Fabo: Il diritto ad una morte assistita.

Tra i molti temi del ritardo culturale italiano vi è ancora l’incapacità di rendere concreto quel concetto di laicità che pure la riforma dei Patti Lateranensi del 1985 avrebbe dovuto assicurare. E’ il caso di Fabiano Antoniani il dj noto come Fabo. Che a seguito di un grave incidente auto divenne cieco e tetraplegico. Uno scivolare inesorabile nel male della malattia, fino a perdere ogni capacità di essere autonomo.

Fabo, a 39 anni abbandonato dallo Stato con i suoi familiari e la vicinanza solo dei radicali e dell’associazione Luca Coscioni, considerava che la sua non fosse più vita, sentiva di aver perso la sua dignità di uomo, dal momento che era dipendente in tutto e per tutto dagli altri. Si è battuto con lettere, appelli al Capo dello Stato, con la testimonianza drammatica delle immagini che lo ritraevano con gli occhi persi nel vuoto nella fatica estrema di articolare quelle due uniche parole che sintetizzavano il suo solo desiderio di essere liberato: “Voglio morire”.

Al parlamento giace da tempo una legge che è intitolata “Del fine vita”. Una legge che fatica ad essere all’ordine del giorno, troppo alto il muro della chiesa, troppo forti i timori dei parlamentari di sfidare il mondo ecclesiastico, che rifiuta a prescindere il diritto di disporre della propria vita.

Il DJ Fabiano Antoniani detto Fabo

Ed invero quella stessa legge non sarebbe stata utilizzabile nel caso di Fabo. Infatti quel progetto di legge parte dal presupposto che la vittima non sia più cosciente mentre il povero Fabo, quella coscienza non l’aveva persa, era (purtroppo) si cosciente ma incapace di tutto, condannato dalla cecità ad un mondo di eterno buio.
In Italia dopo anni e solo con il governo Renzi si è avuto il coraggio di riconoscere alle coppie gay il diritto alle “unioni di fatto”, una legge sull’eutanasia o semplicemente che preveda il non accanimento terapeutico per chi soffre, sembra ancora lontano da venire. Il tutto malgrado Englaro, Welby ed ora Fabo.

Chi si oppone al diritto di morire, ricorda che la dipendenza non comporta una perdita della dignità umana, sostiene che molti anziani finirebbero in una sorta di eutanasia sociale, abbandonati a se stessi, magari indotti al suicidio.

Ci si ricorda che la vita è un bene indisponibile e che non a caso l’istigazione al suicidio costituisca un reato.

Personalmente e liberalmente io considero che nessuno desideri seriamente la morte se non per motivi più che validi e fondati. Sono consapevole che questi motivi non possono che essere soggettivi e quindi soggetti ad essere contraddetti, e tuttavia, trovo triste che Fabo sia dovuto, accompagnato dai suoi cari e dal radicale Cappato, andare in Svizzera per potersi vedere liberato dalla sua condizione di uomo cosciente in un corpo di fatto morto.

Trovo drammatico che ci si divida per questioni ideologiche o religiose, su un principio cosi semplice, che la vita merita di essere vissuta, ma che questa vita deve essere degna di essere vissuta, e qui il limite non è di ordine esistenziale, non siamo innanzi a pur gravi motivi economici, che non consentono di realizzare la propria vita come ci è gradito, siamo innanzi ad un impedimento fisico, non curabile, ad una persona che è cosciente, ma cieca e paralizzata. Un “inutile “ peso, cosi si sentiva Fabo, per se e per gli altri.

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Fabo amava la vita, amava le moto, amava la musica e gli amici, amava sua moglie. Tutto questo, ed altro ancora, dava un senso alla sua esistenza. Senza questo Fabo non è. Di lui resta un simulacro inespressivo e vuoto. Imporgli di sopravvivere a se stesso costituisce un’abominevole forma di tortura, una sorta di condanna da tribunale dell’inquisizione.

L’Italia che ancora non ha una legge che vieta la tortura, per cui è stata condannata dall’Europa, ha il dovere di disciplinare casi come quelli della Englaro, di Welby o di Fabo. Lo deve fare laicamente, avendo il coraggio di essere in sintonia con il mondo occidentale (il nostro mondo), cercando di modernizzarsi come con le “Unioni Civili”, speriamo presto con lo “Ius soli” affinché tanti ragazzi di famiglie straniere, ma nati in Italia, possano ottenere la nostra cittadinanza, ed anche dando una legge nel solco dell’eutanasia. Perché il “Fabo” di domani, non sia costretto a scappare in Svizzera per ottenere il diritto ad una morte che non sia iniqua.

Il radicale Cappato, nello spirito culturale di quel partito che fu di Pannella, ritornato in Italia, dopo aver dato notizia della morte di Fabo, si è auto-denunciato per istigazione al suicidio, un reato che non ha commesso, augurandosi tuttavia un processo, affinché di questo si possa parlare ancora e magari avere finalmente una legge che ci metta al passo con le più moderne culture democratiche europee. Fabo quella morte l’aveva chiesto ad una politica italiana che al suo grido di dolore era rimasta sorda, troppo presa a parlare di scissione e delle “colpe” di Renzi, di stadi e Raggi, di chi deve succedere a Berlusconi, di tagliare vitalizzi ai parlamentari, ma incapace di parlare alla gente dei suoi problemi reali.

Quanti altri Englaro, Welby, Fabo bisogna aspettare perché il nostro paese abbia un sussulto di civiltà?

Nicola Guarino

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Nicola Guarino
Nicola Guarino, nato ad Avellino nel 1958, ma sin dall’infanzia ha vissuto a Napoli. Giornalista, già collaboratore de L'Unità e della rivista Nord/Sud, avvocato, direttore di festival cinematografici ed esperto di linguaggio cinematografico. Oggi insegna alla Sorbona presso la facoltà di lingua e letteratura, fa parte del dipartimento di filologia romanza presso l'Università di Parigi 12 a Créteil. Attualmente vive a Parigi. E’ socio fondatore di Altritaliani.

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