I Riti Settennali di penitenza a Guardia Sanframondi.

Flavio Brunetti, tramite il suo racconto « Una terra di sangue di dolore e di vino », ci porta nella terra aspra e selvaggia del Sannio fino ad arrivare a Guardia Sanframondi dove si svolge ogni sette anni una «strana» e famosa rappresentazione religiosa in onore della Vergine Maria. Una tradizione sacra e crudele che risale al Medioevo. Vedi anche il portfolio.

UNA TERRA DI SANGUE DI DOLORE E DI VINO


– Pronto?

– Chi è?

– Sono io.

– Uhé, Lucio! Che c’è?

– Vedi che Lina…

– Lina chi?

– La moglie di Salvatore… Salvatore, l’anarchico, quello di Lotta Continua… insomma se n’è andata. Non c’è più.

– Che vuoi dire?

– E’ morta.

– Per la miseria! E quando?

– Ieri. Ma già da un poco di giorni non stava bene. L’avevano dovuta operare un’altra volta. Oggi pomeriggio ci stanno i funerali.

– A Napoli?

– No. A Guardia Sanframondi. La seppelliscono al paese suo.

Fu così che la mia mente, di colpo, andò ai giorni che, studente a Napoli, quando tornavo a casa dai miei, a Campobasso, o ritornavo a studiare, passavo per quel paese. Per Guardia.

Viaggiavo sulla Fiat 500 bianca del mio amico Brunone. Lo chiamavo Brunone per la sua mole e per la sua semplicità. Per la sua bontà. Lui viveva nella mia città, ma il padre era venuto a fare le selle per gli asini e per i cavalli e le scarpe con le centrelle, quei chiodi di ferro messi sotto alle suole per non farle consumar presto, dal primo paese che non era più nel Molise: Sassinoro. Avevano lasciato anche un pezzo di terra tra Sassinoro e Morcone.

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Sassinoro© Flavio Brunetti

Brunone, poi, divenne ingegnere e un dirigente importante del Catasto. Ma due o forse tre anni fa uno stupido incidente avvenne in quella campagna e Brunone morì. Il trattore l’aveva ammazzato mentre, con quello, il mio amico ingegnere era andato ad arare il pezzo di terra ch’era stato del padre.

Guardia Sanframondi, quando con la 500 bianca di Brunone partivamo che nevicava e bisognava andar piano piano, era il paese dove finiva la neve. Il primo paese che si affacciava alla Campania. Il primo. Dopo di esso il paesaggio cambiava. Invece tutti i paesi che attraversavamo per arrivare a Guardia erano borghi uguali ai nostri, con la gente uguale alla nostra:

Le facce dei contadini scavate dal sole e dalla fatica; le vesti e gli scialli delle donne; le case arroccate di pietra e di tetti sfasciati; i cani nella piazza; il bar; il municipio. Tutto uguale a noi che venivamo dal Molise.
_ Anche Brunone che, da Sassinoro, se n’era venuto col padre nel Molise era uguale.

Quella terra era, è, il Sannio. E’ la nostra terra. La terra di quelli come Brunone che possono essere persone importanti, ma che vanno ancora ad arare la campagna dei padri.

Ora c’è la superstrada, ma allora la via se ne andava incerta e sicura per le campagne a cercare le zolle con poca pendenza per salire più in alto e poi scendere a valle e a cercare i ponti di pietra e di archi ai piedi del Matese.

E ogni volta attraversando, curva dopo curva, Sassinoro, Morcone, Pontelandolfo e San Lupo, ci raccontavamo le storie.

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Il Sannio© Flavio Brunetti


– Flavio – mi diceva Brunone – sulla montagna di Sassinoro una volta è uscita, dentro una grotta, Santa Lucia.

– Bruno’, ma che dici? Chiacchiere di paese.

– No. Questo è un fatto antico e riconosciuto. Sulla montagna, ma sono più di cinquecento anni fa, ci stavano i pastori con le pecore e queste si ficcavano in un buco sotto alle rocchie e sparivano.

– Le pecore sparivano?

– Sì. Ma poi verso sera tornavano. Tutte; non ne mancava nessuna. Fino a che un giorno due pecorari si ficcarono pure loro in quel buco e all’improvviso erano capitati in una grotta bellissima. E là dentro trovarono sulla roccia gli occhi di Santa Lucia.

– Ma tu ci credi?

– Ci hanno pure costruito un Santuario e vengono a chiedere grazie da tutti i paesi vicini.

Raccontava il mio amico la favola e Morcone ci abbracciava con la terribile rupe che cade a picco nel precipizio, con le viuzze che non ci passa manco un carretto e che arrancano lente e stanche, pietra dopo pietra, ansimando verso la rupe.

E poi Pontelandolfo con la sua amara storia della strage di un popolo inerme, la strage dei bersaglieri consumata il 14 agosto del 1861: quattrocento sanniti, morti innocenti, un paese dato alle fiamme, donne violentate ed uccise in nome del potere dei Piemontesi. In nome dell’Unità d’Italia contro le bande dei briganti, i ribelli del Sud. Il loro fiato, il dolore di questa gente innocente, dei bambini massacrati, delle donne stuprate, delle case incendiate, ansima ancora sui nostri cuori.

Alle curve in salita Brunone doveva scalare le marce della 500 con la doppietta, doveva fare la doppia debraiata, abbassando e alzando due volte di seguito la frizione e dando, preciso, un colpo all’acceleratore. Per non fare grattare le marce.

– Brunone, lo sai che a Milano hanno scritto una canzone per Pontelandolfo?

– E chi?

– Un complesso legato al movimento studentesco. Gli Stormy Six.

– Ma chi li conosce! Noi dobbiamo pensare a studiare ché i nostri genitori fanno i sacrifici per tenerci a Napoli. La politica è una cosa brutta.

Ed ecco San Lupo con la sua casa da dove partirono gli anarchici, i guerrieri romantici del 1877, verso Letino, su in montagna. Era stato Cafiero, un signore dall’aspetto nobile, il primo ad arrivare in carrozza dopo un’ora e mezzo di viaggio da Solopaca dove era giunto col treno che da Napoli andava a Benevento. Aveva fatto credere d’essere un turista inglese e il suo modo signorile nel fare e nel parlare lo giustificava.

Cafiero era il figlio di una ricca famiglia di borghesia terriera. Amico di Karl Marx e Friedrich Engels, i padri del Comunismo, nel 1871 cooperò alla diffusione della Prima Internazionale in Italia; amico di Bakunin, il padre dell’Anarchia.

Avrebbero raggiunto San Lupo e Cafiero gli altri anarchici, Errico Malatesta, Francesco Pezzi, Napoleone Papini e Cesare Ceccarelli, tutte le altre figure più importanti dell’ Anarchia italiana per un’azione eclatante contro quello stesso Stato che qualche anno prima si era macchiato della strage di Pontelandolfo.

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Paesi del Sannio© Flavio Brunetti

Quella terra aspra, dura, di selvaggia montagna, lontana da Napoli e irraggiungibile era il campo ideale per la ribellione: in quei luoghi la banda avrebbe potuto, senza ostacoli, mettere in atto le proprie azioni dimostrative ed insurrezionali nei vari centri abitati per poi nascondersi al sicuro nei luoghi più impervi e nei casolari dimenticati. Affinché quelle azioni facessero eco e propaganda, nelle città, all’Anarchia. Era fondamentale agire per i contadini ancora oberati dalla tassa sul macinato, avvicinarsi alle masse più povere, quelle del Sud, che, erano il naturale destinatario della propaganda di ribellione sociale degli anarchici. Proprio lì, a cinque chilometri da Pontelandolfo, luoghi delle genti ai margini, delle genti povere, senza alcun aiuto e integrazione nel tessuto sociale, considerate dal potere solo comunità da sottomettere e sfruttare, buone solo a dare la vita dei loro figli per le guerre. Una storia romantica.

Scoperti dai carabinieri, gli anarchici, ancor prima di iniziare le azioni dimostrative, ebbero uno scontro a fuoco con quei soldati e uccisero, proprio in quella casa di San Lupo uno di essi. Poi, sterpo su sterpo, roccia su roccia, una notte di duro cammino, arrivarono a Letino nel cuore del Matese. Assaltarono il Comune e bruciarono tutte le carte e proclamarono al popolo incredulo e isolato su quella montagna l’abolizione della tassa sul macinato.

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Presso Letino© Flavio Brunetti

Catturati tre giorni dopo, gli anarchici furono processati l’anno dopo a Benevento e, incredibile a dirsi, non furono condannati a morte ed esecutati. Furono salvi!

Cafiero, l’elegante ricco terriero, sarebbe morto poi, misero e lacero, in un manicomio.

Nella Fiat 500, mentre Brunone guidava, pensavo a questa storia ma col mio amico non ne parlavo. I miei sogni li tenevo per me.

Tutti questi ricordi mi invasero il cuore mentre andavo, di nuovo per quella strada ai piedi dei monti, al funerale di Lina, la moglie del mio amico Salvatore.

Lui era seduto in chiesa, sul primo banco, e cingeva in un unico abbraccio i suoi due figli che, insieme a Lina, aveva adottato da un paese lontano e povero. Per terra, dinanzi all’altare, la bara con dentro Lina senza più la vita.

Uno sguardo, il dolore, la pena, nei nostri occhi. Nei suoi, quelli di Salvatore solo coi figli, nei miei.

In attesa del prete che iniziasse la messa le donne dicevano le litanie.

Uscii subito dalla chiesa.

– Ciao, Flavio. Come stai?

– Ciao, Salvato’. – risposi al saluto

Era un altro Salvatore quello che stava fuori alla chiesa.

Nella nostra compagnia c’erano due Salvatori: Salvatore l’anarchico di Lotta Continua e Salvatore ‘O curto. E fuori la chiesa ci stava Salvatore ‘O curto. Il nomignolo perché è un poco bassino.

‘O curto produce un vino eccellente con la sua uva che cresce e raccoglie alle pendici del Taburno, la montagna che sta di fronte a Guardia Sanframondi. Questa è la sua vita: fare e vendere il vino. Chi l’avrebbe mai detto, quando eravamo studenti, che con il suo nome e cognome, il mio amico, avrebbe saputo fare e vendere un ottimo Aglianico del Taburno: Salvatore Aceto, produttore di vino!


– Lo sai che in questi giorni qua ci sono i riti settennali? – mi chiese ‘O curto

– I battenti?

– Sì. – affermò ed aggiunse – Ma lo conosci questo paese. Ci sei mai stato a Guardia?

– Ci sono passato un sacco di volte andando a Napoli, ma non mi sono mai fermato.

– Vieni ti faccio vedere. E’ bellissimo.

In chiesa si diceva la messa per Lina mentre giungevano ancora e in molti i paesani per le condoglianze.

Ci inoltrammo, noi due, vecchi amici, con le nostre storie diverse e vicine, nei vicoli antichi dell’ultimo paese della nostra terra. Del Sannio.

Una terra di sangue, dolore e di vino.


– L’hai mai fotografata questa processione? – mi chiese ‘O curto

– No. Di essa ho sempre saputo, ma non mi è mai venuta la voglia. M’è sempre sembrato tutto una cosa artefatta. Costruita.

– Ma che dici? Questa è una cosa antichissima. Sicuramente risale al Medioevo, ma ci sono documenti del 1600 che ne parlano.

Si fermò un po’ per riprendere fiato lungo l’irto vicoletto strettissimo fatto di scale e di pietre bianche e arcate sotto le case.

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© Flavio Brunetti


– Vedi che qua ci tengono un sacco a questi riti. Si ripetono ogni sette anni. Per esempio li fanno ora, queste due settimane di Agosto, e poi li rifaranno tra sette anni.

– Ad Agosto?

– Sì. Alla Madonna dell’Assunta. E durano due settimane. Ci sono processioni, canti, messe tutti i giorni. Poi l’apice viene la seconda domenica. Con i battenti.

– Salvato’ – chiesi – allora non è dopodomani, è quell’altra domenica?

– La processione grossa, quella dei battenti che si empiono di sangue, si fa l’altra domenica. Ma se vuoi fotografarli, e questa volta si parla di mille battenti, è meglio che cerchi qualche permesso perché questi del paese non vogliono.

– Si incazzano?

– Il fatto è che qua arrivano da tutte le parti del mondo. Quest’anno ho letto che viene pure la televisione Araba. Come si chiama? Al Jazira, mi pare, o una cosa di questa. E questi, la gente del paese, si sentono come se fossero violentati.

Una teoria di case e palazzi antichi e il rincorrersi di linee razionali e graziose nei davanzali, nei capitelli nelle chiavi e negli archi, coronavano i nostri passi per quelle strade del centro storico di Guardia mentre il mio amico raccontava.


– Comunque alla processione non è che ci sono solo i battenti. Prima ci sono i “Misteri”.

– E che sono?

– Sono rappresentazioni umane della Bibbia, dei Vangeli, della vita dei Santi. E questa volta ho saputo che sono andati oltre. Ci sono anche rappresentazioni dei campi di sterminio nazisti, dei fatti più importanti dell’umanità.

– Rappresentazioni umane. Che vuoi dire?

– Nella processione ogni Mistero è formato da un gruppo di persone in costume in una scenografia studiata. Ma il fatto è che questi ci credono tutti. Se li vedi sono come spiritati. In catalessi ascetica. Come te lo devo spiegare? Li devi vedere!

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© Flavio Brunetti


– Ho capito qua tutta la festa è una suggestione collettiva. Mi vuoi dire questo?

– Sì. Perciò per il reportage ti devi attrezzare più socialmente che non con le macchine.

– Spiegami meglio.

– Sette anni fa io tenevo la mia macchina fotografica e stavo scattando una foto. Ma volevo fotografare una vecchia ch’era troppo bella, non loro. Uno di questi, uno dei battenti, che fa? Piglia la spugna e mi colpisce.

– La spugna? Quale spugna?

– Camminano in fila, tutti incappucciati perché non si deve sapere loro chi sono e, per battersi e martoriarsi a sangue, usano una specie di tampone, che si chiama spugna, con sopra infissi trentatre chiodi sottili e con quella si percuotono il petto mentre nell’altra mano stringono il crocefisso con dietro la figurina dell’Assunta.

– E cantano? Ci sta pure la banda?

– No è tutto silenzio. Solo una donna grida: “Santa Virgo Virginis!”, la litania, e quelli rispondono “Ora pro nobis” e non si sente nient’altro, silenzio, solo i colpi delle spugne sul petto.E quell’animale incappucciato mi colpì con i suoi chiodi per farmi spostare.

– Per la miseria! A rischio di pigliare l’Aids! Ma quando tempo dura tutto? A che ora si fa questa processione?

– Tutta la giornata.

– Scusa, Salvato’, ma come fanno a stare tutto il giorno, sotto il sole d’ Agosto, in mezzo a una strada pieni di sangue? Non si infettano? Quel sangue non si coagula? Non diventa tutto duro e nero?

– Si mettono l’aceto.

– L’aceto?

– Sì. I battenti sono seguiti da alcuni collaboratori, a viso scoperto che portano bottiglie di aceto e di vino, il vino di Guardia, col tappo fatto tutto a buchini. Chi ha bisogno grida, in quel silenzio d’angoscia, rotto solo dalla litania “Santa Virgo Virginis” “Ora pro nobis” e il rumore di colpi sui petti: “Vino! Vino!” Allora gli si avvicina quello con le bottiglie per inzuppare quelle spugne chiodate con l’aceto, per disinfettarsi e per non fare coagulare il sangue, che, così, rimane sempre bello rosso rosso.

– Ma sono solo maschi?

– No ci stanno pure un sacco di donne. Però poche donne si battono con la spugna. Anche per via del seno che non sanno coprire. La maggior parte delle femmine stanno con gli altri battenti che vengono dopo e che si percuotono con delle specie di catene dietro alle spalle. Si fanno solo i lividi. Il sangue non esce.

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© Flavio Brunetti

Ritornammo alla chiesa del funerale della moglie di Salvatore l’anarchico. Cominciavano a uscire quelli che avevano dato le condoglianze.

‘O curto ed io cercammo il prete per chiedergli il permesso per il mio reportage. Non lo trovammo.

Il sole era ancora alto quando ripartii per attraversare di nuovo quella terra di sangue, di dolore e di vino. La terra del Sannio.

Flavio Brunetti

Tutte le foto dell’articolo e del portfolio quà sotto sono inedite© Flavio Brunetti

Per saperne di più sull’autore del reportage :

Flavio Brunetti, un artista eclettico

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Flavio Brunetti
Flavio Brunetti vive a Campobasso nel Molise. Vince, come cantautore, l’edizione del ‘93 del Premio Città Di Recanati con la sua canzone Bambuascé, e incide negli anni successivi gli album TU TU TTÙ TU e FALLO A VAPORE (ediz. BMG – Musicultura – CNI) delle sue canzoni. Scrive, dirige e interpreta numerose opere teatrali e musicali tra le quali Storia del Clandestino, L’angelo mancino, Frusta là, Lullettino e Lull’amore. I suoi reportage fotografici hanno meritato esposizioni in Italia, negli Stati Uniti, in Brasile e in Ungheria. Ultime sue pubblicazioni editoriali sono: “Non aprire che all’oscuro”, racconto e catalogo dell’omonima mostra. "Il tempo delle tagliole", romanzo che narra della vita in seminario negli anni ’60.