Di Mauro Ferrari: “Il libro del bene e del male – Poesie 1990-2006”

Per Missione poesia il poeta, critico, editore della Casa Editrice Puntoacapo, analizzato nella raccolta antologica “Il libro del bene e del male”, summa dei precedenti lavori dove la centralità della ricerca si addentra Al fondo delle cose nell’antitesi tra due modalità di vivere e di sentire la poesia: la superficie e la profondità, mentre “Il bene della vista è ostinatamente fuori da ogni canone imperante, perché considera l’Io un punto di vista e non un oggetto di poesia.”

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Mauro Ferrari (Novi Ligure 1959) è direttore editoriale di puntoacapo Editrice. Ha pubblicato le raccolte: Forme (Genesi, Torino 1989); Al fondo delle cose (Novi 1996); Nel crescere del tempo (con l’artista Marco Jaccond, I quaderni del circolo degli artisti, Faenza 2003); Il bene della vista (Novi 2006, che include la precedente plaquette). Numerose le sue partecipazioni ad antologie, tra cui la recente antologia curata da Emilio Coco, Vuela alta palabra (Caza de Libros, 2015). È inserito nell’Atlante dei Poeti di Ossigeno nascente.

Come critico ha pubblicato Poesia come gesto. Appunti di poetica, Novi 1999); i saggi e le riflessioni sono ora raccolti in Civiltà della poesia (puntoacapo, Novi 2008). Ha fondato e diretto fino al 2007 la rivista letteraria La clessidra, ha collaborato all’Annuario di poesia Castelvecchi e a moltissime altre riviste e antologie con saggi, testi e traduzioni di poeti inglesi contemporanei. Ha curato il progetto globale e in particolare il tomo II dell’antologia Il fiore della poesia italiana (puntoacapo 2016), dedicato ai poeti contemporanei. Attualmente dirige l’Almanacco Punto della Poesia Italiana, edito da puntoacapo. È membro della Giuria del Premio letterario “Guido Gozzano” di Terzo (AL) ed è direttore culturale della Biennale di Poesia di Alessandria.

Conosco Mauro Ferrari ormai da diversi anni: è, strano a dirsi nel contesto di una recensione, il mio editore. Con lui ho pubblicato già due raccolte e sicuramente potrei pubblicarne una terza. Persona gentile, molto competente e disponibile, con la moglie Cristina Daglio, si occupa di cultura a tutto tondo. La Casa Editrice Puntoacapo è infatti, attualmente, molto attiva su più fronti pubblicando, oltre che poesia suddivisa in diverse collane, anche narrativa, saggistica, nonché vari altri generi letterari.

Oggi parleremo di lui non come editore ma come autore, come poeta. Ho letto, con molto interesse, il suo recente lavoro antologico: “Il libro del male e del bene. Poesie 1990 – 2006” cercando di calarmi nelle varie dimensioni della sua poetica e di afferrarne il senso compiuto, il divenire dell’architettura della sua costruzione in versi, un lavorio lento, compiuto in oltre venticinque anni di impegno in quest’arte, periodo in cui sono state pubblicate tre raccolte, la prima delle quali non è stata tuttavia inclusa nel libro in questione. Vedremo dunque come Mauro Ferrari ha inteso presentarsi ai suoi lettori, in questa sorta di summa delle sue fatiche poetiche, scegliendo e selezionando, rielaborando e riscrivendo, le opere da lui ritenute più significative proprio, per arrivare a quel senso compiuto sopra citato.

Il libro del male e del bene (poesie 1990-2006)

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Le raccolte, da cui sono tratti i testi contenuti nell’antologia di Ferrari, sono Al fondo delle cose del 1996 e Il bene della vista del 2006 entrambe rielaborate in modo da “[…] strutturare, proprio come dice lo stesso autore, il mondo in cui viviamo per dargli un senso – quanto più esso sembra sfuggire ad ogni ricerca di senso”. Cerchiamo dunque, andando con ordine, di ripercorrere le tappe di questa strutturazione.

Nel libro Al fondo delle cose – che già dal titolo si presenta evocativo – la centralità della ricerca si assesta su un dialogo immaginario fra due personaggi che rappresentano anche l’antitesi di due modalità di vivere e di sentire la poesia: la superficie e la profondità, in fondo comunque due facce di una medaglia che propone anche, contestualmente, una visione drammatica, tutt’oggi calzante alla realtà che ci circonda. Da un lato c’è Francesco Stilita una sorta di asceta che osserva il mondo e l’umanità tutta dall’alto, riconoscendovi un inganno perenne, un’ostilità continua da cui gli uomini devono guardarsi per individuare e difendersi dal Male che è ovunque, sorgendo anche spontanea la domanda se c’è un senso, un’utilità, allora, nello scrivere, domanda alla quale la risposta sembra essere quella di un tentativo di sopravvivenza a latere del mondo stesso, col supporto di piccole e poche cose, senza presunzione alcuna e con la consapevolezza dell’essere creature destinate a una fine temporale. Dall’altro lato c’è Proculo un poeta più mondano e cortigiano che porta con sé altrettanta consapevolezza del Male che circonda l’uomo, ma che non può liberarsene, non può allarmare nessuno, in quanto vittima egli stesso del Potere che lo genera. In questa dimensione apocalittica, preme sottolineare come nessuno dei due riuscirà a salvarsi: il secondo soccombendo al dolore, il primo abbracciando demoni interiori ai quali non potrà sottrarsi. La rappresentazione critica che si deduce da questo dualismo figurativo, porta a riconoscere una realtà- umanità fortemente tesa all’autodistruzione, dove il corpo prevale in maniera cospicua e costante sulla mente, senza quasi vie di fuga.

Ne Il bene della vista ritroviamo, invece, subito un’affermazione forte e chiara – naturalmente una dichiarazione di poetica dell’autore – dalla quale molti critici hanno preso spunto per decifrare i versi di Ferrari: “Il bene della vista è ostinatamente fuori da ogni canone imperante, perché considera l’Io un punto di vista e non un oggetto di poesia.” Il ché vale come indicazione chiarificatrice: non siamo di fronte ad una poesia dove primeggiano le emozioni soggettive dell’io lirico poetante, ma a qualcosa che lascia la possibilità allo guardo di cercare la visione del mondo, individuandola in ciò che gli si para davanti, senza intercessioni, col solo filtro della ragione etica e morale che bandisce ogni forma di illusione, pur riconoscendo almeno alla parola la facoltà di ricreare scendendo al fondo delle cose, tematica che alla fine riprende con soluzione di continuità il precedente libro. Del resto questo lavoro – così come sembra essere tutta l’attività dell’autore – è frutto di elaborazioni e ripensamenti durati un decennio che hanno condotto, in primis, all’ambiguità un po’ sarcastica del titolo e – non certo secondariamente – a quella riflessione sull’io a cui si accennava sopra. Riflessione che non è comunque isolata, pur distogliendosi dai canoni che sovente si riscontrano nella poesia contemporanea. Infatti, un autore che padroneggia la dimensione dell’Io in misura analoga, trasformandone la centralità in punto di vista, è senz’altro Umberto Fiori (di cui abbiamo recentemente parlato in questa rubrica: http://www.altritaliani.net/spip.php?article2842) certamente apprezzato da Ferrari. Per entrambi i poeti vale la regola dello sguardo e non del mostrare ciò che l’Io dovrebbe/potrebbe sentire: per entrambi l’Io altro non possiede se non la vista e, consapevole di questo, non si pensa sconfitto, non si rassegna ma si affida a quest’unico senso rimasto per raccontare le bellezze o le storture del mondo, facendolo diventare strumento coraggioso di visione sul bene che si accende nel buio della negatività, della falsità, della doppiezza, nella ricerca estenuante di quel senso delle cose, di cui parlavamo anche all’inizio dell’articolo. Se c’è un senso ai paesaggi e alla natura, allo scorrere del tempo e alla storia, ai campanelli d’allarme che ci giungono dalle cose stesse, è giusto cercarlo, è d’obbligo trovarlo nelle parole create per raccontarlo.

Alla stregua dei grandi maestri, riconoscibili punti di riferimento di Ferrari, da Dante a Montale, da Rilke a Caproni, qui la ricerca si estende anche oltre il senso citato, qui siamo di fronte a un desiderio di ricostruzione armonica dell’esperienza di vita, e quindi di poesia, provando a passare per la via più difficile, quella della rinuncia di sé stessi per approdare meglio alla verità. Non nascondiamo che potrebbe essere anche una strada più difficile da perseguire, forse perché meno battuta, e che comunque il fascino dell’autobiografismo, dell’io lirico presente nei testi che rende empatica la poesia di certi autori è comunque una dimensione poetica che ci piace e ci appartiene ma, è innegabile che, anche questa modalità ha un suo perché, ha una sua giusta collocazione nella poesia contemporanea, specie perché perseguita con chiarezza e lucidità che non compromettono la comprensione del dettato fortemente filosofico dell’autore.

Alcuni testi da: Il libro del male e del bene

Valerio Merulo al giovane poeta Lucio

“Che triste il tuo libercolo, Lucio;

e che oscena tanta ossessione

di realtà, quel pullulare

d’uomini e cose che sporca la mente…

sconveniente, in questo mondo

civile e irreale che dondola

sospeso fra due salici. E chiedermi

una recensione, via, non è da te…

Guarda con quanta grazia Proculo

invece piazza i suoi prodotti

(tutti lo comprano al Foro)

e già prepara nuove meraviglie.”

*****

Pensarsi liquidi

È questo il limite, credersi forme solide

e risentirsi per gli spigoli che s’urtano

e non combaciano; la nostra vita

balza dallo sfondo fuori fuoco,

i personaggi più non riconoscono il fondale

su cui si agitano, parlando senza intendersi.

Si cresce senza troppo merito

svolgendo la banale formula del nautilo,

che prospera in silenzio e grida sogni eterni:

ogni ritocco accelera lo scempio

e fa l’immagine più oscura,

la scena meno comprensibile.

E la stocastica degli urti,

le occhiate che s’incrociano

attraverso un tavolo come due spade

sono masse estranee che si sfiorano,

tangenze che si creano e deformano;

stridore di un tocco immaginato.

Meglio pensarsi liquidi, legami atomici più deboli,

quell’inumana miscibilità dei corpi che solo un attimo

un angelo in delirio può avere immaginato

chissà da dove cadendo, forse un soffitto di cielo,

e lui un alito soltanto, né pietra né acqua,

ariele senza superfici né liscia traslucenza,

ancora meno, ancora più, un altro stato ancora,

aria nell’aria; vinto dalla pietà, spinto a donarci un poco,

un poco farci essere di più.

*****

Piccioni

Così la vita ci sorprende: era il riflesso

Di una ciocca oltre lo specchio,

imprevedibile; adesso è l’universo

contratto dei colombi grigi

sotto il tetto e lungo il cornicione

irragionevolmente attenti

al mondo che persiste senza loro:

una comunità di singoli,

il guano paziente che s’accumula,

la pioggia che non lava.

Non è di questa terra il loro regno:

ci sovrasta, visibile soltanto

in cornicioni, tetti e cavi sospesi;

a volte, in qualche riverbero

sfuggito dagli specchi.

Osservano, come avanguardie

di un’invasione o messaggeri muti

e scendono ogni tanto qui fra noi

a rammentarci che potrebbero,

– questione di tempo –

a stuolo calare simultaneamente

e sbarrare ogni percorso, ogni accesso,

decretando la fine. Astutamente

fingono di condividere la nostra natura

corporea, lasciando relitti svuotati

sui marciapiedi, immobili.

*****

Orizzontale

La vista ha scelto di vedere –

e scegliere, nel perdersi

di prati e fabbriche palazzi e boschi

scintillanti in danza

tra un cielo e la terra – un mondo

tutto calpestabile e quasi raggiungibile.

Oltre la cerchia amaranto

che ci contiene, qualcosa

preme e manda segni

perseguitando i nostri territori;

qualcosa a tratti penetra

la coda dell’occhio

dissimilmente saltando gli steccati.

(Parla poco se devi,

scrivi se davvero preme:

così stanno le cose che ci fanno,

come piramidi sui vertici – tu

trattieni il fiato.)

*****

Ai bivi

Il Male fu per noi rivelazione.

Non la tarma che s’incunea nella trama

né lo squarcio che rivela il suo lavoro,

piuttosto il dubbio di un nord incerto,

di una bussola dappoco; e che la via

fosse a volte la più ovvia, a volte

quella imprevedibile, nascosta, impraticata –

la retta metafisica che balza via dal piano.

Il Male fu nell’intraprendere la rotta, ab ovo.

Poi tutto fu conferma.

Bologna, 4 aprile 2017
Cinzia Demi

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Cinzia Demi
Cinzia Demi (Piombino - LI), lavora e vive a Bologna, dove ha conseguito la Laurea Magistrale in Italianistica. E’ operatrice culturale, poeta, scrittrice e saggista. Dirige insieme a Giancarlo Pontiggia la Collana di poesia under 40 Kleide per le Edizioni Minerva (Bologna). Cura per Altritaliani la rubrica “Missione poesia”. Tra le pubblicazioni: Incontriamoci all’Inferno. Parodia di fatti e personaggi della Divina Commedia di Dante Alighieri (Pendragon, 2007); Il tratto che ci unisce (Prova d’Autore, 2009); Incontri e Incantamenti (Raffaelli, 2012); Ero Maddalena e Maria e Gabriele. L’accoglienza delle madri (Puntoacapo , 2013 e 2015); Nel nome del mare (Carteggi Letterari, 2017). Ha curato diverse antologie, tra cui “Ritratti di Poeta” con oltre ottanta articoli di saggistica sulla poesia contemporanea (Puntooacapo, 2019). Suoi testi sono stati tradotti in inglese, rumeno, francese. E’ caporedattore della Rivista Trimestale Menabò (Terra d’Ulivi Edizioni). Tra gli artisti con cui ha lavorato figurano: Raoul Grassilli, Ivano Marescotti, Diego Bragonzi Bignami, Daniele Marchesini. E’ curatrice di eventi culturali, il più noto è “Un thè con la poesia”, ciclo di incontri con autori di poesia contemporanea, presso il Grand Hotel Majestic di Bologna.

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