La sinistra è al declino?

Si puo’ parlare all’esito delle ultime elezioni in Europa, America e Italia di declino della sinistra? Oppure è vero che i concetti di destra e sinistra come conosciuti nei secoli scorsi sono ormai superati? La storia della sinistra dal dopoguerra ad oggi, sembra darci una chiave di lettura essenziale per cercare di rispondere a questi quesiti. E’ certo che il quadro sociale ed economico del mondo e dell’Italia è profondamente cambiato e cosi anche l’elettorato della sinistra italiana. Dal PCI fino al PD si è assistiti ad una trasformazione e seguendo i segni di questa evoluzione ricca di contraddizioni e difficoltà ci sembra, tuttavia, di trovare un percorso che ha una sua coerenza.

Perché la sinistra italiana è sconfitta? E come mai l’estrema sinistra, che doveva raccogliere i voti in uscita dei “traditori” del PD, in realtà resta sempre cosi minoritaria, non riuscendo neanche ad assolvere a questa funzione. Perché il populismo sia della Lega che di M5S sono vincenti?

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Il fallimento (non nuovo) della estrema sinistra puo’ essere, probabilmente, considerato frutto dell’equivoco conservatore di cui sono rimaste vittime e prigioniere le diverse liste che si sono poste e supposte come alternative per l’elettorato del PD. Da un lato ci si è arroccati in difesa del lavoro senza considerare l’evoluzione dei mercati internazionali che non consentono più alle economie occidentali di essere sufficientemente autoctone e competitive, non si è neanche avuto la forza, come la ebbe il populismo di gauche di Mélenchon in Francia, di spingere per forme di economia più protezioniste. Ed, al contempo, i fuoriusciti del PD si sono ostinatamente posti come sodali difensori degli immigrati, che la gran parte del popolo percepisce (a torto o a ragione) come una minaccia degli interessi e della sicurezza degli italiani. Insomma, non si puo’ avere allo stesso tempo la botte piena e la moglie ubriaca e quindi non si possono difendere i lavoratori italiani e allo stesso tempo essere favorevoli all’immigrazione che è obbiettivamente competitiva proprio con noi.
Il declino delle sinistre pone delle domande vitali, che ormai sono ineludibili e che i progressisti stanno imparando in fretta a porsi un po’ in tutte quelle società occidentali un tempo benestanti e stabili.

Inevitabilmente, come vedremo, le vicende geopolitiche, geo-economiche e quelle specifiche italiane finiranno per incrociarsi, perché comunque la si voglia, la crisi della nostrana sinistra ha motivazioni anche esterne al paese e per certi versi non dissimili dalle altre crisi della sinistra internazionale.

Per comprendere cosa è cambiato, occorre risalire indietro nel tempo, almeno fino ai primi anni novanta. Quando la consapevolezza della fine storica del socialismo reale, fu accolto con spirito contrastante, anche se nel suo principale partito, il PCI, già da tempo era maturata la scelta di aderire al fronte occidentale con la celebre frase di Berlinguer che ammetteva di “sentirsi più sicuro” sotto l’ombrello atlantico che alleato dell’Unione Sovietica.

Pasolini

La definitiva svolta si ha nei primi anni novanta, ma la via all’imborghesimento della sinistra (tutta) risale ad alcuni decenni prima ed ha origine dal boom economico e dal conseguente modello consumista, nella progressiva aspirazione di trasformare il proprio popolo di sfruttati operai e contadini in cittadini scolarizzati, acculturati e con l’aspirazione al benessere secondo un modello borghese. Il consumismo, l’omologazione sono i segni di quella trasformazione, finanche urbana oltre che negli stili di vita, contro cui insorgeva
Pasolini che infatti: “odia i ricchi figli di papà che contestano e che a Valle Giulia fanno guerriglia contro quei poliziotti che sono figli di poveri”. Sulla stessa linea, anche l’opposizione sostenuta da Alessandro Pizzorno quando sul tema dell’identità della classe operaia in alternativa al modello borghese diceva: “Mi viene spesso obiettato che in passato non c’erano solo lotte per il riconoscimento, ma anche lotte di classe. Dal mio punto di vista anche quelle degli operai o dei proletari, se preferisce, erano lotte per il riconoscimento. Non si lotta solo per avere dei vantaggi, ma soprattutto per essere riconosciuti (…)”(Sulla maschera – 2008, Il Mulino).

E’ un percorso che, pur con le sue esitazioni e i suoi ripensamenti, tra scelte endogene ed altre dettate dalla geopolitica, ha una sua coerenza, fino ad arrivare a Berlinguer che con il compromesso storico pone il tema di un’alleanza proprio con quel partito (eterno rivale) che meglio rappresentava trasversalmente il modello (prima odiato) di una borghesia declinata in tutte le sue forme dalla piccola alla grande. Non è forse un caso che il terrorismo (ultima propaggine di una sinistra da contrapposizione pura e dura), cerco’, per certi versi anche riuscendoci, di bloccare quel progetto che stava legando il segretario del Partito Comunista ad Aldo Moro.

Ma tornando agli anni novanta si puo’ dire che ancora culturalmente, se non politicamente, il referente tradizionale della sinistra fosse rappresentato da quella classe lavoratrice e da quel mondo operaio che veniva rappresentato ancora dai sindacati, allora presenti in forza e capaci di dire la propria su contratti, produzione e lavoro. Sono pero’ anche gli anni in cui il sociologo Anthony Giddens teorizza già una terza via della sinistra che, fuori da blocchi sociali ormai meno definibili e chiari, cerca le ragioni di una nuova eguaglianza che fosse assicurata direttamente attraverso l’affermazione di un mercato libero e globale.

In realtà, era accaduto che, dopo i successi liberisti degli anni ottanta e al cospetto del fallimento delle economie socialiste, la sinistra europea, americana ed anche italiana, cominciavano a maturare e a teorizzare un rapporto diverso e meno demonizzato con il mercato.

Anzi, la sinistra inizio’ ad immaginare una via all’eguaglianza mondiale che si muovesse proprio sulle opportunità che si prospettavano con un mercato globale e poi, attraverso l’idea di una rivoluzione nella vita delle persone che vedevano cadere barriere e confini, liberando energie e potenzialità represse da secoli, in una parola, la globalizzazione che divenne in breve, per quell’area politico culturale, una sorta di terra promessa.

La stessa dissoluzione dell’impero sovietico, nell’immaginario dei progressisti, avrebbe dovuto portare ad un’epoca di diffusione della democrazia, di pace e prosperità e finanche all’idea della possibilità di accelerare anche il progetto di una Europa comune e sempre più federata ed inclusiva, che fosse capace di coinvolgere rapidamente, in un progetto di vera democrazia, anche quei paesi che per mezzo secolo erano rimasti, in uno stato di illiberalità ed arretratezza economica e culturale, sotto il tallone di Mosca (era del resto il sogno socialdemocratico di Norberto Bobbio).

A questo si aggiungeva l’ottimismo derivante dalla rapida e crescente evoluzione informatica e tecnologica che apriva frontiere nuove sul terreno della comunicazione (magari in senso meno controllato e più democratico) e sullo sviluppo di produzioni sempre più automatizzate che avrebbero liberato (sulla scorta di quanto già visto con il boom economico) ulteriore tempo per le persone a favore cosi di nuovi spazi per il tempo libero, creativo e ricreativo. Una rivoluzione.

In realtà, il dibattito sulla globalizzazione e le possibilità del mercato ha generato due fratture. Una a destra tra forze dell’apertura al mercato e all’innovazione con forte spinta liberista ed un’altra, più o meno conservatrice, preoccupata per le possibilità di competizione che si andavano generando specie verso le società, fino ad allora ai margini del mercato mondiale e collocate nella fascia terzomondista.

Enrico Berlinguer

Simmetricamente, un’analoga frattura si è verificata nella sinistra. Tra una sinistra che sempre più valorizzava anche gli aspetti liberali della globalizzazione come opportunità di lavoro e crescita ed un’altra preoccupata e più conservatrice che guardava al pericolo di un capitalismo globale e finanziario ( proprio per questo Matteo Renzi in una sua prefazione al libro “Destra e Sinistra” di Norberto Bobbio, parlo’ di superamento di questa storica contrapposizione a favore di due visoni del mondo una conservatrice e l’altra progressista).

Queste fratture hanno generato delle varabili che non permettono più una netta contrapposizione fra destra e sinistra. Si possono infatti determinare coincidenze tattiche e finanche strategiche tra le forze innovatrici (di destra e sinistra) come tra quelle conservatrici (di destra e sinistra) tra loro si possono trovare di fatto, se non formalmente, punti di coesione e finanche di alleanza.

Nel 1995 nasce il WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio) nel quale entrerà nel 2001 anche la Cina che ha un ciclo economico vertiginoso, favorito anche da un crescente benessere, specie nelle aree urbane e da una produzione che non conosce ostacoli sindacali significativi. In un mercato del genere, con l’ingresso anche di altri paesi come l’India anch’essa in crescita, malgrado le croniche difficoltà strutturali di quella complessa democrazia, ed altri tigri come Corea, Taiwan, Vietnam e nelle Americhe il Brasile, l’Argentina (che aveva trovato un assetto più equilibrato dopo la violenta crisi bancaria e di debito di quegli anni), naturalmente, un mercato cosi fatto e non regolato ha determinato da un lato un restringersi delle diseguaglianze mondiali (emblematica la Cina che compra il debito USA), non siamo più alla fame dei tempi di Mao Tse Tung, dall’altro va in crisi rapidamente proprio il predominio economico, al limite del neocolonialismo, dell’occidente che ancora aveva caratterizzato anche se con difficoltà (come fu ad esempio con le due crisi energetiche tra gli anni settanta ed ottanta), gli anni dal dopoguerra fino alla caduta del muro di Berlino.

Profeticamente, Giulio Tremonti in un suo libro del 1995 dall’inquietante titolo: “Il fantasma della povertà” aveva sostenuto che: “L’occidente esportava ricchezza e importava povertà”.

La competizione di mercato e sul lavoro comincia ad essere durissima per l’Occidente e malauguratamente a questa va ad aggiungersi la lunghissima crisi finanziaria iniziata nel 2007 ed i cui effetti sono ancora sentiti. Una crisi che è stata devastante per il modello occidentale di welfare e democrazia (avendo cura di preservare ogni diritto civile, politico e sindacale), ma che ha avuto molto meno effetto su quei paesi emergenti, con standard di welfare e democratici molto diversi dai nostri, come la Cina, che ha visto abbassarsi la sua crescita da un 7,2% al 6,7%, una botta, ma molto lieve rispetto alle tragiche ripercussioni avutesi nell’immediato negli USA e per lungo periodo in Europa e particolarmente in quei paesi come l’Italia dove il soccorso alle banche e al credito era stato molto minore se non nullo rispetto a quanto avvenuto ad esempio, in Gran Bretagna e in Germania.

A questo va anche aggiunto che l’occidente è anche in ritardo nell’opera di riconversione energetica, malgrado proprio la sinistra si sia sforzata con gli ultimi governi di favorire incentivi nella ricerca e nell’uso di energie alternative. Altro elemento critico è la tendenza all’esaurimento delle materie prime, che richiedono cosi costi sempre più sostenuti specie per i paesi che ne sono privi.

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L’Italia fa parte in Europa del cosiddetto circolo dei Piigs (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna) che sono tutti paesi caratterizzati da fragilità economica per diversi fattori, in Italia uno di questi è anche lo straordinario debito pubblico maturato sin dagli anni settanta ed esploso in particolare negli anni ottanta. Un debito che periodicamente si riduce e che si allarga, ma che non consente una sicura e serena politica di investimenti nel paese.

A completare il complesso quadro va sottolineata la mancanza di un nuovo ordine mondiale e il rapido tramonto dell’idea di un mondo governato solo dagli USA, che sempre più sembrano volersi sottrarre dai teatri internazionali, una cosa che ha determinato, nel mercato globale, un’irresistibile tendenza a deprimere sempre più le vecchie economie occidentali, a vantaggio di nuove economie che si fanno meno scrupoli sul piano delle eguaglianze e delle libertà democratiche (e che spesso sono produttrici di materie prime), pur garantendo alle loro “borghesie” condizioni di obbiettivo benessere (si pensi all’India, alla Cina, oggi alla stessa Russia di Putin). Si tratta di società che non corrispondono in pieno al nostro modello di democrazia ma che non sono rette nemmeno da sanguinarie ed oppressive dittature. Cosa che innanzi all’opinione pubblica mette anche in crisi il nostro concetto di democrazia, evidenziandone forse anche le rughe.

La sinistra più rinnovatrice si è fatta consapevole del superamento della fallimentare ideologia novecentesca, abbracciando cosi dei nuovi ideali: l’europeismo, la globalizzazione come motivo anche di crescita culturale e non solo economica, nell’affermazione di una sempre crescente evoluzione dell’informatica e della robotica con tutta la sua ricaduta in termini di liberazione dallo sfruttamento e di conquista di nuove forme di comunicazione (si pensi ai social). Un idea di futuro cosmopolita, non più chiuso solo sull’economia, ma aperto anche alla realizzazione non solo collettiva, ma anche individuale delle persone, una maggiore attenzione ai temi ambientali ed ecologici e ai diritti, nella speranza di favorire una maggiore evoluzione sociale e culturale nel paese.

Finanche nel linguaggio si avverte l’evoluzione, con una sostanziale rinuncia del politichese e l’affermazione (a volte ossessiva) del “politically correct, che è diventato davvero il segno distintivo della sinistra del nuovo millennio. Il tutto magari senza riflettere abbastanza anche sulle conseguenze, non sempre positive, di questi processi (inevitabili o no) di globalizzazione e di modernizzazione.

Al di là dell’entusiasmo iniziale, la globalizzazione ha determinato il declino del mondo occidentale cosi in Italia Il risultato è stato: prima la conquista di interi comparti industriali da parte di imprese straniere se non di multinazionali e poi addirittura la delocalizzazione di queste in un mercato che di fatto non è regolato neanche in sede europea, figurarsi su scala mondiale.

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L’ultimo caso (solo per ordine, ma ne sono numerosissimi), dell’EMBRACO a Torino dove una società brasiliana con capitali svedesi ha una sede in Italia e vuole delocalizzarla in Slovacchia (che fa parte dell’Unione Europea) per poter avere cospicui tagli sulla manodopera, non essendovi un’uniformità di trattamento sul lavoro, in assenza di sindacati moderni che possano stipulare contratti uniformi e transnazionali, perlomeno nell’ambito dell’Europa unita, è emblematico.

Si aggiunga a queste, le irrisolte questioni geopolitiche del sud del mondo e l’ancora complessa situazione sul futuro climatico del pianeta, che determinano fughe di milioni di persone dall’Africa per salvarsi, dalla guerra, siccità e dalla fame e che premono alla porte dell’Europa, appare quindi plausibile la preoccupazione, specie dei settori più deboli delle popolazioni europee ed italiane in particolare, di chi si trovano in prima linea al cospetto di questa massa umana.

Con una Europa che lungi dalle aperture degli anni novanta, si è precipitata in un’asfittica politica di chiusure e di veti incrociati, che ne hanno messo a durissima prova la sua stessa credibilità. Un tema su cui la sinistra molto dovrà riflettere e decidere.

La sinistra si trova cosi sotto attacco su tutti i temi che, dagli anni novanta ad oggi, hanno privilegiato e che hanno caratterizzato l’evoluzione del suo pensiero. La globalizzazione come superamento delle barriere politiche, economiche e culturali, l’Europa aperta ed inclusiva cosi voluta già ai tempi di Prodi.

E’ evidente che in un contesto simile, con fabbriche che si delocalizzano o che sono costrette ad una razionalizzazione del ciclo produttivo per contenere una competizione con le nuove ed aggressive economie, l’insorgere di nuove e precarie figure di lavoro, spesso non qualificate e regolate, ha indotto, gran parte del “popolo” della sinistra, ad emigrare verso quei populismi che si sono dati il compito sovranista di difesa ad oltranza dei “propri” cittadini.

Dietro al voto per M5S e per la Lega c’è una richiesta di protezione non solo economica (reddito di cittadinanza) ma anche di difesa del lavoro e di sicurezza (recenti studi hanno dimostrato che la maggioranza degli italiani percepisce l’immigrazione come un rischio per la propria sicurezza sotto tutti i profili).

sinistra_e_destra.gif Viceversa, appare evidente che la sinistra moderna e democratica, dopo aver vissuto una stagione acerba con il successo « renziano » alle europee, con la speranza di difesa dei redditi (le famose ottanta euro per la classe media, che doveva fare da cuscinetto sulla forbice delle diseguaglianze vere o percepite), ed aver contrastato i 5 Stelle anche sul loro terreno (costi della politica e polemica sui vincoli di bilancio con l’Europa), si trova ora al bivio, dovendo: o disconoscere il suo processo di evoluzione politica (degli ultimi trenta anni), oppure di dover prendere coscienza che il suo “popolo” è cambiato ed accettare con consapevolezza e senza complessi, che oggi la stessa rappresenta un ceto, composto perlopiù da impiegati pubblici, classi colte, conservando consensi nella classe media e potendo, con un’adeguata azione politico culturale, andare alla conquista di settori giovanili specie ben scolarizzati e confermare la sua forza tra le fasce culturalmente medio-alte. Insomma, quel processo d’imborghesimento dell’elettorato di sinistra si è compiuto e non puo’ negarsi che, pur con tutte le sofferenze e le complessità di questi tempi, l’Italia sia oggi, sotto tutti i punti di vista, un paese meno povero (e non solo economicamente) e con più benessere di quanto lo fosse cinquanta anni fa.

Per dirla con il politologo e sociologo Luca Ricolfi: “non esistono più una destra e sinistra divise per fattori economici ma un mondo di sopra ed uno di sotto, che si compongono su fattori sociali, economici, ma anche culturali« . Due mondi che parlano linguaggi diversi (si pensi al citato politically correct di Hillary Clinton e l’estremamente scorretto Trump) che hanno visione del mondo diverse. Quello di sopra: cosmopolita, aperto, più liberale che resta sostanzialmente convinto delle opportunità che la globalizzazione puo’ aprire e che comunque resta consapevole che i problemi del mondo vanno risolti con politiche transnazionali e sovranazionali e non certo nel chiuso delle proprie frontiere. Quello di sotto viceversa: chiuso, diffidente, che avverte (non senza qualche ragione) il pericolo della contaminazione culturale e sociale con gli immigrati, che vuole prima di tutto preservare le proprie potenzialità, che avverte il pericolo di un mercato globale non regolato, che assiste alla fine delle proprie sicurezze.

Naturalmente, il tentativo nobile di rassicurare le popolazioni sull’arrivo degli immigrati e temi come lo ius soli non possono consentire al PD e ad una sinistra moderna e non protezionista, di fare proselitismo proprio fra queste persone che hanno paura del futuro ed evidentemente, almeno allo stato, le rassicurazioni, lo sminuire o peggio il mostrare disprezzo verso quelle paure dei cittadini, specie degli strati più poveri, non fanno che favorire i populismi e la loro politica protezionista.

Peraltro, in chi ha perso il lavoro si aggiunge la consapevolezza e la rabbia nel constatare che per la prima volta le nuove generazioni (i propri figli) non avranno progressi economici rispetto alla loro, si aggiunge un rancore verso le saccenti élite politiche (in primis gli stessi partiti) economiche (le banche) e culturali, visti come classi corrotte ed ingorde (al di là dei loro demeriti) e contro queste categorie soffiano i populismi con un ulteriore effetto di conquista dei voti.

Fin qui la sinistra ha cercato di dissolvere e contrastare i pericoli percepiti da tanta gente, sostenendo che l’immigrazione nella globalizzazione è normale, che bisogna abituarsi ad una mobilità planetaria in materia di capitali e lavoro, che la globalizzazione percepita da molti come un pericolo è invece un’opportunità, che l’Europa non è un problema ma la soluzione, che l’Islam non è una minaccia ma è la prima vittima del terrorismo, tutte cose magari vere, sacrosante, ma che vanno controcorrente con le paure della maggioranza degli italiani (e degli europei) che vedono una Europa che non dà soluzioni, una globalizzazione che ha annientato interi cicli produttivi e desertificato intere aree industriali, e fenomeni terroristici, dove chi spara e ammazza grida “Allah Akbar”.

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La stessa informatizzazione e robotica non hanno favorito le aspettative della sinistra, finendo spesso per dimostrarsi un boomerang, apparendo come l’affare di nuovi ricchi che non producono nulla se non piattaforma digitali e che si tengono pressoché immuni finanche dalle tasse. Ironia della sorte molti di questi campioni, da Bezos a Zuckerberg, per non parlare di uomini della finanza “illuminata” come Soros, sono di sinistra, sono i peggiori avversari del populista Trump.

Lo storico Paul Ginsborg ha argutamente definito il popolo odierno della sinistra come “il ceto medio riflessivo”. Certamente, e non da ora, la classe operaia ha iniziato ad allontanarsi prima dal PCI e poi dalle sue diverse configurazioni ed evoluzioni, già a partire dagli anni novanta, quando l’allora Lega Nord inizio’ ad andare alla conquista di settori agricoli ed operai accusando l’Europa per le quote latte imposte e la politica italiana per gli sprechi a favore del sud e di Roma ladrona, senza che vi fosse alcuna riconversione o rifondazione del settore industriale.

La sinistra moderna ha molto da riflettere, anche in considerazione di un paese che negli ultimi 50 anni è passato da un’economia pesante ad una del terziario fornendo, più che produzioni, servizi. Sul punto che se l’Europa è il futuro (la soluzione) occorre ripensare ai processi di competizione industriale a quelli di infrastrutture ad una vera e propria rifondazione di questi su basi meno idealistiche e più reali. Ormai la ragione, come ha provato l’ultima campagna elettorale, non è sufficiente per rasserenare le inquietudini di larghe fette della popolazione, occorre riconsiderare la società, la scuola magari in termini ancora più liberali, che lo stesso sindacato va rivisto nelle sue forme, che il vero limite italiano è nelle troppe garanzie offerte a lobby e corporazioni che limitano le possibilità anche di Sharing economy che potrebbe costituire uno spiraglio ed una speranza per un paese che deve reiventarsi il suo rapporto con il lavoro e il reddito. Che il progresso non coincide solo con l’avanzamento dei diritti, ma anche attraverso l’armonizzazione delle nostre città, reinventando alla luce, dei pregi e dei rischi della globalizzazione, proprio l’economia e la produttività. Infine, ma non da ultimo, che il sud del paese si stringe al populismo assistenzialista e protettore, perché da decenni, proprio le sinistre (progressiste e conservatrici che fossero) non sembrano capaci di dare un’effettiva risposta di lavoro e produzione, malgrado le infinite potenzialità di quelle terre, in termini di agricoltura, di turismo, ma anche di ricerca scientifica, ambientale ed informatica.

Il paese ha anche bisogno di una profonda crescita culturale che porti alla maturazione di una maggiore coesione sociale e questo non lo si fa negando i problemi o trascurando anche i tanti elementi di irrazionalità che sono proprio figli di un mondo che fatica a governarsi. Il nostro paese tra il berlusconismo e il populismo è cresciuto in una società fondata sui luoghi comuni, su percezioni irrazionali ma che sono vissuti come reali (che poi è quello che conta) ed inoltre come accennato occorre domandarsi su esperienze esterne come l’affermazione del « Trumpismo », della Brexit, la crisi delle democrazie sino ad arrivare a modelli sociali ed economici che contraddicono anche le aspettative democratiche che furono di Bobbio dopo il crollo del socialismo, arrivando a forme di apparente democrazia come in Cina e in Russia dove i leader di quei paesi sono ammirati ed apprezzati non certo per paura della repressione.

Per cui se il fascismo è morto, probabilmente in Italia è morto anche l’antifascismo ed un conto è essere xenofobi ed un altro è il non voler rinunciare a tratti identitari della propria cultura. Combattere i luoghi comuni, che sono anche figli del populismo, lo si fa se si esce fuori anche dai luoghi comuni anacronisti e spesso buonisti che sono nel DNA della nostra più moderna sinistra. Ponendosi l’obbiettivo di magari cambiare la realtà (intervenendo in tutte le sue complesse e contraddittorie sfumature), non di negarla.

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Nicola Guarino
Nicola Guarino, nato ad Avellino nel 1958, ma sin dall’infanzia ha vissuto a Napoli. Giornalista, già collaboratore de L'Unità e della rivista Nord/Sud, avvocato, direttore di festival cinematografici ed esperto di linguaggio cinematografico. Oggi insegna alla Sorbona presso la facoltà di lingua e letteratura, fa parte del dipartimento di filologia romanza presso l'Università di Parigi 12 a Créteil. Attualmente vive a Parigi. E’ socio fondatore di Altritaliani.

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