Elezioni: La testa alle comunali e il cuore al referendum di Ottobre.

In molte grandi città si vota per scegliere programmi e sindaci, anche se, come sempre per gran parte dei media, si vota sul governo. E’ un errore. I cittadini comunque votino devono pensare al futuro della loro comunità. Mai voto è apparso più incerto. I sondaggi ci dicono che, accanto ad un numero sempre alto di astensioni, siano ancora in tanti a non aver deciso. Proviamo un’analisi del voto e del contesto in cui cade anche sulla base degli ultimi sondaggi.

Il 5 giugno in molte città si vota per le amministrative. Un test importante, soprattutto per capire gli orientamenti degli italiani che sono alle prese con una politica sempre più complessa da interpretare e che sembra trasversalmente in lotta tra nuovo e vecchio, ricca di contraddizioni, con il peso dei media che travisano il naturale valore di un voto per le città, caricandolo di contenuti che vanno ben oltre e che metterebbero in discussione la credibilità del governo e dello stesso Renzi.

Il rischio è che ancora una volta, non si voti pensando a quale programma sia il più valido e fattibile per le città, quale il sindaco più capace, ma pensando al capo del governo. Ed è cosi che il voto di giugno, privato del suo reale significato, sembra già guardare ad ottobre a quel referendum confermativo della riforma costituzionale che sembra il vero bivio sul futuro del Belpaese.

La realtà è che questo voto arriva in una delicata fase di transizione, mentre il paese avverte i primi segnali di miglioramento economico, dopo una lunga recessione, ed egualmente si riscontrano i primi effetti di un processo di riforme che è stato quanto mai laborioso, in un quadro politico dove il vero scontro che attraversa tutte le forze politiche, da destra a sinistra, è tra il vecchio e il nuovo, tra chi cerca di mantenere privilegi e vantaggi consolidati nel corso della seconda repubblica e chi invece vorrebbe cambiare e normalizzare il paese dopo anni di anomalie e distorsioni a cominciare dalla lunga era berlusconiana e chi di fatto non vorrebbe cambiare nulla.

Parliamo di un vecchio che si ritrova nella destra ancora timorosa di girare pagina e di cercare contenuti e uomini nuovi, come a sinistra dove sono fortissime le resistenze anche della “vetusta” minoranza PD verso la svolta renziana.

In attesa della madre di tutte le battaglie, il referendum costituzionale, con il Paese al bivio tra scegliere o meno il cambiamento, a breve, ci sono delle sottovalutatissime (e a torto) elezioni comunali. Si vota a Roma, Milano, Torino, Napoli, Cagliari, Bologna e in tante altre città piccole e grandi disseminate lungo tutto lo stivale. Come detto, e come spesso avviene da noi, anche questo voto rischia, di diventare impropriamente un test politico che va ben al di là dei suoi diversi contenuti.

Eppure sarebbe buona norma di educazione politica, anche per rispetto agli elettori, che sono sovrani, che i partiti e i media smettessero di manipolare la coscienza delle persone limitandosi ai quesiti che il voto pone. Non è più possibile che si faccia un referendum sulle trivelle ed immediatamente il risultato debba essere semplificato in una vittoria o in una sconfitta del governo o del partito X piuttosto che Y. Si fanno le amministrative e si scelgono sindaci e i programmi per la città, il che non equivale ad un plebiscito sul valore del governo nazionale.

A Milano Parisi (Centrodestra) vs. Sala (Centrosinistra)

L’informazione, specie quella televisiva, sembra vivere in un altro paese, tanto è vero che alla fine dai sondaggi emerge che i cittadini non danno ascolto all’esaltazione dei media e valutano secondo il corretto metodo del merito delle amministrative, tanto è vero che sembrano in testa sindaci come a Bologna, Napoli e Torino a prescindere dal loro colore politico ma che evidentemente sono valutati per il loro portato cittadino.

Premesso cio’ resta il quesito. Come andrà? Cosa dicono i sondaggi (ci prenderanno questa volta)? In generale si prospetta un voto su cui peserà l’astensionismo, un fenomeno che sembra, tranne alcune lodevoli eccezioni, consolidarsi nel tempo, un trend sfavorevole che è figlio di un’ormai diffusa sfiducia nella politica in quanto tale.

Certo l’attuale dirigenza PD paga il prezzo di una scommessa politica al governo che è risultata durissima. Diciamoci la verità, Renzi avrebbe potuto rinunciare a sostituire l’inefficace Letta e chiedere più semplicemente di andare al voto, come consigliava Giachetti, e forte del 40% raccolto dopo le europee e con un popolo pieno di aspettative verso di lui, avrebbe potuto rischiare il voto, pur con le insidie del “Porcellum”, per contare, per le riforme, su un Parlamento “amico”. Viceversa, ha avviato un processo di rinnovamento del paese coraggioso anche se, come prevedibile, contro tutto l’establishment. Cosi il “Jobs act” con i sindacati che remavano contro, la riforma della scuola, con l’insurrezione dei docenti, la riforma della Costituzione con il ridimensionamento di quantità e di qualità del senato, che ovviamente non raccoglieva a priori il consenso dei senatori. Il tutto addolcito dall’inversione di tendenza economica con gli ottanta euro per la classe media.

L’Italia è il paese del Gattopardo e naturalmente tutti chiedono il cambiamento per poi non cambiare nulla, si è assistiti finanche alla corporazione dei giudici pronti agli scioperi solo perché si voleva ridurre il loro corposo periodo di ferie.

Renzi, forse ingenuamente, ambiziosamente, ma sicuramente con coraggio si è prefissato l’obbiettivo del reale e non gattopardesco rinnovamento. Lo disse con forza quasi con rabbia: “Noi questo paese lo cambieremo!”

E che le cose stiano cambiando lo certificano non i talk show televisivi di sistema, che sono unanimemente contro questo governo, ma l’Europa. L’Italia ha recuperato la sua credibilità proprio con le riforme, oltre che con un’ispirata politica estera e di aiuto (soli nel continente con i greci) verso i profughi. Un recupero che si chiama inversione di tendenza nell’occupazione con 350mila nuovi occupati dall’inizio dell’anno, con una sostanziale riduzione del precariato e con un incremento equivalente di assunti a tempo indeterminato. Cifre che se non sono da urlo sono tuttavia significative. Cosi come recenti sondaggi dicono che il mondo della scuola dopo durissime proteste sembra oggi recepire con maggiore soddisfazione i cambiamenti promossi dalla riforma che hanno consentito anche il più grande concorso a cattedra della storia repubblicana con ben 65.000 posti a disposizione.

A Torino Appendino (M5S) vs. Fassino (PD)

Gli indicatori economici sono, chi più chi meno, tutti in miglioramento. Solo in questo modo si puo’ spiegare come l’arcigna ed intransigente (almeno con noi) Commissione Europea ci abbia concesso una maggiore flessibilità nei conti fino a farci trovare un tesoretto di 14 miliardi di euro.

A questo andrebbe aggiunto il piano per le Regioni, che sta consentendo iniezioni di capitali per il rilancio culturale, economico ed infrastrutturale specie nel sud, con azioni concordate con i presidenti delle regioni. Qualcosa di molto lontano dagli sprechi clientelari che furono della Cassa per il mezzogiorno, con un’indubbia maggiore precisione sui progetti da realizzare e le aree da rivalorizzare, il tutto finalmente spendendo i “benedetti” fondi europei. Ahi come sono dannosi gli antieuropeisti!

Ogni cosa è stato fatto con un parlamento, che gioco forza, remava contro, riottoso, finanche nelle componenti del PD che furono (e sono) di Bersani, avversario interno a Renzi e con un contesto non favorevole, con i sindacati che spesso hanno puntato più allo scontro con il premier che ad entrare nel merito delle questioni e che mal hanno digerito il tentativo governativo di saltare la concertazione per arrivare con meno compromessi possibili agli obbiettivi. Da qui il paradosso di sindacati che non hanno battuto ciglio rispetto al governo Monti e le sue pesantissime manovre economiche, con costi sociali a volte drammatici, mentre verso Renzi non si sono risparmiati scioperi continui e critiche finanche rispetto ai provvedimenti di sostegno come i famosi ottanta euro, o quelli nel lavoro a difesa della maternità, solo per citare un paio di esempi.

A me sembra, che si siano fin qui confrontati, paradossalmente, un governo nuovo con idee moderne (vedasi le unioni civili) ed un parlamento ed un sistema Italia ancora vecchio negli uomini e nelle idee, figli di quella stagione che fu della seconda repubblica (a pensarci bene finanche i parlamentari del PD furono nominati dalla vecchia e perdente gestione di Bersani), un sistema aduso ad eterni compromessi ed inciuci che hanno impedito all’Italia di essere un paese “normale”.

Ma anche il proscenio complessivo di questo sistema sembra voler resistere al cambiamento, del resto i corpi dirigenti dei sindacati come delle associazioni industriali per non parlare del sistema televisivo (pubblico) e d’informazione, continua a vivere come nel sogno (o forse l’incubo) della seconda repubblica. C’è un sistema di lobby e di corporazioni che non vuole cedere alla modernità e che rifiuta finanche l’ipotesi di emergere dal suo sottobosco, magari con una serie di regole e leggi che ne disciplinino, come avviene altrove, il funzionamento.

Esemplare in tal senso è quanto avviene nella magistratura dove una parte di essa, capitanata dal giudice Davigo, eroe di « Mani pulite » ed oggi a capo dell’ANM, continua a suonare la stessa musica dei tempi del cavaliere Berlusconi senza accorgersi che la partitura è cambiata.

Sia chiaro la gestione Renzi del partito e del governo non è immune da pecche. Ad esempio, il rinnovamento, la famosa promessa di rottamazione è stata mantenuta a metà, se è vero come è vero che nelle città, nelle regioni e nelle periferie del potere sono rimasti tutti gli uomini, spesso compromessi, che furono di Bersani e di prima ancora.

Se si va a girare tra le sedi provinciali di quel partito, si noterà che i dirigenti sono sempre gli stessi (uomini per tutte le stagioni) e, in tal senso, la perdita della regione Liguria la dice lunga. Serpeggia in molti la delusione per il mancato rinnovamento politico promesso, e poco importa che il premier si sia dovuto concentrare dall’alto sulle essenziali riforme per uscire dalla recessione e rilanciare il paese.

Ecco perché il voto amministrativo diventa la cartina di tornasole di questa complessa fotografia, con tutti i rischi, altissimi, per il partito di governo. In gran parte della periferia della politica, si scrive PD di Renzi ma si legge PD di Bersani (e questo è il motivo per cui il grosso della minoranza del partito dissidente verso il segretario, non va via, perché è consapevole di controllare ancora il territorio e spera un domani di prendersi la rivincita).
Se Roma era ed è virtualmente persa, dopo l’infausta e distratta amministrazione di Marino, quella di Milano potrebbe restare nell’alveo del centrosinistra, ma il caso vuole che in quella città la destra si sia compattata su un nome, Parisi, moderato e spendibile, che stando ai sondaggi ha recuperato tutto il gap che aveva sull’ex presidente dell’expo, Sala.

A Roma Giachetti (PD) vs. Raggi (M5S)

A Torino si presenta il sempiterno Fassino, che pare in vantaggio nei sondaggi sul candidato Cinquestelle Appendino, e fortuna per il PD, vuole che li la destra sia divisa, mentre l’estrema sinistra punta sull’ex Fiom Airaudo che forse avrà un consenso interessante ma ben lontano dal poter ambire al palazzo del Comune. Viceversa, tutta particolare è la situazione di Napoli dove, oltre all’assenza di rinnovamento, il PD è alle prese con una lunga faida interna tra le vecchie correnti e dopo l’ennesimo pasticcio delle primarie, ha finito per scegliere la Valente in luogo di Bassolino già sindaco negli anni d’oro della città del sole. Valente che oggi si dichiara renziana (ci mancherebbe), ma che non sembra avere le spalle per poter neanche arrivare al ballottaggio, ragion per cui il duello sembra tra De Magistris, attuale discusso sindaco e Lettieri per il centrodestra. Addirittura sembra che la Valente sia superata finanche dal candidato a 5 Stelle, Brambilla (un milanese a Napoli).

Tralasciando le altre città, su cui pesano questioni locali, oltre che l’eterno, fuorviante e mediatico referendum su Renzi, è evidente che sono queste quattro le città su cui pesa il voto politico e i suoi esiti. C’è una prima riflessione da fare: In nessuna di queste quattro, sembra che si possa avere un sindaco al primo turno, ma le cose starebbero cosi anche per numerose altre città, il che vuol dire che c’è un’estrema frammentazione dei consensi dovuta alla grande quantità di offerta di liste e proposte ma anche generata da un grave disorientamento degli elettori, dovuto anche allo sconfortante pressing dei media che in Italia arriva a livelli parossistici con una spettacolarizzazione ed un’alterazione drammatica del racconto della realtà che spaventa e sconcerta.

Ed ecco quindi che si arriva ad un racconto delle amministrative in cui si parla di tutto (o forse sarebbe meglio dire di Renzi) senza riflettere sui contenuti specifici delle città e dei loro problemi e delle possibili soluzioni. Una forma di paranoia politica per cui, nella migliore delle ipotesi, ci si domanda sui candidati sindaci a prescindere dalle loro idee e programmi per le citta. Forse è il caso di ricordare agli elettori che alla fine di, tutto il responsabile di Roma (ad esempio) sarà Giachetti, Raggi, la Meloni o altri, ma non Renzi.

Un disorientamento pericolosissimo e non contrastato nemmeno dal servizio pubblico televisivo e provato anche dal fatto che in questi giorni, i giornali intervistano intellettuali, personaggi dell’arte e dello spettacolo, importanti imprenditori e uomini e donne di successo, per chiedere chi voteranno e queste persone, nella quasi totalità, non lo sanno. Figurarsi il grado d’informazione e di consapevolezza dei cittadini.
Cosi a Roma la questione sembra se Giachetti (candidato PD) sia renziano o meno, Fassina (candidato dell’estrema sinistra) dall’alto del suo 3% nei sondaggi, si presenta dicendo che al referendum costituzionale bisogna votare no (???), la Raggi (Cinque Stelle) deve spiegare i suoi trascorsi con lo studio di Previti (il corruttore che operava per il Berlusca) ed assicura che se Grillo le chiede di dimettersi lo farà (ci si domanda quale sia la considerazione che ha questa candidata dei suoi potenziali elettori), la Meloni (per Lega e FDI) che deve contrapporsi a Marchini (Lista Marchini, Forza Italia ed altri) che cede alla lusinga del sostegno forzista perdendo la sua illibatezza dai partiti politici.

Il risultato è che nella complicatissima vicenda romana, tra mafia capitale e buche per le strade, non si sa quali siano i programmi, quali le proposte. C’è da sperare che sul luogo i candidati dicano agli elettori qualcosa di più e di diverso per meritarsi queste candidature. Quello che avviene è estremamente insidioso. Apparirebbe dai sondaggi che li, la quasi certa vincitrice sia, la poco esperta Raggi. E’ una cosa che dovrebbe far riflettere, forse mai come oggi, dopo le tante disavventure e con lo stato di degrado riscontrabile in ogni dove, la capitale bisognerebbe di uomini non solo onesti ed appassionati, ma esperti. I cittadini starebbero per consegnare Roma ad un gruppo politico che non ha dato fin qui grandi prove di responsabilità e di efficacia (oltre che di democrazia) basti pensare a quanto avviene in comuni ben più gestibili come Livorno, e al fatto che su appena 17 amministrazioni rette dai 5 Stelle ben 14 abbiano problemi con la giustizia.

A Napoli De Magistris (Arancione) vs. Lettieri (Destra)

Quello che emerge è anche il pressappochismo dell’attuale scenario politico, con una destra ancora schiava della stravecchia immagine di Berlusconi, con una Lega che non sfonda a sud e che non cresce (stando ai sondaggi) oltre l’attuale, sia pur lusinghiera, soglia di consensi. Egualmente i Cinque Stelle appaiono sul piano democratico non affidabili, generano inquietudini specie per le vicende giudiziarie ormai quotidiane che li riguardano e che fanno del male ad un partito che fa del giustizialismo la sua ragione sociale.

Il centro appare schiacciato sul PD, un PD che non sembra credere al successo nelle amministrative e che con la testa e con il cuore è già ad ottobre al referendum costituzionale.

Va anche detto, che è corretto che il capo del PD, nella sua posizione anche di capo del governo, lasci fare, le amministrative al suo apparato locale, ma siamo certi che quell’apparato sia di Renzi e non ancora delle passate e controverse gestioni?

L’altra sensazione è che le vicende giudiziarie possano condizionare il voto, questo lo si vede dagli ultimi sondaggi (sempre da prendere con estrema cautela). Il PD è in difficoltà anche se negli ultimi rilievi sembra in crescita; i Cinquestelle non crescono anzi addirittura arretrano (sia pur di poco), gli altri decisamente non fanno progressi, per cui la soluzione di questi rebus amministrativi appare ancora un’incognita, con la sola certezza che a due settimane dal voto dominano gli astensionisti e quelli che ancora non sa cosa scegliere, un ulteriore segno che il Paese ha bisogno di una svolta radicale e di procedere con rinnovata energia sulla via del rinnovamento non solo della politica ma del sistema Italia, una svolta da vera rivoluzione culturale, ed è in questo solco che va compreso l’importantissimo referendum di ottobre.

Il fatto è che l’unico vero partito, organizzato e capace di proporre un progetto è il PD mentre gli altri restano privi di idee, chiusi nelle loro rancorose faide interne, incapaci di proporre una classe dirigente autonoma e credibile, rinchiusi in un’opposizione al governo e alla figura del suo leader che è cieca e ottusa, un’opposizione per l’opposizione a prescindere.

Risulta cosi emblematica la grottesca vicenda del prolungamento del voto al 6 giugno. Prima l’opposizione si è lamentata che si votasse solo il 5, quando poi il governo si accingeva ad aggiungere il 6 per dare un tempo maggiore agli elettori, la stessa opposizione ha iniziato a criticare la spesa inutile per il prosieguo del voto al lunedi. Al conseguente dietrofront del governo sono riprese le critiche perché si voterà solo di domenica.
Come si è detto…paranoia politica.

Nicola Guarino

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Nicola Guarino
Nicola Guarino, nato ad Avellino nel 1958, ma sin dall’infanzia ha vissuto a Napoli. Giornalista, già collaboratore de L'Unità e della rivista Nord/Sud, avvocato, direttore di festival cinematografici ed esperto di linguaggio cinematografico. Oggi insegna alla Sorbona presso la facoltà di lingua e letteratura, fa parte del dipartimento di filologia romanza presso l'Università di Parigi 12 a Créteil. Attualmente vive a Parigi. E’ socio fondatore di Altritaliani.

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