’Ika’, un racconto di Daniela Pia

In questi giorni di campagna elettorale si parla molto della questione giovani e della questione lavoro. Giovani e lavoro, due parole che pare non riescano a trovare un incontro e in questa mancanza nasce il vuoto esistenziale di un’intera generazione. È in questo vuoto che si snoda il racconto di Daniela Pia, che narra l’esistere precario della giovane Ika alla ricerca della sua identità, della taglia giusta da indossare in una società dalle misure troppo strette, come i jeans taglia 42 che la invitano da una vetrina ad una vita più snella. ‘Consolazione precaria’ in una vita da precari.

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’Ika’ di Daniela Pia

Pioveva a dirotto dentro i pantaloni che non aveva mai indossato. Li guardava grondare, grasse gocce d’acqua leggera, dai vetri appannati della sua cucina. Domani asciugheranno pensava.
Salvatorica, nome pesante, li aveva acquistati una mattina, d’istinto, la invitavano da una vetrina: snelli, vita bassa, delavè.

– Che taglia? – le aveva chiesto la commessa
– Quarantadue.

Aveva risposto pronta, senza soffermarsi sull’espressione dubbiosa e irridente che si era dipinta sul volto di quella fanciulla supponente, agghindata come un manichino, senza un filo di grasso e con nulla fuori posto.

Non importava che la sua taglia fosse la 46, si consolava pensando di essersi regalata dei jeans small. Consolazione precaria.
Ika, diminutivo snello, aveva trovato il modo di far coincidere la silfide che le albergava dentro, con l’ingombrante mole che si trascinava addosso: la ignorava, non era lei. Rifuggiva gli specchi, che erano pian piano scomparsi dalla sua abitazione.

torsolo_di_mela_allo_specchio.jpgNon si faceva fotografare né riprendere. Si truccava tenendo in mano uno specchietto rettangolare col quale inquadrava, di volta in volta, occhi guance e labbra. Valorizzava gli occhi profondi, neri come pozze di pece sottolineandoli col Kajal e spazzolava le sue lunghe ciglia col mascara.
Occhi liquidi i suoi, che sapevano guardare dentro, scrutando gli anfratti più nascosti di chi ne incrociava lo sguardo. Occhi incapaci di guardarsi dentro: vista selettiva in vita precaria.
Grottesco compromesso, teso a valorizzare pezzi di Ika ignorandone l’interezza scomoda e accusatrice.
Eppure predicava bene lei quando, nelle conversazioni pontificava di mangiar sano, di equilibrio alimentare e altre favole. Quando poi chiudeva la porta di casa ingurgitava, di nascosto, anche se era sola, cibi di ogni tipo, spesso senza neanche sentirne il sapore, in un agire compulsivo che la teneva prigioniera e a cui non sapeva e non poteva sottrarsi.

Come trovo lavoro mi metto a dieta; come trovo un uomo mi metto a dieta.

Quando?

Così le chiedeva il grillo parlante che le si agitava dentro e che sopprimeva senza rimorso.

Già il lavoro, bello sognare. E la realtà?
Call center amministrati da servi volontari che avevano dentro il germe del sadismo: chiedere permesso prima di andare in bagno, la sosta al cesso cronometrata.
Sollevare la mano prima di estrarre la bottiglietta d’acqua dalla borsa per poter bere.
Infinocchiare vecchietti, che non capivano di cosa stavi parlando, per far credere loro che avrebbero fatto l’affare del secolo. Vedersi decurtare una fetta dei 600 euro mensili promessi, perché non avevi rispettato una specie di cottimo di cui eri all’oscuro.

E lo chiamavano pure lavoro…

Trent’anni. Senza sogni. Troppo lusso sognare. Laurea in lingue, meglio sarebbe stato ”in lingua “ che, lo aveva scoperto, bisogna saperla usare con dovizia per sopravvivere. Usare la lingua per riverire chiunque avesse nelle sue mani il potere di elargire la modica cifra che consentiva di arrivare a metà mese. Troppo.
Aveva anche provato a fare l’istruttrice di arti marziali, lei che era cintura nera.
In quella palestra si era slogata la caviglia e aveva dovuto stare a riposo forzato.
A un certo punto aveva ricevuto una telefonata:
– pronto Ika? Senti stavamo riflettendo sul fatto che sei un po’ troppo vulnerabile, qualche mese fa hai avuto un’assenza di tre giorni per un virus, adesso questa cosa, la tua è una situazione molto precaria, ne parleremo appena torni.

Ne avevano parlato fra di loro in cooperativa, gente di sinistra. Gente sinistra.

– Ci dispiace Ika ma non possiamo permetterci il lusso di continuare la collaborazione. Guarda, tu sei molto brava ma…
E bla e bla…

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Così era finita la “collaborazione”. Tornata a casa si era catapultata su un solido barattolo di Nutella e lo aveva contemplato a lungo senza aprirlo, assaporando la carezza vellutata nelle papille. Consolazione reale dei sensi.
I jeans stavano lì, mai indossati e colmi del suo desiderio. Domani comincio a dimagrire, pensava. Domani.
Un domani che era come la fatica di Sisifo e che non bisognasse attendere lo sapeva, tanto da avere affissa nel frigo, in bella mostra una poesia di Madre Teresa:

Non aspettare di finire l’università, di innamorarti, di trovare lavoro, di sposarti, […]
di perdere quei dieci chili […].

Dunque, l’università l’aveva finita, non aveva aspettato il domani.
Innamorarsi, almeno fosse, non le apparteneva quel lusso. Lei era quella simpatica, nessun uomo la guardava mai con quella punta di desiderio, sottolineata da alchimia chimica, che percepiva per le altre.
Trovare lavoro.. bah ! Ripose la cioccolata nel frigo.

Corse a disfarsi dei jeans per acquistare un biglietto aereo, di quelli che costavano meno di un pantalone. Partire doveva. Per iniziare davvero a vivere, costruire un qualche presente e provare a ritrovarsi. Oggi. Aveva deciso.

Un racconto di Daniela Pia

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Daniela Pia
Sarda sono, fatta di pagine e di penna. Insegno e imparo. Ho superato i cinquanta, sono una donna, amo leggere e mi piace scrivere. Non potrei fare a meno di passeggiare al mattino presto fra vigne e campi arati. Ogni tanto rubo un fico e mi disseto.

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