Quel che ho capito sul Referendum Costituzionale del 4 dicembre

La Costituzione non è un testo sacro. Come gli stessi costituenti avevano previsto, essa è emendabile, modificabile. Viaggio all’interno del confronto referendario per capire le ragioni di chi vuole il Sì.

Personalmente, questo referendum Costituzionale è stato (ed è) per me una bella occasione. Per cercare di capire, saperne di più, su una materia – il diritto costituzionale – che mai avevo incrociato, e che (da lontano) mi aveva sempre affascinato. In questi mesi ho avuto modo di ascoltare persone diverse, e di diverso orientamento, competenti nel campo; tra la Sorbonne, Sciences Po, e altri luoghi di incontro, la comunità italiana di Parigi si è raccolta con passione attorno a questo tema. E allora vi dico cosa credo di aver capito, dopo tutto questo fare e disfare (che è tutto un lavorare).

Prima cosa: il diritto costituzionale è materia bellissima. Per profondità e complessità di astrazione architetturale, rientra tra le discipline capaci di darmi un senso di vertigine (nella mia esperienza, le altre sono: filologia romanza, teologia, analisi matematica e filosofia medievale).

Seconda cosa: la Costituzione è un libro laico, non il libro sacro di una religione rivelata. La presunta « intoccabilità » della Costituzione non tiene conto proprio della Costituzione stessa, che (da libro laico quale è) contiene già in sé i principi e le regole per essere modificata. Cosa avvenuta 35 volte in 70 anni. Di cui una ventina fino al 1970. In ogni caso la riforma non tocca la prima parte della Costituzione, quella dei principi fondatori, ma la seconda, quella sul funzionamento delle istituzioni.

Terza cosa: la riforma non viene, per così dire, ex nihilo, ma tocca punti su cui si discusse fin dagli albori della storia repubblicana: in particolare, il bicameralismo paritario. Ad esso erano contrari Togliatti e Dossetti. Mentre Calamandrei era addirittura a favore del presidenzialismo (De Gasperi invece, fautore di una democrazia consensuale, era per il paritario, va pur detto). Il bicameralismo paritario fu una scelta di (nobile) compromesso, in un mondo dove le due principali fazioni (quella comunista e quella democratico-cristiana) si guardavano con enorme diffidenza.

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Quarta cosa: l’alternativa non è tra la vita e la morte. Le letture apocalittiche sono sciocche. Tuttavia un elemento importante c’è. La storia di quella che viene chiamata « seconda Repubblica » mostra il ripetersi di situazioni di difficile governabilità, di difficile rapporto tra risultato delle urne ed espressione di governo. Persino nel 1994, quando il centro-destra guidato da Berlusconi si impose largamente e con una legge elettorale di impianto maggioritario, vi fu bisogno di una « trattativa » per portare parlamentari eletti nelle file del « centro » nella maggioranza governativa. Nel 1996 Prodi cadde poi per mano della sua stessa maggioranza, il che diede vita poi ai governi d’Alema e Amato con un rimescolamento artificioso del paesaggio parlamentare (quel che si dice: una « manovra di palazzo », ben orchestrata da Massimo d’Alema, che forse anche per questo ora difende a spada tratta quel sistema in cui sapeva nuotare così bene). Per non parlare della disastrosa navigazione dell’ « Unione » nel 2006. Fino al 2013, quando si è prodotta una stasi di sistema clamorosa: un parlamento non in grado di esprimere aritmeticamente alcuna maggioranza chiaramente legata al risultato delle urne, e condannato quindi o ad esprimere una « große Koalition » (governo Letta) oppure una maggioranza basata sull’appoggio di partitini minuscoli (NCD) capaci di porsi come « ago della bilancia » e di far pesare un potere di interdizione ben superiore al loro consenso. Per queste ragioni, si è posto il problema di intervenire sulle due cause di questa progressiva stasi: legge elettorale e bicameralismo paritario. Che le persone che più sono ostili ai governi di « unità nazionale » o ai « governi del presidente », e che gridano all’esproprio della volontà popolare, siano poi in genere anche ostili alla riforma, è un mistero. La « contradizion che nol consente », direbbe Dante.

Quinta cosa: i principi fondamentali della riforma mi trovano d’accordo. Superamento del bicameralismo paritario, trasformazione del Senato in una camera delle regioni, limiti alla decretazione d’urgenza, soppressione di enti come il CNEL (residuo del corporativismo fascista, della « camera dei fasci e delle corporazioni », poi declinata in senso democratico e non autoritario, ma appartenente a un altro tempo, e de facto ormai ente del tutto inutile se non per assicurare strapuntini e piccole rendite personali); correzione della babele di competenze regionali creata con la (rivelatasi pessima) riforma del centro-sinistra nel 2001. Chi dice che la produzione di leggi con il parlamento attuale è già sufficiente, e non c’è bisogno di accelerare, dice una cosa inesatta. Le leggi in Italia hanno tempi di approvazione o rapidissimi (quando il governo passa « di forza », con la decretazione d’urgenza, cioè espropriando il ruolo parlamentare), oppure tempi lunghissimi (500 giorni e passa). Leggi come quella contro il caporalato o sul cognome della madre (sui cui poi è intervenuta la Corte per tagliare il nodo) restano in parlamento per anni. Con la riforma, si può ottenere il risultato di limitare l’uso e l’abuso dei decreti, assicurando tempi più ristretti e certi., e riducendo le estenuanti trattative (non sempre nobili) che svuotano spesso le leggi rispetto agli obiettivi iniziali. In questo senso, il parlamento ritroverebbe un ruolo che di fatto non ha più da anni, perché o viene esautorato a colpi di decretazione d’urgenza oppure addormenta le leggi in un sonno lunghissimo, talvolta senza fine. In ogni caso, non incide mai. Se non in senso negativo.

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Sesta cosa: la riforma è imperfetta. Ha un sacco di difetti. Per alcuni si vede già il loro superamento: ad esempio, la legge Chiti che permette agli elettori delle elezioni locali di scegliere i futuri senatori rimedia a una preoccupazione che era lecita (quella cioè di affidare alle « burocrazie partitiche » l’esclusiva della scelta sui futuri senatori). Altre cose, credo, richiederanno aggiustamenti successivi, ove mai la riforma dovesse passare. Ma la seconda parte della Costituzione attuale, a un’analisi un po’ più attenta, rivela anch’essa molti difetti. La scelta non è mai fra bene e male, tra demonio e santità. La scelta è tra due sistemi istituzionali entrambi imperfetti, tecnicamente imperfetti e migliorabili. Scelte razionali si basano non su una pretesa di « perfezione », ma su un principio di prevalenza. Quello che mi è parso di capire mi induce a pensare che, nella riforma, i punti positivi prevalgano largamente sui difetti; e che i punti positivi siano sui grandi temi, i temi fondanti, del funzionamento delle istituzioni; mentre i difetti sono su punti di minore importanza, che potranno essere corretti.
Un altro difetto che si imputa alla riforma è quello di essere di parte. In un certo senso questa obiezione è sensata, ma solo parzialmente. Perché la riforma è stata votata in diverse letture parlamentari (6, mi pare), con centinaia di emendamenti, ed è la stessa costituzione vigente a ritenere sufficienti approvazione parlamentare e poi il referendum confermativo. E poi va detto che Forza Italia, principale partito di opposizione disponibile al dialogo (il M5S ovviamente non lo è) si è sfilata in modo legittimo, ma pretestuoso. Perché si è vista stretta tra due aree politiche che lanciavano agli elettori un messaggio facile da capire: sì alla riforma e al governo (maggioranza del PD), oppure no a riforma e no al governo (grillini, destra); mentre la posizione iniziale di Forza Italia (sì alla riforma ma no al governo) era difficile da capire per molti elettori, e i sondaggisti di Berlusconi gli hanno consigliato di « appiattirsi » su posizioni di pura opposizione, più facilmente spendibili sul piano della comunicazione. Legittimo. Difficile però pretendere che si rinunci a una riforma che si ritiene giusta perché Berlusconi cerca di difendere quei pochi voti che gli restano.

bandiera_sorride.gif Settima cosa: il clima che si è creato su questo referendum è orrendo. Per colpa di entrambe le parti, certo. Ma in prevalenza, a mio modo di vedere, molti sostenitori del « no » si sono distinti per volgarità, aggressività e totale mancanza di conoscenza del merito. Il « no » è diventato un contenitore (in questo senso, simile al M5S, che agisce in base a tecniche di marketing politico molto abili e astute): tutti quelli che dicono « no » possono credere di dire « no » a quello che vogliono. La grammatica più semplice è quella del « no » in dispregio al governo. E a Renzi. Che ha certo molti torti ma suscita un’aggressività talmente forte e spesso greve ed eccessiva da far diventare quasi inevitabile solidarizzare con lui. E poi ho letto: voto no perché basta immigrati (giuro che è vero, non invento niente); voto no perché sono antifascista (sic!), voto no perché non è giusto che i parlamentari abbiano l’immunità (giuro che l’ho letto; quando la cosiddetta immunità parlamentare, che poi è, ormai dal 1993, davvero molto limitata, è presente in entrambi i testi, quello attuale e quello proposto; per non dire poi che davvero sarebbe la soppressione dell’immunità parlamentare ad aprire le porte a colpi di mano autoritari, basta vedere cosa sta facendo Erdogan in Turchia , falcidiando l’opposizione grazie a magistrati compiacenti); voto no perché « Renzi non è eletto » (ma che l’Italia sia una repubblica parlamentare e non presidenziale, lo dice la stessa costituzione che si vorrebbe « difendere » o che si proclama « sacra »; e poi il governo Renzi non è forse lui stesso risultato della stasi del sistema che la riforma si propone di superare? Superando il bicameralismo paritario e con una legge elettorale maggioritaria, non vi sarebbe in alcun caso un governo retto da una maggioranza diversa da quella indicata nelle urne).

Certo, anche nella retorica del sì vi sono elementi insopportabili – retorica un po’ aziendalista, o promessa di paradisi in terra che non arriveranno. Anche nel campo del sì vi sono personaggi indegni – è il caso di De Luca. Ma il campo del no, per volgarità, aggressività, dispregio della logica, attitudine all’insulto, mi pare prevalga. Forse riuscirà a prevalere anche nelle urne, non so. In quel caso assisteremo a qualche giorno di grande euforia, ancora una volta ognuno per ragioni diverse; e poi ci riaddormenteremo nella spirale dei governi di unità nazionale, degli eterni pastrocchi. Che danno da mangiare, e bene, a Travaglio, che può scriverci sopra brillanti e sarcastici editoriali; ma tenere in scacco una democrazia per consentire a Travaglio di scrivere i suoi pezzi pieni di insulti, mi pare un sacrificio eccessivo. E insomma, preferirei che vincesse il sì.

Maurizio Puppo

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Maurizio Puppo
Maurizio Puppo, nato a Genova nel 1965, dal 2001 vive a Parigi, dove ha due figlie. Laureato in Lettere, lavora come dirigente d’azienda e dal 2016 è stato presidente del Circolo del Partito Democratico e dell'Associazione Democratici Parigi. Ha pubblicato libri di narrativa ("Un poeta in fabbrica"), storia dello sport ("Bandiere blucerchiate", "Il grande Torino" con altri autori, etc.) e curato libri di poesia per Newton Compton, Fratelli Frilli Editori, Absolutely Free, Liberodiscrivere Edizioni. E' editorialista di questo portale dal 2013 (Le pillole di Puppo).

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