L’italiano come necessità: gli alunni stranieri nella scuola italiana

Cosa significa insegnare l’italiano agli alunni stranieri presenti nella scuola italiana? Cosa significa farlo in tempi in cui l’Italia è divenuta meta di immigrazione, e quello dei flussi migratori può essere considerato il fenomeno sociale più rilevante degli ultimi decenni per il nostro paese?

scuola_studenti-classeR375.jpgUna premessa: in italiano, quando si fa un mestiere difficile, che prevede il confronto diretto e quotidiano con questioni sociali complesse, o magari brucianti, si usa l’espressione figurata « essere al fronte ». « Sono al fronte », cioè metto direttamente le mani nella cosa; lo faccio io, senza mediazioni fra me e il suo corpo scottante. A dire la verità ho sempre nutrito un certo sospetto verso questa espressione. Mi è sempre sembrata un po’ ambigua nel suo riferimento all’ambito militaresco, sia che la si intenda come un’esaltazione di chi « combatte veramente » (come se si potesse giudicare il valore dell’attività delle persone attraverso un criterio così’ rozzamente bellicista), sia, al contrario, che si veda in essa una sfumatura pietistica o snobistica verso chi fa il “lavoro sporco”. Da quando insegno a scuola, però, mi sono ritrovato spesso ad utilizzare quest’immagine in riferimento al mio lavoro. Perché ho capito che l’idea di « fronte » rimanda, certo, alla dimensione dello scontro, ma anche a quello dell’incontro, della superficie di contatto, e quindi di apertura verso l’altro. Ecco, insegnare italiano a studenti stranieri in una scuola media italiana significa trovarsi al fronte esattamente per questo. Si ha la consapevolezza di essere la prima istituzione (e probabilmente anche l’unica) che cerca di entrare in contatto e di accogliere persone che in questo momento, in Italia, vengono percepite nel migliore dei casi come un problema. Si ha la consapevolezza di far parte di quel milieu che, nella quasi assoluta assenza di sostegni da altri ambiti, lavora sull’incontro culturale, sull’inserimento e sul dialogo; che assegna, insomma, a quelle persone (ai loro figli) lo statuto di soggetti, anziché continuare a considerarle un mero ingombro fisico o della pura forza lavoro.

E ci si sente al fronte anche perché si è coscienti di far parte della prima generazione di insegnanti chiamata a farlo, con l’enorme quantità di problemi che questo comporta. Le difficoltà, infatti, sono enormi, almeno quanto l’entusiasmo di molte persone che lavorano sulla questione, ed allo stesso tempo – va detto – la poca sensibilità o comunque la scarsissima attenzione di molti altri docenti, che si comportano semplicemente come se il fenomeno non esistesse.

Normalmente, nelle scuole, il percorso di accoglienza è organizzato in questo modo: innanzitutto viene stilato un « Protocollo di accoglienza », cioè una sorta di regolamento in cui si spiega quel deve essere il ruolo di ognuna delle persone che lavora dentro la scuola nel processo di accoglienza e di inserimento del ragazzo: dai segretari ai custodi, fino, naturalmente, al preside (questi incoraggia, di solito, la formazione di una commissione intercultura, formata dai docenti più avvertiti e più motivati in rapporto alla questione), ed a chi avrà il ruolo più importante, cioè i docenti. Questi sono chiamati ad inserire l’alunno in classe e, gradualmente, ad insegnargli l’italiano, prima come lingua di comunicazione, poi come – così si definisce – lingua veicolare, cioè linguaggio attraverso cui passa l’apprendimento (quello in cui sono scritti i libri che il ragazzo dovrà studiare da noi, per capirsi).

485282d53901e_zoom.jpgÈ facile immaginarsi la delicatezza di quest’operazione. I piani su cui si cerca di intervenire sono molteplici, così come gli ostacoli ed i problemi che si pongono ad ognuno di questi livelli. Si ha di fronte un ragazzo, quasi sempre figlio di immigrati trasferitisi in Italia per motivi di lavoro, iscritto in una classe composta all’ottanta per cento da italiani, cioè da suoi coetanei che parlano una lingua a lui ancora incomprensibile. Si pensi alla difficoltà della sua situazione emotiva: alla delicatezza di una fase della crescita come quella preadolescenziale si somma, in lui, il sentirsi diverso dagli altri, o, condizione ancor più complessa, il sentirsi “fra cielo e terra” (come dice, in un bel documentario realizzato da due antropologhe senesi, il padre di un ragazzo immigrato in Italia), perché né del tutto italiano né più del tutto appartenente alla sua comunità di origine. È possibile focalizzarsi esclusivamente sui problemi “tecnici” della trasmissione linguistica, isolandoli dalla componente relazionale e sociale, dall’interazione e dalla comunicazione del ragazzo con il resto della classe? Credo proprio di no. E la risposta la fornisce in maniera lampante la pratica quotidiana in classe.

Evidentemente, all’inizio, il lavoro che si può proporre al ragazzo è, in buona parte, differenziato rispetto a quello fatto con gli altri. Ci si concentra prevalentemente sull’insegnamento degli aspetti basici del linguaggio, ritagliandosi, entro la lezione “normale” rivolta alla classe, degli spazi minimi in cui poter seguire individualmente l’alunno. Si tratta di una fase necessaria del lavoro, eppure l’insegnante capisce immediatamente che deve essere accompagnata il più possibile, e deve gradualmente lasciar sempre più spazio, a quella in cui il ragazzo collabora con i suoi compagni.

Vitali, per lui, sono infatti i momenti di attività collettiva, o di gruppo, entro i quali sente di avere un ruolo, si sente sostenuto o (perché no) sente di poter sostenere gli altri, si percepisce, insomma, come un soggetto attivo, interno ad un percorso di apprendimento che coinvolge lui come gli altri. Appartenere a un gruppo e sentirsi parte di un soggetto collettivo, formato da tutti i membri di una classe: questo è il vero traguardo per un ragazzo straniero che, magari in corso d’anno, magari iscritto in una classe già formatasi l’anno precedente, quasi sempre (all’inizio) senza alcuna conoscenza dell’italiano, si trova a dover entrare in un gruppo di suoi coetanei. Mai come in questo caso l’apprendimento di una lingua avviene attraverso l’interazione con un contesto, con una sfera sociale ed umana. E la capacità di relazionarsi al contesto è, a sua volta, fortissimamente imbricata alla motivazione del ragazzo. Perché la sostiene e la sviluppa.

A chi studia – anche in modo basilare come ho fatto io – la didattica dell’insegnamento linguistico, viene spiegato motivazione è un fattore determinante nella capacità di imparare più o meno velocemente o in modo più o meno approfondito una lingua. È vero, non lo si può negare. Nel caso dell’insegnamento agli stranieri iscritti nella nostra scuola, però, bisogna sapere che è ancora più importante la dinamica quasi opposta: è cominciando a possedere la lingua (anche in forma minima) e sperimentandola, riuscendo a comunicare, vedendo che può entrare in relazione con gli altri alunni, che può scherzare, giocare, lavorare o litigare con loro, che il ragazzo rafforza la sua intenzione di apprendere. La sua è una motivazione che si costruisce con il tempo, egli non parte motivato, come gli studenti più grandi di lui, che decidono di seguire un corso di lingua spontaneamente. La mia esperienza in classe ha sempre confermato questo tipo di dinamica.

Ci sono le eccezioni, naturalmente. Alcune volte ho avuto a che fare con ragazzi che intenzionalmente (e per tutta il loro percorso nella scuola media) si isolavano dal resto della classe, o che dimostravano un atteggiamento ostile o di rifiuto polemico nei confronti dell’insegnante, ma anche dei compagni, imparando quel tanto di italiano che era loro necessario per esprimere le sue esigenze più immediate, ed a volte neanche quello.
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Evidentemente, inoltre, la situazione cambia moltissimo da ragazzo a ragazzo, ed i fattori che determinano tale differenza sono tantissimi: la scolarizzazione precedente dell’alunno, le capacità che ha acquisito, la sua lingua d’origine (l’apprendimento, naturalmente, sarà molto più veloce per chi è di lingua madre rumena, polacca o spagnola che non per il ragazzo asiatico, che arriva dallo Sri Lanka o dalla Cina).

Nonostante questo, e senza volere entrare nell’enorme continente delle implicazioni pedagogico-psicologiche dell’insegnamento a scuola, rimane, come fortissimo dato generale, ciò che dicevo sopra, cioè la dipendenza assoluta dell’apprendimento dalla dimensione socio-affettiva del ragazzo, dal suo interagire e dal suo voler sempre più interagire con gli altri, dalla riuscita del suo inserimento in classe.

Per questo, se in generale il modello didattico dell’insegnamento linguistico oggi prevalentemente dominante è quello di tipo interazional-comunicativo, l’insegnamento agli alunni stranieri a scuola è forse quello in cui esso deve darsi al suo grado più estremo, ed in cui l’insegnante deve avere l’intelligenza di limitarsi ad un ruolo di facilitatore; una persona, cioè, che crea le occasioni di uno scambio (di cui in parte guida lo svolgimento) fra persone di lingue diverse. Con tutto ciò che tale ruolo comporta.

Ad esempio essere capace di dare un valore positivo agli errori che il ragazzo fa (cosa molto difficile per un professore della scuola italiana). O comunque saper leggere quegli errori, saperli interpretare. Va benissimo, ad esempio, che un bambino che prima non utilizzava per niente, o che non coniugava il verbo avere, dica una frase come “io ce l’ho i capelli neri” anziché “ho i capelli neri”. Perché ciò significa che è in grado di dare un senso a quello che sente dire dai compagni (i quali useranno prevalentemente, se pur in modo non scorretto come lui, il rafforzativo “ce” di fronte al verbo avere) e vuole riutilizzarlo. O va benissimo, all’inizio, che usi dei dialettalismi, o delle espressioni gergali. La grammatica verrà dopo. Tutto ciò può sembrare ovvio a molti, ma non sempre un approccio simile è presente nell’insegnamento scolastico agli alunni stranieri.

Certo, non è facile trovare in classe il modo e gli interstizi di tempo per facilitare lo scambio fra i ragazzi italiani e quelli stranieri. Io stesso so di farlo in modo del tutto insufficiente, in particolare con alcuni dei miei alunni (e naturalmente il loro relativo isolamento si complica, man mano che passa il tempo). Diversi, però, sono i docenti che non si rendono neanche ben conto della necessità di farlo. E non parlo dei docenti di italiano. Anzi, questi ultimi sono quelli che dimostrano maggior sensibilità al problema. Parlo dei docenti di altre materie, che spesso pretendono cose molto difficili per il livello di competenza linguistica del ragazzo straniero, o che, comunque, non collaborano al suo apprendimento linguistico. Quando invece sarebbe fondamentale che anche essi si sforzassero di adattare i contenuti delle loro discipline all’italiano degli studenti stranieri.
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Si tratta di un’impresa complicatissima, non c’è dubbio. Il passaggio dall’italiano come lingua di interazione all’italiano come lingua veicolare è davvero molto complesso, e lo riconoscono tutti gli studiosi e tutti gli osservatori. Tanto più che non esiste praticamente alcun tipo i materiale o supporto testuale che aiuti in questo senso: libri di matematica o di storia, per fare un esempio, che nelle loro spiegazioni riducano le difficoltà tipiche del microlinguaggio specialistico del libro di studio (del saggio): le passivizzazioni, il gergo tecnico, l’alto contenuto di astrazione e l’economia (l’assenza di ripetizioni, per così dire) nella costruzione delle frasi.

Dovremmo essere noi, singoli insegnanti, ad adattare i testi. Un lavoro improbo e per certi versi impossibile (soprattutto per chi ha lo stipendio da fame che abbiamo noi), bisogna riconoscerlo, ma credo che almeno qualche sforzo in più in questa direzione andrebbe fatto. Perché anche in questa seconda fase dell’apprendimento della lingua, a mio modo di vedere, si assiste al rivelarsi della necessità della lingua: l’italiano, per l’alunno straniero, più ancora che uno strumento, o un qualcosa in più che può servire nella vita, è la condizione stessa della sua vita, della sua capacità di vivere fra noi, della sua felicità. Ed è un privilegio, per un insegnante, vedere quanto una lingua possa essere necessaria, come un cibo, come una spinta o come una carezza, come ciò che –nel momento in cui viene appreso- dà forza oltre che gratificazione ad un ragazzo straniero.

Giovanni Solinas

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