Saharawi. Immagini dal silenzio.

Nel Sahara occidentale esiste un popolo che da anni combatte una guerra silenziosa.

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I Saharawi denunciano da decenni la proprio condizione per mezzo della fotografia. Durante gli anni della guerra dal 1975 al 1991, i sahrawi raccoglievano le fotografie dei nemici custoditi negli zaini, nelle tasche delle divise e nei portafogli per mostrarle alla stampa e ai funzionari delle organizzazioni internazionali a testimonianza della guerra in corso; fotografie raccolte nel progetto “Necessità dei volti”. Dal 2005, invece, la controinformazione saharawi si è adeguata ai tempi, e ha cominciato a utilizzare come arma la tecnologia, per la precisione i cellulari e internet.

Un connubio che a noi occidentali non dice nulla di nuovo da anni ormai; tecnologie che per noi sono svago, divertimento, ma che in questo piccolo pezzo di Africa sahariana si trasformano in denuncia e salvezza.

L’obiettivo degli studi post coloniali, che a questo tema dell’ uso della tecnologia come strumento di lotta politica si sono dimostrati molto sensibili, è quello di riproporre la molteplicità al posto dell’unicità; la sensibilità per l’altro, il tentativo di ridare voce ai perdenti della storia (come direbbe Benjamin). Si tratta di spostare lo sguardo: non fermarlo solo sui protagonisti o, come direbbe Foucault, su chi detiene il potere della storia, ma guardare anche ai dominati, assumendo così il punto di vista della molteplicità: “bisognava che la storia fosse continua perché venisse tutelata la sovranità del soggetto”[1].

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Ma c’è un’inversione di rotta. Le persone che erano oggetto di studio, soprattutto nelle arti visuali come ad esempio film etnografici, o la fotografia di denuncia, iniziano a produrre le proprie immagini e a documentare la propria vita sociale. L’uso strategico dei media da parte delle “popolazioni indigene” permette loro, per la prima volta nella storia, di controllare la propria immagine e di inviare alla comunità internazionale i messaggi che desiderano.

Il popolo saharawi, infatti, utilizza queste nuove tecnologie per far fronte al silenzio, ovvio, del governo marocchino e a quello meno scontato dei media tradizionali che, tranne in rarissimi casi, nascondono al mondo quello che sta succedendo. Internet, invece, con l’“aiuto” delle fotocamere dei cellulari e il bluetooth, fa da autostrada virtuale verso un’informazione più aperta e verso organizzazioni e personalità che altrimenti sarebbe impossibile raggiungere.

Le fotocamere e il bluetooth permettono ai perseguitati di fotografare, in qualunque momento, le violenze subite e, soprattutto, riescono a far passare le informazioni in maniera più sicura e veloce, perché rendono più complicata la confisca dei materiali (ci si può facilmente passare le immagini da un cellulare ad un altro tramite il bluetooth, anche in momenti critici, come una cattura).

Il passo successivo è quello di inserire le foto su una piattaforma internet che cambia sempre, così da sfuggire alla censura e denunciare al mondo le violenze subite, le detenzioni e i processi illegali, le abitazioni devastate e le torture.

Le fotografie scattate dai sahrawi sono, come le chiamerebbe Derrida, un archivio. “Niente archivio senza un luogo di consegna (internet ndr), senza una tecnica di ripetizione (stampa ndr), e senza una certa esteriorità”[2].

Non esiste un archivio senza una consegna in un luogo esterno che accerta la possibilità della memorizzazione, della ristampa o della ripetizione.

Il primo istante dell’archiviazione sahrawi sta quando il soggetto preme sul bottone per scattare la foto. Scatto che significa possibilità di riproducibilità, di ristampa, che nel caso saharawi avviene a volte tramite il bluetooth, altre volte avviene direttamente col supporto esterno di internet. Derrida afferma che la pulsione primaria dell’archivio è quella di morte: con internet la pulsione di morte continua a esistere, anzi è più frequente. Ogni volta che con un clic si guarda la fotografia, la si ristampa, la si rimanda; il medesimo clic che dà morte, allo stesso tempo dà vita.

Angela Verrastro


[1] Michel Foucault, “Il sapere e la storia”, Verona 2007, p. 75.

[2] Jacques Derrida, “Mal d’archivio”, Napoli 2005, p. 22.

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Angela Verrastro
Angela Verrastro laureata in antropologia culturale/visuale alla Federico II di Napoli, dottoranda in antropologia culturale alla Sorbonne, socia fondatrice dell’associazione antrocomonluscampania