Riletture. Quando “Il ballo d’Irène” irrompe nell’attualità política francese.

Più di tre anni fa il théâtre de la Vieille Grille aveva ospitato per quattro rappresentazioni Le bal d’Irène, lo spettacolo di Andrea Murchio e Alessia Olivetti sulla vita di Irène Némirovski : insieme a Sophie Jankélévitch lo avevamo visto nella sua versione francese e ci era piaciuto molto, come avevamo scritto su questo giornale. Ragion per cui, ad inizio febbraio, ci siamo volentieri recati all’Ecole Suisse Internationale di Parigi dove si dava, in un’unica rappresentazione, la versione originale italiana di questo stesso spettacolo.

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Eravamo pieni di curiosità, e anche di apprensione, perché è sempre a rischio di delusione ritornare a opere o persone che si sono amate. Ebbene, Il Ballo d’Irène ci è sembrato ancora più convincente, più giusto. Ci siamo resi conto che la prima volta l’emozione, e anche l’ammirazione, di vedere l’ottima Alessia Olivetti recitare con tanta disinvoltura in una lingua non sua, e per sua ammissione imparata rapidamente in funzione dello spettacolo, ci aveva in parte distratto da altri elementi, e dettagli. Questa volta, in italiano, abbiamo potuto apprezzare meglio, in tutta la sua forza, innanzitutto la scrittura sobria e penetrante di Andrea Murchio, la sua capacità di scivolare via come in punta di piedi, quasi senza che il pubblico se ne accorga, delineando poeticamente una storia. Ciò, ovviamente, sempre grazie all’accorta regia, e molto, ancora una volta, alla recitazione di Alessia O., alla sua arte di muoversi in scena – come se il personaggio nel contempo reale e creato dalla scrittura, e lei stessa, si fossero in qualche modo magicamente incontrati. Insomma, Il ballo d’Irène si è confermato decisamente, definitivamente bello.

Se tuttavia torno a scriverne adesso è soprattutto per via di un particolare dettaglio. Siamo verso la fine dello spettacolo, nella seconda metà degli anni 30, Irène legge il Gringoire: il pubblico da dietro ne vede il titolo di prima pagina, Cacciate gli stranieri (la stessa frase riviene poi nei dialoghi).

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La storia è tristemente nota: il Gringoire è un giornale politico e letterario, nonché satirico, che a partire dai primi anni trenta, per altro inizialmente su posizioni certo di destra ma non estrema, alimenta il clima antistranieri che si fa via via più radicale in Francia, anche intrecciandosi con una violenta campagna antisemita: secondo il modello complottista allora in voga, infatti, gli ebrei, colpevoli fra altri mali di volere la guerra e diffondere il comunismo o viceversa accumulare le ricchezze alle spalle del popolo, favorirebbero anche l’immigrazione, che semina disordini – dove siano sfociati questi deliri d’odio lo sappiamo, è il tragico patrimonio comune di noi europei. (Il Gringoire ospitò anche diverse pagine d’Irène Némirovski, le ultime anche sotto pseudonimo: ma questo non la protesse dalla deportazione e dalla morte; contribuì invece, presso i suoi detrattori, ancora oggi, a cucirle addosso l’assurdo e ingiusto abito di ebrea che odia gli ebrei.)

Ora, a partire da questo dettaglio, altri ne sono emersi, anche retrospettivamente, come ad attirare l’attenzione dentro la trama su un filo che via via s’ispessiva, e la pièce ci è sembrata, molto più di quanto non lo facesse la prima volta, tre anni fa, alludere tragicamente all’attualità che stiamo vivendo in Europa, e in particolare qui in Francia. Gli autori hanno dunque cambiato qualcosa nel loro spettacolo, abbiamo dapprima pensato, per poi capire che, purtroppo, non si trattava di questo. È la realtà che in questi ultimi tre anni ha accelerato il suo deteriorarsi, il suo precipitare, mostrando una faccia improvvisamente diversa. Anzi, di più…

Non eravamo più di una decina ad assistere allo spettacolo, nella saletta generosamente messa a disposizione dalla Scuola Svizzera – e per momenti avevamo l’impressione che Alessia/Irène ci redarguisse esplicitamente, amichevolmente, come invitandoci a non ripercorrere la sua stessa strada, a svegliarci dalla nostra cecità, e volesse avvertirci del pericolo (quel pericolo appunto che lei Irène, come tanti altri ebrei, non ha voluto o saputo vedere). Così, mentre la storia s’inabissava verso la sua tragica conclusione, ci avvolgeva insieme all’emozione il disagio per quel che ci sembrava concernere, dietro il periodo di cui è questione nello spettacolo, la nostra realtà odierna, sull’onda della coincidenza di alcuni fatti e slogan del passato con fatti e slogan di oggi. Pareva a tratti che quel di cui si parlava in scena ci aspettasse fuori, a spettacolo finito, quasi che noi stessi, asserragliati là dentro, come di nascosto, fossimo una sorta di rifugiati (già, accolti proprio dalla neutrale Svizzera…). Insomma, senza bisogno di cambiar nulla nel loro spettacolo, ma certo coscienti di questo diverso impatto, Andrea Murchio e Alessia Olivetti hanno creato qualcosa di nuovo.

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(Riletture vuol dire riflettere, in generale, su come le opere in momenti diversi possono rivelare aspetti diversi, mostrarsi in una luce nuova. Nel particolare, vuol dire interrogarsi sul pericolo grande che vive la Francia che si avvicina alle elezioni presidenziali della prossima primavera 2017).

Intendiamoci, non voglio certo dire che la situazione che viviamo oggi in Francia (e in Europa) sia in qualche modo paragonabile a quella degli anni trenta, né che Il ballo d’Irène lo lasci intendere. Voglio soltanto dire che questo spettacolo disegna, come proiettandone le ombre contro uno schermo, tanti motivi di quegli anni foschi, in modo tale da riproporli, appunto in quanto ombre, all’attenzione dell’oggi: riattualizzati, ricontestualizzati, essi fanno ormai pericolosamente parte delle nostre vite. Il dibattito elettorale francese, del resto, permette di passarli in rassegna quotidianamente.

Ecco una lista, non esaustiva, di alcuni di questi motivi, colti semplicemente ascoltando differenti radio in questi ultimi mesi: il richiamo crescente al patriottismo e alla grandezza della nazione contro la cattiva Europa, anche per bocca di chi non si sente o non si vuole di estrema destra, e magari si schiera persino a sinistra; la retorica identitaria, che va di pari passo con la diffidenza per gli stranieri, e per il pericolo che costituirebbero, economico come culturale, con la martellante manipolazione dell’informazione, quasi che fossimo sommersi da un’invasione barbarica (le cifre reali, come anche la reale capacità di accoglienza sono ben diverse, come fa capire un semplice studio comparato, nel tempo e nello spazio; e questo per non parlare del fatto che molti di questi arrivi più che un peso costituiscono una risorsa); l’evolvere di questi sentimenti in esplicita xenofobia, soprattutto attraverso la distinzione perversa fra buoni e cattivi immigrati (spicca in questo senso il trattamento di vera e propria disumanizzazione che investe sempre di più i Rom, che fra l’altro, lo ricordiamo, sono cittadini europei, anzi: i primi europei); il suo intrecciarsi con l’odio per i nostri diversi, che siano musulmani, o ebrei, perché storicamente, soprattutto in Francia, xenofobia e antisemitismo sono irresistibilmente attirati l’uno per l’altra, finiscono sempre per incontrarsi, anche se oggi lo fanno in modo più nascosto, e contorto (penso anche al pessimo uso che, purtroppo anche qua e là a sinistra, si fa della situazione medio-orientale)… Del resto, il moltiplicarsi delle teorie complottiste, l’ostilità per i media, e per il nemico invisibile… i famosi loro, che ci manipolano, che non ci dicono tutto, che ci ingannano, che sono tutti putridi, corrotti etc., sono volentieri prima o poi in odore di antisemitismo, per non parlare della finanza, che veramente strangola il mondo e la politica, ma dietro la quale, almeno nei discorsi di alcuni, si agita l’antico fantasma dei banchieri ebrei. E infine, allora come oggi, ritroviamo l’attitudine minimizzante, l’argomentare, per superficialità o disegno, che la situazione non è poi così inquietante, che ci sono anche tante idee nuove e luminose (che certo ci sono, per fortuna…); o viceversa la delusione di tanti rifugiati o comunque immigrati che hanno cercato accoglienza nel paese di liberté, égalité, fraternité, e si trovano confrontati a una intolleranza crescente e prima sconosciuta.

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La Francia non è certo il solo paese a rischio di derive fascisteggianti: in un contesto mondiale in cui la regressione identitaria, più o meno combinata con il fondamentalismo religioso, guadagna terreno, anche in paesi chiave per l’equilibrio mondiale, l’Europa tutta è attraversata da una prolungata crisi morale oltre che economica, e su di essa (con l’eccezione significativa di Spagna e Portogallo) soffia un vento baldanzoso di populismo di destra, di reazione, di vero e proprio fascismo.

La Francia tuttavia, nel quadro europeo, ha il triste privilegio – con le elezioni presidenziali che si avvicinano – di possedere il partito di estrema destra più forte; anzi, a partire dalle elezioni europee del 2014, il Front National è diventato, almeno in prima intenzione, il partito che raccoglie più voti… Questo è stato possibile perché, ben al di là del mero voto di protesta (che certo lo ha alimentato e lo alimenta), il partito dei Le Pen si iscrive in una tradizione di pensiero sociale e politico fortemente radicata in Francia, endogena, e che dall’affaire Dreyfus sino a Vichy ha già fatto le sue prove – ma appunto, in un paese che da ha dimostrato in più occasioni scarsa propensione a riconoscere le proprie zone d’ombra, a fare i conti con la propria storia, si è minimizzata questa realtà poco gloriosa, preferendo attribuire la crescita del FN alla semplice congiuntura, alla crisi (parlo ovviamente di una tendenza, ci son da sempre voci controcorrente). Ora, proprio questa non riconoscenza, questa convinzione diffusa che nella terra che ha prodotto la Rivoluzione il fascismo non potrà mai veramente attecchire, ha contribuito alla sua crescita, insieme alla radicalizzazione di alcuni settori della destra detta repubblicana, che da anni inseguono il FN proprio sui temi a lui cari. A ciò si deve aggiungere l’autoritarismo insito nella V Repubblica, con la sua monarchia presidenziale abbinata al voto maggioritario, che in questi ultimi anni di evidente ingolfamento del sistema è ormai andato fuori controllo: eppure il passaggio a una VI Repubblica, pienamente parlamentare, resta ancora a destra come a sinistra un auspicio minoritario. Oggi insomma il pericolo è grande, anche perché quel che succederà in Francia può avere effetti di contagione devastante sull’Europa.

Non parlo solo delle prossime elezioni. Spero ovviamente che Marine Le Pen (e con lei la destra radicale) venga sconfitta – e tutti quelli che credono nella democrazia saranno sollevati se questo avverrà. Ma nessuno dei candidati papabili di vittoria è desideroso o capace di cambiare la dinamica generatrice di crisi, e il problema fascismo continuerà a riproporsi sempre più rinvigorito: la Francia, e dietro di lei le maggiori democrazie occidentali, sembrano destinate nei prossimi anni a radicalizzarsi sempre di più a destra. Perché comunque, ed è questo il dato più allarmante, profondo, c’è una lepenizzazione delle idee che si è infiltrata anche in settori che magari non votano Le Pen, e che si nutre soprattutto del rifiuto degli immigrati, dei rifugiati, dei diversi.

Certo, è una tendenza forte, non una fatalità. Fuori della politica ufficiale – e al di là dalla necessaria ricerca di soluzioni capaci di uscire dalla crisi con una più giusta redistribuzione delle ricchezze, senza la quale non potremo allontanarci dall’abisso –, ora, subito, dentro la società, ognuno di noi può, deve impegnarsi, che sia con il proprio lavoro o nel volontariato. Appunto, liberando le forze, i sentimenti opposti alla lepenizzazione, disinnescando la cultura dell’odio, mostrando che in Francia, e in Europa, molte persone sono semplicemente disposte, anzi desiderose di accogliere chi arriva da fuori, di trasmettere intorno a sé questa fiducia, perché una società ricca di tanti itinerari di vita, di cultura, di modi di amare diversi, curiosi e rispettosi l’uno dell’altro, è semplicemente, collettivamente, più felice.

Questa, anche, nel contesto odierno, ci appare la lezione de Il ballo d’Irène. Il suo impegno. Speriamo dunque che possa tornare in Francia, e altrove, un po’ meno di nascosto, per raggiungere un pubblico sensibile, e molto più numeroso.

Giuseppe A. Samonà

[n.d.r.] Il ballo d’Irène / Le bal d’Irène era già stato rappresentato a Parigi, in italiano e in francese, nel dicembre 2013 e ad Avignone nel luglio 2015. È prevista una tournée in Svizzera nella prossima primavera.

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Giuseppe A. Samonà
Giuseppe A. Samonà, dottorato in storia delle religioni, ha pubblicato studi sul Vicino Oriente antico e sull’America indiana al tempo della Conquista. 'Quelle cose scomparse, parole' (Ilisso, 2004, con postfazione di Filippo La Porta) è la sua prima opera di narrativa. Fa parte de 'La terra della prosa', antologia di narratori italiani degli anni Zero a cura di Andrea Cortellessa (L’Orma 2014). 'I fannulloni nella valle fertile', di Albert Cossery, è la sua ultima traduzione dal francese (Einaudi 2016, con un saggio introduttivo). È stato cofondatore di Altritaliani, ed è codirettore della rivista transculturale 'ViceVersa'. Ha vissuto e insegnato a Roma, New York, Montréal e Parigi, dove vive e insegna attualmente. Non ha mai vissuto a Buenos Aires, né a Montevideo – ma sogna un giorno di poterlo fare.

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