Il Sacrificio dei fannulloni

Sarà colpa dell’Europa o del disordine nei conti pubblici, ma mentre il governo rassicurava sulla ripresa dalla crisi, ecco una tegola da 24 miliardi che cade sugli italiani.

Questa volta il grosso del conto lo pagherà il pubblico impiego. Un’occasione persa per creare maggiore coesione nel paese, magari imponendo maggior rigore nella lotta alla corruzione e alla endemica evasione fiscale, invece così il paese rischia di essere più diviso che mai.

Il 26 maggio scorso, il presidente del consiglio ha annunciato una manovra economica di 24 miliardi dichiarando che questa misura «ci viene chiesta dall’Europa». Come dire: i conti italiani erano in ordine, non ci sarebbe stato bisogno di intervenire con una manovra aggiuntiva, la crisi era stata ampiamente superata, come più volte ribadito… ma, per colpe altrui, gli italiani sono ora costretti a fare la loro parte di bravi europei. Potremmo definirlo un esempio perfetto del noto meccanismo del blame shift, cioè lo spostamento della responsabilità politica dal livello nazionale a quello europeo. Come ricorda Leonardo Morlino (Democrazia e democratizzazioni, il Mulino, 2003, p. 238), quando si tratta di prendere decisioni impopolari, volte a risanare i conti statali in pesanti deficit, si tenta di giustificarle come il risultato inevitabile di un problema europeo. È l’Europa che ci obbliga ad adottare misure sgradite. Non è mica l’effetto di una politica miope e incapace di una saggia amministrazione dello Stato.

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Sappiamo bene che altri paesi europei sono recentemente intervenuti sui loro bilanci. Nessuno può dubitare del fatto che cinici speculatori abbiano agito contro l’Euro, obbligando i decisori politici a intervenire in difesa della moneta unica. Non si può tuttavia negare che questi attacchi siano avvenuti proprio quando la crisi economica ha iniziato a mostrarsi in tutta la sua realtà. E ciò è avvenuto nell’Unione europea non soltanto in Grecia, ma anche in Italia. Nel gennaio 2009, il paese si fermò per quasi un mese. Per accorgersene era sufficiente viaggiare su un treno da Milano a Roma, o prendere l’autostrada da Bologna a Firenze, oppure andare a cena in un ristorante. Iniziarono allora i primi licenziamenti, calmierati da una cassa integrazione indubbiamente utile a diluire il problema, ma non a risolverlo. Nel frattempo, poco o nulla è stato fatto.

Probabilmente è illusorio chiedere risposte politiche efficaci contro una crisi finanziaria di portata globale. Ma ciò che lascia più perplessi non è tanto ciò che la politica non è riuscita a fare, quanto ciò che negli ultimi anni è stato fatto sul piano politico-comunicativo. Se la politica è inefficace rispetto alla capacità di dare risposte economiche, nondimeno rimane uno strumento collettivo molto importante sul piano simbolico. È la comunicazione politica, infatti, che consente una riduzione della complessità sociale nelle moderne democrazie di massa. Ragion per cui la politica può tuttora dare una prospettiva alla coesione sociale, soprattutto quando è in discussione un’aspettativa di “lacrime e sangue” per la necessità di ridurre la spesa pubblica.

Il governo avrebbe potuto comunicare la crisi e preparare gli italiani ad affrontarla. Ad esempio, si sarebbe potuto chiedere agli italiani di rimanere uniti nel momento delle difficoltà, in nome di una maggiore equità sociale e mediante una campagna contro la corruzione politica e l’evasione fiscale. Invece, qual è stato il principale nemico contro il quale il governo si è impegnato per ridurre la spesa pubblica? È stato il personale pubblico, ossia i cosiddetti “fannulloni”. E proprio ai fannulloni è oggi chiesto di fare un sacrificio, ossia accettare un progressivo impoverimento economico a seguito del blocco degli stipendi.

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Accetteranno? Daranno il buon esempio? Vedremo. Comunque vada, ciò che rimarrà perduto è il sogno di riqualificare il settore pubblico mediante l’introduzione di incentivi per ridurre la spesa storica. La campagna contro i fannulloni, unita ai tagli indiscriminati, non può che deprimere qualsiasi volontà di cambiamento nell’amministrazione dello Stato. Si ripete in ogni occasione che occorre stare attenti a non colpire l’impresa con nuove tasse, soprattutto nei momenti di crisi, poiché se la fiscalità consente di fare cassa, al contempo deprime lo sviluppo. Ma mai nessuno si accorge dell’influenza negativa e demoralizzante delle politiche indiscriminate di contrazione della spesa pubblica. Ai non fannulloni del settore pubblico cosa resta da fare? Adeguarsi al ruolo?

(nella prima foto il ministro dell’economia Giulio Tremonti)

Emidio Diodato


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