La promozione culturale italiana all’estero: un sistema a due velocità

Chi sono i promotori culturali italiani all’estero? Attraverso quali reti più o meno formali, e più o meno note, viene esercitata tale l’attività? L’autrice dell’articolo propone delle risposte a questi e a molti altri interrogativi svelando l’esistenza di due canali paralleli di promozione culturale originati dallo scarto generazionale fra vecchi e nuovi utenti del settore.

Gli enti promozionali statali

Al fine di definire il sistema italiano di promozione culturale, è necessario ricordare innanzitutto il funzionamento degli enti originariamente preposti a tal scopo e dipendenti dal Ministero degli Affari Esteri: gli Istituti Italiani di Cultura, le Scuole italiane all’estero e la rete degli Addetti Scientifici a sostegno dei progetti dei ricercatori italiani nel mondo.

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Gli Istituiti Italiani di Cultura sono settantatré e ripartiti in sessantuno paesi, offrenti occasioni di riscoperta della cultura italiana tramite corsi di lingua, spettacoli, mostre, concerti e quant’altro. In Francia, ad esempio, hanno sede a Parigi, Lione, Marsiglia e Strasburgo. Com’è immaginabile però, in tempi di crisi economica, gli Istituti hanno subito grossi tagli sia di personale (con concorsi pubblici fermi al 2012) che di budget, originando inevitabili ricadute sulla qualità e quantità promozionale. Per quanto riguarda le istituzioni statali, è innegabile che nessuno dei governi degli ultimi venti anni abbia dimostrato l’intenzione di migliorare la così detta “seconda fascia” della diplomazia estera, provocando al contrario, nel 2014, la chiusura di ben dieci strutture.*

Gli ostacoli ad una promozione culturale ministeriale di qualità

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Perché non vi è interesse politico nell’investire in una promozione culturale estera che non sia quella commerciale del made in Italy? Volendo credere nell’attenuante della sfavorevole congiuntura economica nella quale riversa l’Italia e l’Europa, sono tre i fattori che possono essere considerati: l’assenza di un guadagno economico a breve termine, la consapevolezza politica della dubbia qualità della formazione offerta e quella dell’esistenza di ben più efficienti canali informali di diffusione culturale…

A livello europeo, la questione “culturale” tornò alla ribalta nel settembre 2014 a Torino. La Conferenza Internazionale fu diretta dalla Presidenza italiana del Consiglio dell’Unione Europea e riaffermò i valori a sostegno della cultura come «bene comune», in quanto «risorsa fondamentale per lo sviluppo sostenibile», osservando, inoltre, come la globalizzazione, la digitalizzazione e la progressiva diffusione delle nuove tecnologie avessero cambiato il contesto di promozione culturale. La definizione di «cultura bene comune» rientra, infatti, nel quadro degli obbiettivi dell’Europa 2020: una strategia decennale proposta dall’Unione Europea nel 2010, rivolta alla democratizzazione della cultura e al miglioramento della qualità della vita negli ambiti dell’impiego, della ricerca, dell’istruzione, della lotta alla povertà, delle energie rinnovabili ecc.

Un investimento statale poco appetibile

Mentre delle «nuove tecnologie» parleremo più avanti, è necessario spendere due parole sulle esigenze governative che frenano il processo di democratizzazione della cultura in quanto «bene comune».

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È facile immaginare che negli ultimi vent’anni, la massima sciagura di ogni governo italiano sia stato quello di dover affrontare un investimento dai risultati a lungo termine. I politici infatti, influenzati dalle lobby, dagl’interessi partitici e da esigenze personali ed economiche di diverso tipo, per far quadrare i propri conti ed ottenere i consensi necessari per arrivare al termine della legislatura, sono soliti comportarsi come un imprenditore, ponendosi come vitale obbiettivo il “guadagno” economico o sociale a breve termine.

Gli ambiziosi progetti culturali dell’UE, che richiedono, al contrario, investimenti a lungo termine pongono così l’Italia in un impasse di difficile risoluzione.
E come conciliare inoltre l’idea -o l’ideale- della cultura come “bene comune” con le logiche capitalistiche della globalizzazione? Come tutelarla dal proliferare di fonti di informazione culturale più o meno accreditate sul web?

È chiaro che qualsiasi organizzazione, italiana o straniera volta a democratizzare ed ampliare l’accesso alla cultura, abbia di fronte a sé due sfide: il tentativo di sottrarre il primato culturale a chi lo offre a costi proibitivi e la tutela della qualità dei contenuti culturali online (non sempre affidabili né professionali). Ma questa è un’altra storia!

La discussa qualità promozionale italiana

Non tutti sanno che nel novembre 2001 la Commissione Nazionale italiana della Cultura Italiana all’estero chiese ad alcuni esperti di analizzare la qualità dell’insegnamento della lingua all’interno degli Istituti Italiani di Cultura, delle scuole e delle Università straniere.

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Un anno dopo si riassunsero negli Atti del Convegno di Roma del 7-10 Ottobre 2002 alcune delle problematiche che erano state riscontrate.

In primis si osservò la necessità di migliorare la coordinazione ministeriale degli strumenti di promozione culturale, in secondo luogo si fece riferimento all’eventualità di uniformare, o personalizzare, relativamente alla lingua madre parlata dagli studenti, la didattica dell’insegnamento dell’italiano negli Istituti Italiani di Cultura; si auspicò inoltre la specializzazione dell’offerta dei corsi universitari creando sbocchi per un possibile impiego in Italia, la formazione degli insegnanti italiani all’estero destinati agli Istituti Culturali come alle scuole, infine l’ampliamento dell’area operativa del lettore universitario. Si precisò che, alla luce dell’incremento della domanda di cultura italiana, dell’evoluzione della comunicazione a livello internazionale e della scarsezza di risorse economiche, fosse auspicabile una revisione della Legge del 1990 sulla promozione della cultura italiana e sulle attività degli Istituti di cultura.

Il risultato? Scorrendo la lista dei provvedimenti legislativi sul sito della Farnesina, alla voce “Cultura e lingua italiana all’estero”, si legge che l’ultimo provvedimento, datato 2015, riguarda la “riforma dell’organizzazione, il funzionamento e la gestione finanziaria ed economico-patrimoniale degli istituti italiani di cultura all’estero” (con decreto 3 dicembre 2015, n.211) e che, perciò, non è stato ancora varato alcun provvedimento volto a risolvere le problematiche riscontrate nel 2001.

L’associazionismo e nuove frontiere «underground» della promozione culturale italiana

Oltre agli enti di promozione culturale dipendenti dal MAECI, esiste un tessuto associativo di cui non può essere sottovalutata la portata. La Francia ad esempio, che nel 2015 contava 1.3000.000 associazioni attive con una media fra 60.000 e 70.000 create ogni anno, dimostra di riconoscere le stesse come un attore economico di effettiva utilità sociale; modus pensandi tipico di un welfare state corporativo (come quello di Germania e Belgio) basato sull’associazionismo in quanto mezzo di soddisfacimento di bisogni collettivi, fra i quali la domanda culturale.

Una delle peculiarità degli istituti, delle scuole e anche delle associazioni culturali italiane all’estero, rispetto ai più generici centri di diffusione della cultura (come i cinema o le librerie che seguono dinamiche commerciali di altro tipo) è, infatti, l’essere il diretto rappresentante del “paese reale”. Dato necessario ma non sufficiente per garantire l’auspicata libertà operativa, nonché la qualità dei contenuti promossi che spesso, proprio perché in mancanza di fondi, si trovano obbligati a piegarsi agli interessi commerciali degli sponsor e quindi alle dinamiche di mercato, facendo della cultura un banalissimo prodotto di consumo…

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Oltre al costo, un altro fattore che sottrae inevitabilmente le nuove generazioni alle associazioni culturali presenti sul territorio è la presenza di una rete di informativa culturale “informale” o «souterraine» di cui Facebook ne costituisce attualmente il principale veicolo. Si tratta di un sistema che opera grazie ai “gruppi” di italiani all’estero, presenti in varie parti del mondo e che funziona pressappoco così: un amministratore crea una pagina inserendovi dei contenuti che richiameranno progressivamente dei followers i quali attireranno a loro volta altri followers che dialogheranno fra di loro in maniera cooperativa passandosi, in tempo reale e in maniera gratuita, informazioni di qualsiasi tipo: dove scaricare l’ultimo film italiano, a chi rivolgersi per dei corsi privati di lingua a poco prezzo, come trovare un alloggio nel paese estero o quali sono le pratiche da eseguire il cambio di residenza.

Come è possibile immaginare gli utenti sono anche stranieri interessati ad avere scambi linguistici e culturali con italiani presenti fisicamente nella loro città, sottraendo perciò, inevitabilmente, clientela ai consolati e agli altri enti storicamente predisposti a tal fine. Solamente scrivendo sulla barra di ricerca del noto social network “Italiani a…” si aprono più di trenta pagine sugli italiani residenti nelle maggiori città internazionali sfiorando, come nel caso di Londra, i 63.000 partecipanti. Con l’appellativo “italiani in Francia” ne esistono ben quattro, più uno dal titolo “Francia…amici italiani della Francia” oppure “Italia Francia insieme”. La città di Parigi dispone di tre gruppi, con contenuti simili, e che contano rispettivamente 15.454, 12.961 e 8.593 iscritti. Le altre città interessate sono Lione (per un totale di 4.969 iscritti), Bordeaux (tot. 1.299), Marsiglia (1.485), Strasburgo (1391), “Aix en Provence Marsiglia e d’intorni” (1.314), Montpellier (1.005), Toulouse (748), “Montpellier, Nimes e d’intorni” (739), ed altre zone di minore afflusso. I «gruppi» sono «chiusi» nel senso che vi si può accedere solamente previo consenso dell’amministratore che, a meno che riconosca un profilo fake, non avrà nessun interesse a negarvi l’accesso consapevole che, più aumenteranno i partecipanti, maggiore sarà la quantità, e -perché no- la qualità, delle informazioni scambiate. Insomma, che piaccia o no, l’informalità, la gratuità e la spontaneità della comunicazione sui social network hanno dato luogo ad un semplice e virtuoso sistema di democratizzazione culturale di successo!

Dati i presupposti, è logico supporre che, fra non molto tempo, gli Istituti, gli enti, nonché le “storiche” associazioni italiane all’estero che non si adegueranno ai cambiamenti socio-culturali in corso e che non eserciteranno le necessarie pressioni politiche per democratizzare l’accesso alla cultura, si troveranno in grande difficoltà nel giustificare ancora la propria utilità sul territorio.

Il quadro descritto si configura, in conclusione, come un “sistema a due velocità” in cui l’età e le disponibilità economiche, costituiscono inevitabilmente, ed anacronisticamente aggiungerei, le principali discriminanti d’accesso alla cultura bene comune.

Giulia Del Grande
Università per Stranieri di Perugia

LINK INTERNI:

*Gli Istituti Italiani di Cultura non devono chiudere. L’esempio di Salonicco. – Aprile 2014 di Gabriella Macrì

Rappresentanza istituzionale all’estero. Tra chiusure e tagli alle risorse, l’Italia si fa più piccola! – Gennaio 2014 di Italo Stellon

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Giulia Del Grande
Giulia Del Grande, toscana di origini, dopo una lunga permanenza in Francia, dal 2018 risiede stabilmente a Copenhagen. Dopo aver ottenuto la laurea in Relazioni Internazionali ha specializzato la sua formazione nelle relazioni culturali fra Italia e Francia in epoca moderna e contemporanea lavorando a Bordeaux come lettrice e presso varie associazioni e istituti del settore, svolgendo, in ultimo, un dottorato in co-tutela con l'Università per Stranieri di Perugia e quella di Toulouse 2 Jean Jaurès. Collabora con Altritaliani dal 2016.

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