‘I’m ready My Lord’… Ora Leonard Cohen sarà nell’Alto dei Cieli

Un altro gigante se ne va in questo 2016, ma non senza lasciarci l’ennesimo gioiello. Nel suo recente ed ultimo album – You want it darker – Leonard Cohen mormorava “I’m ready, my lord” – “Sono pronto, signore”. Il grande poeta, artista e cantautore canadese, l’uomo alla voce di notte, profonda e sensuale, che cantava l’amore, la religione, il desiderio, il misticismo, è morto a 82 anni. Ci lascia una discografia che, come quella di Bob Dylan, avrebbe meritato di essere coronata con il premio Nobel di letteratura. Goodbye, Leonard, so long…. Ci vediamo lungo la strada.


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C’è un’esplosione di luce / In ogni parola / E non importa se tu abbia sentito
la sacra o la disperata. Allelujah …Allelujah

Per un poeta che canta versi come Allelujah ci sarà (per forza) un posto nell’Alto dei Cieli. Non tanto perché qui cita la Bibbia, la profondità della conoscenza e del divino. Non sembri un abuso, un canto di fine corsa per un poeta che è volato lassù. Il commiato dovuto: no, non lo avrebbe forse nemmeno voluto, lui, schivo e fuori dai forti riflettori.

Leonard Cohen lascia questa terra a ottantadue anni, ma la sua voce calda e i suoi versi resteranno, come i suoi racconti. Un autore completo, il mitico cantore canadese che ha ispirato generazioni di autori anche da noi. Se non fosse stato per Fabrizio De André che ce lo fece conoscere con ben quattro canzoni, forse non lo avremmo compreso ed apprezzato nei decenni scorsi.

Dagli Anni ’60 e fino ad oggi, Cohen, di origine ebraica, ha esplorato l’intimo più profondo, l’amore, il sesso, la politica e il costume. De André lo traduce a suo modo con Suzanne e Nancy, con Giovanna d’Arco e La famosa volpe azzurra (con la splendida interpretazione di Ornella Vanoni). E altri come De Gregori e Locasciulli, dagli anni ‘70 hanno tratto ispirazione da questo immenso poeta della canzone.

Il cinema d’autore lo ha citato, come Robert Altman che introduce I compari del 1971 con la voce suadente di Cohen di The Stranger Song. E anche Bob Dylan e Joan Baez nel loro film Renaldo e Clara (del ’78).

Certo, la Letteratura ufficiale poteva in passato rendere sublime Leonard Cohen con un Nobel che non è arrivato mai. E’ stato aggiudicato al suo amico Bob Dylan un mese fa, e come fosse stato conferito anche a lui. Leonard aveva dichiarato in proposito: “… Bob Dylan ha ricevuto il premio Nobel, ebbene dirò che per me è come aver dato al monte Everest una medaglia per la montagna più alta del mondo”. Ovvero, qualcosa di scontato quanto veritiero. Che umiltà.

Così cantava (nel 1991) in premonizione della democrazia (Democracy) che sarà sempre un dono da conquistare e salvaguardare:

Sta arrivando dalla tristezza delle strade, / i sacri luoghi dove le razze si mischiano; /dal casino omicida /che si perpetra in ogni cucina / per decidere chi dovrà servire e chi dovrà mangiare.

Dai pozzi della delusione /dove le donne si inginocchiano per pregare / per la grazia di Dio nel deserto qui /e nel deserto più lontano: /La Democrazia sta arrivando negli Stati Uniti…

Uomo di cultura e di musica che ci ha donato in quattordici album (l’ultimo appena un mese fa) l’esperienza della libertà come riconoscimento umano, dell’amore verso la bellezza e delle periferie del mondo, lui erede di una tradizione letteraria che fa del continente americano un baluardo di innovazione e profonda conoscenza.

Nel commiato alla sua amata Marianne, la sua musa, scriveva:

“Ti ho sempre amata per la tua bellezza e la tua saggezza, ma non serve che io ti dica di più poiché lo sai già. Adesso, voglio solo augurarti buon viaggio. Addio vecchia amica. Amore infinito. Ci vediamo lungo la strada.”

Parole dolcissime e di grande intensità. Un amore struggente.

Nel suo Libro del Desiderio composto durante il suo lungo soggiorno presso il monastero Zen sul Monte Baldy in California, Leonard Cohen scriverà, in un sussulto di umiltà:

Tra le migliaia / di coloro che sono conosciuti /o aspirano a farsi conoscere /come poeti,
forse uno o due / sono poeti autentici
gli altri sono finti, /gente che bazzica i sacri recinti /cercando di darla a bere.
Non c’è bisogno che vi dica /che io sono uno di quelli finti
e questa è la mia storia.

Armando Lostaglio

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Armando Lostaglio
ARMANDO LOSTAGLIO iscritto all'Ordine dei Giornalisti di Basilicata; fondatore del CineClub Vittorio De Sica - Cinit di Rionero in Vulture nel 1994 con oltre 150 iscritti; promotore di altri cinecircoli Cinit, e di mostre di cinema per scuole, carceri, centri anziani; autore di testi di cinema: Sequenze (La Nuova del Sud, 2006); Schermi Riflessi (EditricErmes, 2011); autore dei docufilm: Albe dentro l'imbrunire (2012); Il genio contro - Guy Debord e il cinema nell'avangardia (2013); La strada meno battura - a cavallo sulla Via Herculia (2014); Il cinema e il Blues (2016); Il cinema e il brigantaggio (2017). Collaboratore di riviste e giornali: La Nuova del Sud, e web Altritaliani (Parigi), Cabiria, Francavillainforma; Tg7 Basilicata.

1 COMMENTAIRE

  1. Come raggi infrarossi. Tributo a Leonard Cohen.
    Succede sempre così; cresciamo in età e idee, foraggiamo il nostro immaginario personale e collettivo con canzoni che il tempo trasforma in autentica colonna sonora della nostra vita, ebraica e non.

    Dal fischiettare le loro Songs sotto la doccia a lottare per ideali in cui crediamo sino a commuoverci perchè le nostre corde nel profondo dell’animo stanno vibrando come quelle di un ancestrale liuto; da Blowin’s in the wind del recente premio Nobel Robert Allen Zimmerman alias Bob Dylan allo struggente Ovinu Malkenu di Max Janowski interpretato da Barbra Streisand sino a Suzanne del poeta, compositore e cantautore ebreo canadese Leonard Norman Cohen che oggi ci ha lasciati.

    Figlio di ebrei polacchi e lituani immigrati a Montreal, Cohen ci ha consegnato non soltanto alcune tra le più belle canzoni del secolo scorso (dalla mitica So Long Marianne a Sisters of Mercy) ma altresì un vasto immaginario fatto di quell’America molto “europea” figlia dell’immigrazione ebraica a cavallo tra Ottocento e Novecento, di quell’inestinguibile odore di Varsavia e Vilnius ebraica mescolato a birra irlandese e challà dei forni di Brooklyn al venerdì mattina, di quella voce baritonale roca, antica, da vecchio leone della savana che nei nostri pensieri musicali più remoti si mescola a quella di Barry White e Paolo Conte.

    Come raggi infrarossi (non luminosi ma calorifici), l’effetto timbrico della sua voce era fuoco rassicurante di un camino, un morbido impasto di poeta che declama se stesso e più esattamente non canta ma, novello trovatore, sussurra le sue Songs perchè altri possano cantarle.
    Alzi la mano chi non ha sorriso divertito quando ha ascoltato la sua popolarissima canzone Hallelujah nel cartoon Shreck quando l’orco torna nella capanna mentre la sua amata Fiona sta andando in sposa al cinico Farquaad.

    Anche per Cohen che negli anni ’70 abbracciò pienamente il buddismo facendosi persino monaco buddista, accadde che la turbolenza creativa facesse talora a pugni con le radici ebraiche (se è per questo, nel 1978 Dylan si convertì al cristianesimo); ma il background ebraico è inalterabile, inattaccabile e in cuor suo Cohen non si è mai realmente allontanato dall’ebraismo (osservava lo Shabbath, cantò nel 1973 per le truppe israeliane impegnate nella Guerra del Kippur).

    Semplicemente, da grande cantante e poeta, reinterpretò in chiave mistico–buddista il suo essere ebreo.

    Ci mancherà quel sorriso smaliziato, quel suo Borsalino sottomisura che indossava in quasi tutti i suoi concerti e che all’italiano ricordava il giovane Francesco De Gregori mentre cantava Titanic.

    Come Barbra Streisand, Paul Simon e Bob Dylan, Leonard Cohen ha disegnato la mappa ebraica della canzone impegnata del Novecento; a prescindere da gusti e idee personali, avvertiremo ben presto nel firmamento della poetica musicale contemporanea il vuoto che ci lascia uno come lui.

    Francesco Lotoro

    Un pianista pugliese, memoria viva della musica concentrazionaria – Intervista

    http://www.altritaliani.net/spip.php?article1380

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