Terremoto di Amatrice : Il giorno dopo il primo.

Nel 1600 il poeta John Donne scriveva una poesia che si intitolava: Nessun uomo è un’isola. La poesia la conoscerete sicuramente tutti e dice che nessun uomo può considerarsi un pezzo di terra chiusa in se stessa, e che ogni volta che un uomo muore e suona una campana, quella campana suona anche per te, che sei vivo e puoi ancora ascoltarla.

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Ogni uomo nasce almeno due volte, se non di più. Io, per il momento, posso contare sicuramente due nascite, una in Abruzzo e l’altra nel Lazio. Queste notti, sul confine tra queste regioni, si sono spente almeno 267 luci. E ogni luce che si è spenta io l’ho sentita suonare dentro come una lancia che si spezzava tra il cuore, le orecchio e lo stomaco, e ogni vita, ogni speranza smarrita, era come se mi sentissi morire ogni volta.

Quando succedono tragedie come quella di Amatrice, colpita dal terremoto che durante la notte ha colto di sorpresa tanta gente, vorresti prendere, partire, andare, e non solo aiutare, ma con le tue mani ricostruire da quelle macerie ogni cosa, vorresti dar loro i tuoi vestiti, aprirgli la tua casa, la tua cucina. Vorresti sfidare il reale, riportare indietro il tempo, vincere sulla prevedibilità. Ma poco di tutto questo è possibile, soprattutto da parte nostra, noi che siamo gente comune, gente come loro, loro che non ci sono più.
E così noi, noi che siamo gente comune, noi che adesso di fronte al dramma ci sentiamo impotenti, noi cosa possiamo fare?

Oltre che mostrarci disponibili nell’intervento materiale – che si tratti di sangue, vestiti e quant’altro – cercando di non esagerare, finendo per risultare un intralcio e basta, per il resto possiamo fare una cosa sola e cercare di farla bene. Possiamo vivere ancora, una, due, cento, 267 volte al giorno. Noi adesso, anzi, abbiamo una grande responsabilità, quella di riaccendere dentro di noi quella luce, ognuna di quelle 247 luci che si sono spente queste notti tra le vie di Amatrice.

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Ognuna di quelle persone, a suo modo, di fronte al pericolo ha lottato, risultando sconfitta da una lotta impari, quella dell’uomo di fronte alla natura. Ma in quella lotta, in quella lotta estrema, ogni uomo è diventato ancora più umano e allora noi, che non eravamo coinvolti, che siamo stati semplicemente più fortunati, abbiamo il dovere di non spegnere quella luce che nella sua ultima lotta è diventata più forte, di prendere quella forza e farla nostra per vivere la vita, per viverla senza spegnere mai quell’inesauribile alternarsi di gioia e dolore che caratterizza il lungo viaggio nel mondo di ogni uomo che si dica umano.

Domani sarà un altro giorno. E poi passerà un mese e poi ancora un anno. Resterà, alla fine, niente più che l’amara memoria, quella della gente che non dimentica facilmente lo strappo che non si ricuce, tra il giorno prima, quando tutto c’era, e il giorno dopo, quando tutto è stato sommerso dalla polvere. E allora, mentre difendiamo la memoria che si ravviva dentro quelle 267 luci, c’è un’altra cosa che possiamo fare. Spazzare via la polvere dalle strade fino a che non sarà tutto pulito e con gli occhi non dimenticare mai che, tra le altre cose, l’indagine sulle responsabilità di un paese retrogrado come l’Italia, è una responsabilità civile e un dovere umano al quale non possiamo sottrarci.

Così come oggi non possiamo sottrarci alla memoria dell’Aquila e alla questione civile che ne è nata di conseguenza, in cui la cattiva gestione degli affari pubblici, delle emergenze, dell’amministrazione urbanistica di zone che sono, notoriamente, a rischio sismico, trasformano un incidente in tragedia. Questioni note, non dico niente di nuovo, se provo a far riferimento a tutto quel che si è generato a proposito della gestione dell’emergenza Aquila. E sono cose vergognose.

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E allora noi, noi gente comune, a noi cosa rimane?

A noi rimangono quelle 267 campane. Da due notti suonano ostinatamente per ricordarci chi siamo, donne e uomini che vogliono diventare ogni giorno umani. Sono quelle campane che da due notti ci tengono svegli, più delle scosse, delle urla, della tv, più di tutto il resto.
Domani torneremo a dormire, dopo domani e il giorno dopo ancora, forse, riprenderemo a sognare. Ma intanto la speranza è solo una, quella di realizzare un risveglio dentro la gioia che non si è spenta, che è rimasta viva, dentro al dolore, alimentandosi della sua forza.

Una bambina di dieci anni ha resistito 15 ore sotto le macerie. Domani voglio tornare ad Amatrice e prenderla per mano e dirle che nella vita le capiterà ancora chissà quante volte, di dover resistere, aggrappandosi al suono di una campana che può suonare la gioia così come il dolore.

Domani voglio tornare ad Amatrice, prendere quella bambina, prenderla per mano e insieme suonare tra le orecchie ancora aperte la mia campana che batte dentro il suo cuore.

Domani è ancora oggi. E io quelle campane, quelle di ieri, quelle di un tempo, non le ho mai dimenticate.

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Ilaria Paluzzi
Ilaria Paluzzi è nata in un piccolo paese vicino al mare, in Abruzzo. Verso i 18 anni si trasferisce a Roma dove consegue la laurea in studi umanistici. Attualmente vive tra l'Abruzzo e il Lazio, tra ilmare e la città. Per diverso tempo ha collaborato con varie testate giornalistiche. Attualmente ha deciso di dedicarsi unicamente alla narrativa. Recentemente è uscito il suo primo romanzo, 'Riva', edizioni Bookabook. Collabora come autrice per la collana Dafni&Cloe, mentre lavora ai prossimi progetti. Nel 2016 ha ideato e curato 'Gente di mare', progetto editoriale itinerante. Oggi il mare continua a scorrere in tutte le sue storie, in un modo o nell'altro, come l'estate che mantiene vivo col suo profumo il più lungo inverno.

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