Fiat Mirafiori: Vittorie gratificanti e sconfitte amare

Dopo il referendum della Fiat Mirafiori, si ripropongono i temi di nuovo
sindacalismo e delle relazioni industriali. Carlo Patrignani ci propone un suo personalissimo giudizio arricchito da un excursus istruttivo che ripercorre gli ultimi decenni delle nostre relazioni sindacali.

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Il fantasma che aleggiava su Torino, la drammatica vertenza dei ‘35 giorni’ dell’80 conclusasi con la marcia dei 40 mila – per lo più colletti bianchi ed impiegati che volevano tornare al lavoro, ma anche operai e molti cittadini comuni stanchi di una città messa sottosopra, si è materializzato con la sconfitta dei no all’accordo e la vittoria dei si’ all’accordo grazie al concorso – si evidenzia con un certo disappunto ed ironia – determinante dei 400 colletti bianchi. Come se questi 400 ‘colletti bianchi’, per lo più impiegati, fossero degli extra-terrestri, degli intrusi e non, secondo una vecchia ma attuale concezione staliniana, persone umane come gli operai. “Noi non avevamo capito niente ne’ della Fiat, ne’ dei suoi rapporti col mercato, ne’ dei problemi della sua efficienza e redditività”, ammise con onestà e sincerità qualche tempo la marcia dei 40 mila, l’allora numero uno della Cgil, il ‘migliorista’, Luciano Lama che non aveva affatto condiviso l’invasione di campo (26 settembre 1980) del teorico del ‘compromesso storico’, Enrico Berlinguer, che promise agli operai in lotta: “se occuperete Mirafiori, il Pci vi appoggerà”. Alle critiche di Lama, Berlinguer, in stile ‘togliattiano’, rispose: “ma io non ho detto occupate Mirafiori…..”. Aggiungeva Lama: « la marcia aveva messo il timbro alla nostra sconfitta. E aveva svelato l’isolamento della battaglia sindacale alla Fiat rispetto alla gente di Torino compresa una buona parte degli operai Fiat ». Strano, davvero, il modo di dividere le persone a seconda delle loro mansioni e qualifiche, l’operaio e l’impiegato!

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Altrettanto strano e sconcertante, come fa il catto-comunista, Nichi Vendola, parlare di “vittoria amara” per chi ha vinto (la Fiat) e di “sconfitta gratificante” per chi ha perso (la Fiom). Patetico, poi, il dire, dopo i toni arroganti (“non firmeremo mai”) e minacciosi (“ricorreremo alla magistratura”), del numero uno della Fiom, il ‘sandinista’, Maurizio Landini rivolto alla Fiat: “riaprite la trattativa”. Con cio’, sia chiaro, non si vuole difendere il piano newco della Fiat-Chrysler, dire che tutto va bene, che non si pongono, eccome, questioni importanti a cominciare dai ritmi di lavoro, dall’iniquo scambio tra più produttività e meno tutele e diritti. Che un’azienda ponga come prioritaria la produttività è nelle cose: lo fa la Fiat-Chrysler e lo fanno con molto meno o alcun clamore il gruppo ‘Espresso-Repubblica’ dell’imprenditore ‘compagno’ Carlo De Benedetti o l’Eni, azienda pubblica, dell’ad. Paolo Scaroni, entrambi sulla stessa lunghezza di Marchionne. Non si è mai visto un imprenditore che non persegua l’obiettivo del massimo profitto e quindi della massima produttività del lavoro!

Il punto è ‘come’ il sindacato, che si presume sia autorevole e credibile, sappia fare il suo mestiere, cioè contrattare, per la generalità dei lavoratori (operai e impiegati), e quindi sia adeguatamente preparato e culturalmente attrezzato, si pone di fronte alle avances dell’imprenditore. « È certo che, ogni volta che è possibile, il padronato tende a colpire, con tutte le sue armi, leali e sleali, legali e illegali, ogni organizzazione che tende ad intaccare i profitti del capitale per migliorare le condizioni dei lavoratori. Dobbiamo attenderci sempre i colpi della reazione padronale. Una grande organizzazione come la Cgil, non può far dipendere la sua efficienza, la sua forza, le sue possibilità d’azione, dalla buona volontà del padronato. Diciamolo francamente: non ci siamo riusciti« .

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Era Giuseppe Di Vittorio, il grande leader della Cgil, che sfidò apertamente Palmiro Togliatti nel 1956 schierandosi dalla parte dei lavoratori ungheresi e contro l’Armata Rossa che pose fine alla rivolta, a pronunciare questa severa autocritica nel Direttivo dell’aprile 1955 chiamato a discutere di quanto avvenuto alla Fiat nelle elezioni delle commissioni interne del marzo 1955. « Dobbiamo dare la prova ai lavoratori che la Cgil ha il coraggio di guardare in faccia la realtà, di esaminare la propria azione, di scoprire e di denunciare apertamente i propri errori e di fare appello agli stessi lavoratori perché ci aiutino con il loro consiglio, con le loro esperienze, a superare questi errori, queste difficoltà, queste deficienze, e quindi a trovare assieme la strada che ci deve permettere di andare avanti ».

Gli errori di politica sindacale identificati in quella relazione erano soprattutto sul terreno dell’analisi dei processi in corso, e dei rapporti con le masse: « Il primo errore di politica sindacale che abbiamo commesso, a mio giudizio, è quello di non aver tenuto sufficientemente conto delle profonde modifiche che si sono prodotte negli ultimi anni e si vanno producendo, specialmente nelle grandi fabbriche, per quanto concerne i metodi produttivi, la struttura delle retribuzioni e, soprattutto, i metodi assolutamente nuovi, di carattere scientifico, che il padronato ha applicato e applica per garantirsi un controllo più diretto e capillare sui lavoratori, presi individualmente, in seno alla fabbrica e fuori dell’azienda. Dobbiamo convenire che non conosciamo a fondo le condizioni reali dei lavoratori nella nuova situazione, che non abbiamo studiato il carattere delle modifiche che sono state operate in molte fabbriche, e le loro conseguenze pratiche« . Da questo discendevano « le impostazioni schematiche e generiche » che non tenevano conto « delle profonde differenze esistenti da azienda ad azienda e da settore a settore ».

Qui c’era il centro dell’autocritica: « Abbiamo preteso di andare avanti sulla base di schemi generali entro i quali pensavamo di poter comprendere tutte le questioni particolari. […] Di questo errore di fondo siamo responsabili prima di tutto noi del centro confederale. Non abbiamo saputo cogliere le particolarità della situazione, non abbiamo saputo cogliere le rivendicazioni più sentite, per condurre in base ad esse, lotte concrete, azienda per azienda, sia pur inquadrandole in una linea di carattere generale che legasse il tutto« .

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Di Vittorio osservava poi: « Dobbiamo studiare, d’altra parte, i nuovi metodi introdotti in alcune fabbriche, in legame con la ‘produttività’ come viene concepita dagli americani. Di questi esperimenti noi non abbiamo sufficientemente discusso. […] Non solo non siamo riusciti a scatenare un movimento di opposizione contro questi metodi, e quindi ad elaborare una piattaforma di rivendicazioni che si potesse opporre positivamente ad essi, ma non ci siamo preoccupati di raccogliere notizie, dati, informazioni, segnalazioni. Queste sono deficienze gravi. Quando non si conoscono le situazioni reali, non si possono avere che delle impostazioni generiche, schematiche, che non convincono nessuno« .

Dopo avere denunciato, « mancanza di conoscenze precise e documentate », anche sui nuovi metodi delle ‘human relations’, Di Vittorio aggiungeva: « Una organizzazione sindacale come la nostra non può accontentarsi di essere in contatto solo con lo strato attivo della classe operaia. Il sindacato, per adempiere ai suoi compiti elementari, ha il dovere di organizzare e di portare avanti la grande massa dei lavoratori, compresi quelli che non hanno ancora una coscienza di classe formata”.

Quel momento cruciale di svolta avviò una ricerca che mise in movimento forze nuove nel sindacato: il grande merito di Di Vittorio fu di affrontare realisticamente il trauma e avviare il rinnovamento affidando a Bruno Trentin ‘il ritorno in fabbrica’ della Fiom. La scelta di quel Comitato direttivo fu infine di ricucire i rapporti con Cisl e Uil: e negli anni successivi sarà possibile ricostruire momenti di unità d’azione nelle lotte.

“Il punto di partenza era che l’alienazione del lavoro si superava cambiando l’organizzazione del lavoro, non fuori da essa”, sosteneva Trentin e prendeva cosi’ anche lui le distanze da Togliatti, geniale maestro della ‘doppiezza’, che in un intervento al Cc del Pci, aveva sentenziato: “non spetta ai lavoratori prendere iniziative per promuovere e dirigere il progresso tecnico”.

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La contestazione di Trentin in una lettera del 1957 indirizzata al Migliore ‘fedele servitore’ di Stalin: “Francamente noi pensiamo che la lotta per un controllo e un giusto indirizzo degli investimenti nelle aziende presupponga in molti casi una capacità di iniziativa da parte della classe operaia sui problemi connessi con il progresso tecnico e la organizzazione del lavoro che tenta di sottrarre al padrone la possibilità di decidere unilateralmente sulla entità, gli indirizzi, i tempi di realizzazione delle trasformazioni tecnologiche e organizzative. Una simile iniziativa, appare, almeno a noi, come la condizione, in molti casi, per poter dare alla contrattazione di tutti gli elementi del rapporto di lavoro (e quindi anche dei tempi di produzione, degli organici e delle stesse forme di retribuzione) un suo contenuto effettivo: poiché la nostra impossibilità di contrapporre ad un dato indirizzo degli investimenti aziendali un nostro indirizzo porrebbe dei limiti sostanziali agli sviluppi della contrattazione aziendale”.

In questa lettera c’è già tutto quel che succederà nell’autunno caldo: con Pierre Carniti (Fim) e Giorgio Benvenuto (Uilm), Trentin conquistò il primo contratto collettivo nazionale di lavoro dei metalmeccanici con cui si introdusse il diritto allo studio, le 150 ore di formazione continua. E poi nel 1970 lo Statuto dei Lavoratori (legge 300) redatto dal giuslavorista socialista Gino Giugni e fortemente voluto dal Ministro del Lavoro, il socialista ed azionista, Giacomo Brodolini.

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Una linea sindacale, questa, che oggi trova come ‘metodo’ la sua continuità, pur con le dovute differenze, nella saggia guida della Cgil da parte di Susanna Camusso. “La Cgil ha sempre dato lo stesso giudizio sulla qualità di quell’accordo così come sul fatto che non si conosce il piano industriale Fiat e che siamo di fronte a una partita non chiara e il governo non ha fatto il suo dovere”, dice la leader della stessa Cgil. E poi ‘trentiniamente’ e saggiamente aggiunge, rispetto alla posizione antagonista della Fiom: « Noi pensiamo che non si può essere fuori da quella fabbrica. Bisogna essere dentro la fabbrica e non fuori dai cancelli ». Ed infine: « non si può affidare la presenza sindacale al ricorso alla magistratura ».

Orbene, quel che emerge dal referendum alla Fiat-Chrysler è, se si vuole, come democrazia pretende, riconoscere il risultato, la vittoria ‘gratificante’ dei si’ e la sconfitta ‘amara’ dei no all’accordo sul piano newco di Marchionne: e di conseguenza la sconfitta ‘politica’ dei ‘sandinisti’ della Fiom (Landini) e dei novelli ‘nipotini’ (Vendola) di Togliatti, maestri nell’affabulazione e nell’inganno, pronti con uno strano gioco di parole a ribaltare la realtà.

Carlo Patrignani

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(Foto : La Marcia dei 40 mila, Palmiro Togliatti, Giuseppe Di Vittorio, Bruno Trentin, Sergio Marchionne, Susanna Camusso).

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Carlo Patrignani
Carlo Patrignani vive a Roma. Laureato in Scienze Politiche con una tesi in Diritto del Lavoro, giornalista professionista (18.61987) presso l'Agi (Agenzia Giornalistica Italia) di Roma e collaboratore con riviste (Lavoro e Informazione di Gino Giugni), quotidiani (l'Avanti!) e settimanali (Rassegna Sindacale della Cgil). Autore di due libri 'Lombardi e il fenicottero' - L'Asino d'oro edizioni 2010 - e 'Diversamente ricchi' - Castelvecchi editore 2012. Oggi in proprio, freelance.