani esordienti. Essi sono i protagonisti di una storia, liberamente tratta dall’omonimo fumetto manga di Minoru Furuya, ambientata nel Giappone segnato dallo “tsunami”. Un degrado e una violenza fisica che mette di fronte Sumida (Shôta Sometani), un figlio odiato a tal punto dal padre da indurlo al suicidio. Sarà una sua coetanea, Keiko (Fumi Nikaidô), compagna di scuola, ossessionata dal ragazzo (lei cita continuamente una poesia di François Villon “La ballata delle cose da niente”) a cercare di salvarlo e incoraggiarlo alla vita. Il ragazzo alla fine sfogherà la sua rabbia repressa nei confronti degli altri commettendo una strage. “Himizu” è una pellicola dominata da una sorta di nichilismo (sono continui gli scontri fisici, le botte che si danno i protagonisti) ma con una sorta di redenzione, rappresentata da una lunga, disperata corsa finale sotto la pioggia di Sumida e Keiko, che sembra voler mostrare un Giappone in grado di risollevarsi dalle proprie sventure.

Le Oselle per il miglior contributo tecnico sono state assegnate: per la miglior Fotografia a “Wuthering Heights” (“Cime tempestose”) della regista Andrea Arnold (fotografia di Robbie Ryan). Per la migliore sceneggiatura al film “Alpis” (Alps) di Yorgos Lanthimos (dello stesso Lanthimos e Efthimis Filippou).

“Wuthering Heights”, è l’ennesimo rifacimento dal romanzo di Emily Brontë. La regista lo ha girato nell’aspro Yorkshire inglese, dove è ambientata la drammatica storia del povero Heathcliff (qui riportato al testo originario, un trovatello di pelle nera) adottato da una famiglia di agricoltori e innamorato della giovane Cathy, la figlia del contadino. Della pellicola si evidenziano le suggestive immagini della fredda e scarna natura dei luoghi che fanno da sfondo alla vicenda che risulta priva di romanticismo, dove la storia d’amore è rappresentata da una sorta di sofferenza e di violenza fisica trasmessa dai luoghi stessi.

“Alpis” invece racconta la storia di un piccolo gruppo di persone che ha scelto come nome d’arte quello di alcune montagne alpine. Essi si propongono a pagamento a chi ha avuto un lutto in famiglia per sostituirsi al proprio caro defunto, assumendone le proprie caratteristiche personali di quando era in vita, per aiutare i familiari ad elaborare meglio la perdita. Tutto funziona fino ad un certo punto, quando una componente del gruppo si rifiuta di proseguire in questa attività, e allora la vicenda sfocia in un cruento dramma. La storia è abbastanza assurda, molto sfuggente, seppur di un certo fascino ed è resa in un modo abbastanza insopportabile, come gli stessi dialoghi. Si intravede comunque una certa crisi e inquietudine della stessa Grecia, alle prese con uno dei suoi momenti più difficili.

Se da una parte, per una volta tanto la critica concorda con l’assegnazione dei premi della Giuria, dall’altra dispiace che nella scelta, siano rimaste escluse delle pellicole che si consideravano quasi certe per un riconoscimento.

Come ad esempio “Carnage” di Roman Polanski, una commedia brillante tratta da una pièce di Yasmina Reza, girata con quattro attori in stato di grazia (Jodie Foster, Kate Winslet, Christopher Waltz, John C. Reilly); oppure “The Ides of March” pellicola politica di George Clooney, dove l’attore si dimostra ancora una volta bravo anche dietro la macchina da presa, e che fa emergere un nuovo volto del cinema come Ryan Gosling. Inoltre c’è stata una prova di talentuosi attori, primo fra tutti, un efficace Gary Oldman, raccolti insieme nella spy-story “Tinker, Taylor, Soldier, Spy” (“La talpa”) tratto dall’omonimo romanzo di Le Carrè, e diretti dal regista svedese Tomas Alfredson. E ancora una forte “black comedy” ambientata in Texas portata del “giovane” 76enne William Friedkin dal titolo “Killer Joe” (anche questo tratta dall’omonima pièce teatrale di Tracy Letts) con un cast di attori straordinario, tra cui spiccano Emile Hirsch, Mattehw Mc Conaughey (persino lui è bravo) e la giovane Juno Temple.

Alcune speranze erano rivolte anche alla pellicola del disegnatore Gian Alfonso Paciotti, in arte Gipi al suo esordio dietro la macchina da presa con la commedia fantascientifico-grottesca “L’ultimo terrestre”. Rispetto a “Quando la notte”, pellicola non riuscita di Cristina Comencini, interpretata da Claudia Pandolfi e Filippo Timi, il film di Paciotti aveva riscosso più consensi da parte della critica.

Come bilancio finale di questa 68 Mostra del cinema resta da segnalare, come hanno osservato la maggior parte degli accreditati, che la maggior parte delle pellicole presenti in tutte le rassegne (in concorso, fuori concorso, Orizzonti, Controcampo Italiano, Giornate degli Autori e Settimana della Critica) ha dimostrato una notevole qualità rispetto agli anni precedenti. Merito del direttore Marco Müller che peraltro, come il presidente della Biennale, Paolo Baratta, è in scadenza di mandato a fine novembre. Tuttavia quest’anno l’aumentato numero di film, rispetto alla programmazione nelle sale a disposizione (Sala Grande, Sala Darsena, Sala Perla, Sala Volpi, Pasinetti, PalaBiennale) non ha permesso a molti di visionare tutto il materiale proposto.

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Inoltre è osservazione di tutti i partecipanti della necessità di rimediare al “buco” (questo si, è stato considerato uno “Shame”) cioè quel vasto spazio del cantiere inutilizzato sul quale doveva essere eretto il nuovo palazzo del cinema e che invece è stato bloccato perché nel sottosuolo è stata trovata una discarica di amianto. Ci auguriamo che coloro che succederanno alla direzione della Biennale e della Mostra proseguano nel miglioramento della stessa e la conducano a risultati sempre più competitivi con le altre rassegne internazionali.

Andrea Curcione

Critico cinematografico

Venezia 12 settembre 2011

Foto credits : Andrea Curcione

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