‘Lacrime di sale’ di Pietro Bartolo e Lidia Tilotta

Una sorta di oblio. Le persone che arrivano sulle coste del Mediterraneo sembrano essere senza legami e la possibilità di mantenerli o ricostruirli non sembra assumere vitale importanza per molti che vivono su questa sponda del mare. Il saggio-romanzo “Lacrime di sale. La mia storia quotidiana di medico di Lampedusa fra dolore e speranza” di Pietro Bartolo e Lidia Tilotta, tenta di ricostruire questo legame, ridare nome, volto e umanità ai corpi senza nome e senza volto che bagnano di disperazione le nostre coste.


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Lacrime di sale. La mia storia quotidiana di medico di Lampedusa fra dolore e speranza di Pietro Bartolo, Lidia Tilotta. Milano, Mondadori, 2016

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Ho letto Lacrime di sale nelle prime sere di ottobre; mi sono poi resa conto di aver chiuso l’ultima pagina la notte del 3 ottobre. È una data particolare, che ha assunto un valore simbolico: il 3 ottobre 2013, trecentosessantotto persone sono morte in quello che allora sembrava il più grande naufragio di migranti nel Mediterraneo; altre tragedie lo avrebbero superato.

Forse è stato un inconsapevole modo di rendere omaggio alle vittime, come forse lo è stato l’indugiare di fronte al mare il mattino seguente. È il mio mare, quello a lato della strada che abitualmente percorro per andare al lavoro, nella mia ordinaria quotidianità.

È lo stesso mare dello straordinario quotidiano che alcuni affrontano da anni.

«Respiro a fatica per la stanchezza. Ho la nausea, una sensazione di oppressione al petto. Non ce la faccio più. Puoi cercare quanto vuoi di tenere addosso la corazza che ti consente di andare avanti, ma la tua anima viene comunque travolta, inevitabilmente. È come se fossimo in guerra. Una guerra che non abbiamo scelto noi di combattere e che stiamo affrontando ad armi impari. Che ci consegna ogni giorno decine di feriti. E noi non possiamo fare altro che stare in trincea, nel senso più letterale del termine».

Così, in quarta di copertina, le parole di Pietro Bartolo indicano subito cosa si leggerà.

Si scende in apnea prolungata man mano che le pagine si voltano perché l’apparente semplicità della scrittura e della narrazione, libera da retoriche e complesse costruzioni lessicali, restituisce immediatamente il senso d’umanità, il bisogno disperato di «restare umani» (come chiedeva Vittorio Arrigoni descrivendo ciò che accadeva nell’assedio di Gaza).

Il dottor Bartolo, come il sindaco Giusy Nicolini, il parroco don Mimmo, il pensionato Vincenzo che porta ogni giorno fiori al migranti sepolti nel cimitero dell’isola, l’anatomopatologa dell’università di Milano Cristina Cattaneo, che insieme ad altri esperti sta cercando di dare un nome alle vittime del naufragio del 3 ottobre, così come moltissime persone che vivono a Lampedusa, ogni giorno, non dimenticano di essere umani.

I ventisei brevi capitoli del libro, scritti con Lidia Tilotta, intrecciano nella narrazione frammenti di esistenze altrui e autobiografia personale, in una scrittura leggera che già nelle dediche in apertura dichiarano quanto i legami affettivi siano, per chiunque, fondamentali: «Ai nostri padri, Giacomo e Gaspare. Alle nostre madri, Grazia e Nuccia. Alle madri e ai padri, ai figli e alle figlie che cercano solo un posto dove vivere e crescere».

Le persone che vengono salvate o che muoiono, annegate o in seguito alle violenze subite, hanno legami familiari, come ciascuno di noi, come ciascun essere umano.

Molto spesso, mi pare che ci sia una sorta di oblio su questo. Le persone che arrivano sulle coste del Mediterraneo sembrano essere senza legami e la possibilità di mantenerli o ricostruirli non sembra assumere vitale importanza per molti che vivono su questa sponda del Maditerraneo.

«Siamo di fronte a gente che scappa e che ha tutto il diritto di vivere, come ce l’abbiamo noi» – dice Andrea Camilleri nel documentario “Lontano dagli occh”i, di Domenico Iannacone e Luca Cambi – «Il muro non è altro che la proiezione fisica del muro mentale che è in te. Non stanno tenendo lontani gli altri, c’è in un gesto simile la cecità del futuro»[[Il documentario è andato in onda il 3 Ottobre 2016 su Rai Tre.]].

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A me interessano molto i sottili fili delle narrazioni individuali, conscia che sono sempre inscritte in un tessuto più ampio: culturale, sociale, storico. E, pur cercando di immaginare quanto possa essere complesso gestire flussi migratori scatenati da motivi economici, politici, bellici (sarà poi possibile gestire e contingentare il dolore, la paura, la speranza?), non condivido il pensiero che respinge, perchè appartengo a quello che accoglie e cerca di trovare possibili risposte. Servono teste ben fatte, direbbe Edgar Morin, per pensare a proposte complesse per problemi complessi.

A Lampedusa, come in altri piccoli comuni italiani che cercano di costruire possibili modelli di intervento ben fatti, modelli di relazioni possibili, le storie individuali diventano storie collettive ed in molti hanno «teste ben fatte».

Forse sono state le esperienze personali che hanno permesso al dottor Bartolo (come a moltissime altre persone) di averla una testa ben fatta, per mettersi nei panni degli altri, di entrare in empatia con altri umani, non necessariamente invasori, predatori di lavoro, distruttori di culture e civiltà.

Solo il mettersi nei panni dell’altro, il prenderne cura, può costruire e creare legami. Nei panni degli altri, forse, Pietro Bartolo ha imparato a mettersi da adolescente, cosi come lo ricorda nel libro:

«È gelida l’acqua. Mi entra nelle ossa. Non riesco a liberare la stazza dall’acqua. Salto da un punto all’altro ma ogni tentativo è vano. Uso tutta la mia forza e la mia agilità ma la lancia resta piena. E cado. All’improvviso. Senza nemmeno rendermene conto. Ho paura. È notte fonda e fa freddo (…). Non potevo e non dovevo cadere in mare. Mi sembra di morire. (…). Non voglio morire cosi. Non a sedici anni. Sono terrorizzato. (…). Poi qualcosa accade. Lui si volta e si accorge di me, delle mie braccia alzate, della mia voce rotta dal pianto, e torna indietro a prendermi. (…). Ho freddo, sto male, inizio a vomitare acqua salata. Piango come un bambino disperato. Mio padre mi stringe forte, mi riscalda come può. Torniamo a casa con la barca vuota per una battuta di pesca andata male ma con una vita salvata. La mia. (…). Ogni tanto l’incubo di quella notte torna a farsi vivo ma, da oltre venticinque anni, a quell’incubo, a quel terribile ricordo se ne aggiungono altri, ancora più devastanti e purtroppo, temo, altri se ne aggiungeranno» (pagg. 3-4).

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E forse è da questo che Pietro, diventato il dottor Bartolo, riflette:
«curare ferite del corpo è il mio lavoro. Fare del mio meglio per alleviare il dolore. Uno dei miei crucci, però, è quello di non possedere gli strumenti per curare le ferite dell’anima.
Quando pensiamo alle migliaia di profughi che arrivano ogni giorno sulle nostre coste, facciamo fatica a dar loro un’identità, a inquadrarli come persone, a non ridurre tutto a meri numeri. Bene che vada, proviamo pena se sappiamo che patiscono sofferenza atroci o muoiono prima di raggiungere la meta agognata, ci rattristiamo se vediamo un bambino esanime tra le braccia di un soccorritore. Possiamo commuoverci, persino piangere, ma è come se stessimo guardando un film. Sono sensazioni che durano un tempo limitato. Tutto è semplificato, banalizzato. Non esiste complessità nel nostro modo di affrontare “il” problema. Quasi mai ci poniamo la questione della debolezza, della fragilità emotiva, dei traumi interiori di chi arriva nel nostro Paese in cerca di aiuto. E’ come se, magari involontariamente, li considerassimo esseri umani con una psiche differente dalla nostra, meno meritevole di attenzione». (pagg. 17 e 18).

«L’isola è lo spazio più aperto che esista» – dice ancora Andrea Camilleri – «Sembra chiuso da tutti i suoi lati dal mare, ma il mare non chiude, il mare apre» e su questa riflessione, e nei racconti di Lacrime di sale molti sono stati i pensieri ed i richiami anche al mio lavoro, che, come ho già avuto modo di esprimere in questo sito, ha molto a che fare con la costruzione di legami ed il prendersi cura. Ed anche, continuo a pensare, col provare a costruire modelli per approcci futuri a situazioni complesse.

E’ stato per me simbolico un gioco osservato alcuni anni fa’, in una scuola dell’infanzia, in uno spazio decisamente piccolo per la convivenza quotidiana di circa 25 bambini

Marina ha delimitato l’angolo-gioco della ‘casetta’ presente in sezione con un semicerchio fitto di seggioline. Urla: «Uffa ora ci gioco io eh! se ci vengono anche loro (indicando alcune bambine) io non ci sto (intende dentro lo spazio disponibile) e non posso giocare come voglio!!! No! Te non ti ci voglio!».

Le sue dita prima si chiudono a pugnetto, le labbra si stringono, gli occhi sono due spilli puntati, poi, come una delle Erinni, esce dal ‘suo’ spazio per dare due schiaffi in volto (ed una pentolina in testa) alla bambina che ritiene essere il principale invasore di quello che ha delimitato come proprio territorio. Quindi rientra in ‘casetta’ e prosegue faticosamente il suo gioco, tenendo sotto controllo con lo sguardo i movimenti delle altre bambine.

Un metro a fianco, Elena dispone panchine e seggioline a semicerchio (lasciando un ampio spazio per permettere il libero accesso) in modo da poter allestire un gioco con le costruzioni in cui cerca di coinvolgere Luca, un bambino con sindrome dello spettro autistico. Elena ha posizionato anche la scatola delle costruzioni (quelle da lui solitamente usate) e alcuni pezzi sono già sulla panchina, accenno di un gioco che sta iniziando ed aspetta il contributo altrui.

Forse è un’esasperazione pregiudiziale del pensiero ma è molto difficile non immaginare questi episodi quotidiani come propedeutici di futuri scenari. Se concordiamo che le relazioni e l’alfabetizzazione emotiva fa ‘palestra’ anche a partire dai contesti educativi, quello sopra descritto era proprio un esercizio per alfabeti emotivi e relazionali.

La proiezione di comportamenti futuri, di possibili modelli di relazione a cui attingere quando ALTRI bussano a noi, che siano confini geografici o confini corporei non dovrebbe sfuggire a chi svolge una professione educativa. A partire dall’uso dello spazio.

Tengo spesso a mente il testo di Vanna Iori Lo spazio vissuto. Luoghi educativi e soggettività (1996, La Nuova Italia), quando ogni giorno entro a scuola ed è potentemente risuonata in me, leggendo ‘Lacrime di sale‘, una sua affermazione: «lo spazio è elemento imprescindibile dello spazio educativo, sua qualificazione primaria. (…) Accanto alle dimensioni oggettive e misurabili dello spazio fisico-geometrico, vi e’ la dimensione oggettiva e vissuta dello spazio che si modifica con il mutare dello stato d’animo».

Lo spazio di una scuola, lo spazio di un mare, di un barcone, di un gommone, di un’isola.

Commemorazione delle 368 vittime, naufragate a Lampedusa il 3 ottobre 2013

Cosi, a me pare, la situazione sopra descritta sintetizza molto efficacemente ipotesi di modelli di comportamento a cui attingere successivamente. Come si muoveranno nei prossimi anni Marina ed Elena, di fronte a chi chiedera’ di ‘occupare’ parte del loro spazio? Quale sara’ la memoria dei vissuti che ogni giorno hanno messo in atto in un luogo significativo, in cui hanno vissuto molte ore ogni giorno? La ‘lotta’ per la gestione di una porzione di spazio (quindi il suo arredamento, la sua fruizione in solitaria o in mini/maxi gruppi) si esercita costantemente, in un’alternanza di soluzioni: mediate e/o imposte dall’adulto, ricercate dai bambini. Se ci sono con loro adulti con teste ben fatte è possibile sperare che ci saranno futuri adulti con teste ben fatte.

«Io non lo so come si fa, ma se me lo fai vedere e me lo spieghi poi lo so fare da sola», mi ha detto Emma, 5 anni, qualche tempo fa a scuola.

Io non lo so come si fa per non dimenticarci mai di essere umani ma se guardiamo al dottor Bartolo poi (spero) possiamo farlo da soli.

Simonetta Musetti

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Mercredi 8 mars à 19h / Littérature / Rencontre à l’IIC de Paris, rue de Varenne

Présentation
Un médecin à Lampedusa

Pietro Bartolo est le médecin qui, depuis plus de vingt-cinq ans, accueille les migrants à Lampedusa (Sicile) et se bat pour leur apporter dignité et réconfort. Son histoire se mêle ainsi aux destins bouleversants de nombreux migrants qui, fuyant la guerre ou la faim, ont survécu à un terrible voyage et aspirent à recommencer une nouvelle vie en Europe. Pietro Bartolo a été l’un des protagonistes du film Fuocammare de Gianfranco Rosi, Ours d’Or au dernier Festival de Berlin. A l’occasion de la parution de son livre Les larmes de sel. Le médecin de Lampedusa (JC Lattès, 2017), écrit en collaboration avec la journaliste Lidia Tilotta, nous avons invité les auteurs à dialoguer avec Laurent Gaudé, Prix Goncourt et grand connaisseur de l’Italie et de son histoire. Soirée organisée en collaboration avec les éditions JC Lattès.

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