Tecnocrati e migranti: Il lungo inverno europeo.

In occasione dell’uscita del nuovo libro del politologo Emidio Diodato, intervista all’autore su alcuni temi toccati che riguardano l’Italia, l’Europa, il suo recente passato e le ricadute di questo sulla stringente attualità dei profughi e le risposte di un continente che non trova la quadra e che sembra sempre più procedere in ordine sparso e senza regole.

diodato.jpg Il nuovo libro di Emidio Diodato, politologo dell’Università per Stranieri di Perugia: Tecnocrati e migranti (Carocci editore 117 pagine €.14,00) è di stringente attualità, illustrando la crisi dell’Europa dove, come recita il titolo, si confrontano due protagonisti del nostro tempo, i tecnocrati e gli emigranti. Un tema che invade quotidianamente le nostre esistenze e che sta mettendo a durissima prova le fondamenta stesse dell’Europa che, appena un decennio fa, raccoglieva unanimi consensi non solo in Italia ma in tutto il continente.

Oggi il trattato di Schengen con la conseguente l’apertura delle frontiere interne sembra essere stato di fatto abbandonato e, mentre il governo italiano sembra preso e compreso nel suo sforzo umanitario di accoglienza, dappertutto si alzano muri e reticolati, si minaccia il ripristino dei controlli alla frontiera e la Commissione fatica ad avere una voce univoca operando spesso con due pesi e due misure a seconda se l’interlocutore è la Grecia o l’Italia piuttosto che l’Austria o la Francia. Cosi mentre il mar Mediterraneo diventa sempre più con l’avanzare della bella stagione un cimitero, l’Europa sembra prossima al suo malinconico capolinea.

Ecco, perché diventa importante conoscere questo libro che entra nel cuore del problema ed è per questo che abbiamo intervistato l’autore il professore Emidio Diodato, già nostro collaboratore con la sua rubrica Italy.

NG. Caro Emidio, il tuo libro si chiama Tecnocrati e migranti. Due figure che per opposti motivi non raccolgono oggi la simpatia di molti. Perché questo titolo e qual è il rapporto tra queste due figure sociologiche?

ED. Raymond Aron collocava in posizione centrale nello politica estera le figure-simbolo del “soldato”, che rappresenta lo stato nel momento del conflitto, e del “diplomatico”, che lo rappresenta in quello della trattativa. Queste figure dell’Europa tardo-ottocentesca non appaiono più decisive nelle dinamiche intergovernative del vecchio continente. Emerge oggi, nella sua autonomia anche in politica estera, la figura-simbolo del “tecnocrate”, vale a dire colui che rappresenta lo stato nel momento della crescente complessità delle funzioni di governo dell’Unione. Non sono i decisori politici, impiegando soldati e diplomatici, a tornare in campo per riprendersi la sovranità perduta nell’Europa di Maastricht e Schengen. Ma sono i tecnocrati nazionali a tentare di rimettere in moto il progetto europeo entrato in crisi. Ciò avviene allorché la conoscenza si associa a una competenza tecnica alla quale, pur partendo da un sapere specialistico, è accordato uno statuto generale in grado di realizzare l’indispensabile unità di orientamento per il maggior benessere collettivo. Il tecnocrate è insomma dotato di un intrinseco potere egemonico, poiché mentre il tecnico si qualifica come uno specialista o esperto del particolare, il tecnocrate si propone come un generalista capace di pensare un piano sintetico per l’azione sociale. D’altro canto, la crisi economica e la crisi migratoria si accompagnano a una generale crisi di legittimità dell’Unione europea. Per quanto concerne in particolare la seconda crisi, ossia quella migratoria, non è certo possibile elevare anche il “migrante” a figura-simbolo della politica estera. Tuttavia, il migrante assegna ai tecnocrati il compito di mantenere una solidarietà europea de facto, senza che gli elettori nazionali cedano al sospetto che l’Unione imponga ai suoi membri di accogliere i richiedenti asilo nell’interesse di uno a scapito dell’altro. Il prodotto finale di questo rapporto tra tecnocrati e migranti risiede quindi nella sfida del migrante al ruolo del tecnocrate.

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NG. Il sottotitolo, molto impegnativo, è l’Italia e la politica estera dopo Maastricht. Un tema quello della politica estera italiano che già affrontasti nel tuo precedente libro: “Il vincolo esterno”. Il nostro paese appare, pur essendo tra gli stati fondatori dell’Unione europea, sempre come in una condizione d’inferiorità. In ogni occasione ci è rinfacciato il nostro debito pubblico, la cui storia è vecchia ed annosa. Tu ricordi come in piena crisi economica nel 1977, la sinistra si scatenò contro l’allora presidente della Confindustria Carli, che in un’intervista a Scalfari aveva criticato la rigidezza dello statuto dei lavoratori, che a suo parere alimentava la crisi economica. Sono gli anni in cui esplode il debito pubblico. Quaranta anni dopo la sinistra con lo Jobs act arriva alle tesi di Carli. Quanto hanno pesato i ritardi nella politica economica italiana e nella credibilità del paese rispetto all’Europa?

ED. Maastricht e Schengen rappresentano le decisioni più importanti che l’Italia ha preso dopo l’improvvisa e inaspettata fine della Guerra fredda. L’attuazione di Maastricht, in particolare, si accompagna alla crisi del sistema dei partiti e ha favorito quella transizione politica che ci si è affrettati a denominare “Seconda Repubblica”. È questa condizione, ossia il forte legame tra livello europeo e livello domestico, a rendere il caso italiano particolarmente rilevante. Per quanto concerne la sinistra italiana, è evidente che l’impronta europeista del centro-sinistra ha delineato un percorso geopolitico che, se ha consentito ai post-comunisti si rilegittimarsi, ha orientato la sinistra italiana in una direzione che devia radicalmente dalla strada dell’internazionalismo comunista. Si pensi che ancora nel dicembre 1978, il rifiuto del Partito comunista italiano di aderire allo Sistema monetario europeo rappresentò il casus belli sul quale si chiuse l’esperienza della solidarietà nazionale, ossia il compromesso con i democristiani. In quella occasione lo stesso Napolitano intervenne in Parlamento con toni molto duri contro il Sistema monetario europeo.

NG. Anche in questo tuo ultimo libro torni sul tema del vincolo esterno, molte riforme in Italia si sono avviate asserendo che era l’Europa che le chiedeva. Ricordi questo tema anche a proposito della legge “Turco-Napolitano” sull’immigrazione, anche in quel caso la “imposizione” europea era uno strumento per condizionare il consenso. Oggi l’Europa è in crisi di consensi e di credibilità, ritieni sia ancora possibile che questo vincolo possa essere efficacie nel condizionare la politica e in particolare quella estera italiana?

ED. L’immagine dell’Europa di Schengen come di una fortezza che respinge il proletariato immigrato non è un’invenzione delle sinistra radicale contemporanea. Nel corso del dibattito sulla legge Martelli, fu sempre Napolitano uno dei principali oppositori della filosofia degli accordi di Schengen. La legge denominata Turco-Napolitano, approvata nel marzo 1998, consentì invece l’ingresso dell’Italia nel sistema di Schengen. Come ha mostrato Simone Paoli, si può affermare che tra il 1996 e il 1997 il processo di europeizzazione della politica immigratoria italiana avvenne secondo le classiche logiche del vincolo esterno. Una parte della classe politica nazionale, ossia il centro-sinistra, utilizzò l’argomento dell’imposizione europea come mezzo per creare consenso e senso di urgenza.

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NG. Come si puo’ spiegare che l’Italia tra i sei paesi fondatori dell’Unione che ha partecipato alla stesura del trattato di Maastricht fu escluso dalla stesura del trattato di Schengen, quello che oggi è nella bufera delle contraddizioni europee e che ricordiamo liberalizza la circolazione delle persone e delle merci nel territorio dell’Unione europea. L’Italia vi aderì nel 1990 seguito un anno dopo dalla Spagna e Portogallo e poi nel ’92 dalla Grecia.

ED. Il ritardo con cui l’Italia fece il suo ingresso nell’Europa di Schengen è imputabile, infatti, all’ambizione del governo Craxi negli anni Ottanta di favorire una proiezione internazionale del capitalismo italiano nelle sue aree di riferimento tradizionali, Mediterraneo e Medio Oriente. Con l’ingresso nell’Europa di Schengen, qualsiasi scelta mediterranea e mediorientale del paese avrebbe dovuto confrontarsi con la decisione di rispettare il sistema europeo di regolamentazione dei flussi, nella condizione di paese di confine dell’Unione. Ciò spiega perché il governo italiano, che fu il primo a firmare un accordo di adesione a Schengen, seguito da Spagna, Portogallo e Grecia, fu poi l’ultimo a fare il suo ingresso nel sistema europeo.

NG. Opportunamente tu ricordi nel libro che con Schengen si erano liberalizzate le frontiere tra gli stati dell’unione ma non fu prevista una salvaguardia di quelle che tu chiami “frontiere esterne”, eppure la questione profughi non era una novità di questi ultimi anni, la Germania, come ben ricordi era preoccupata per il passaggio di profughi dai Balcani o dall’Albania, dopo la caduta del muro e dopo le sanguinose guerre nella ex Jugoslavia, come fu possibile una tale omissione a danno della sicurezza della comunità? Fu un caso che i paesi più impegnati oggi sul tema emigrazione come Italia, Spagna, Grecia, fossero invitate solo ad aderire e a non costruire il trattato di Schengen?

ED. Come scrivo nel libro, il “regolamento di Dublino” di cui l’Unione si è dotata si basa sul principio che un solo stato membro è competente per l’esame della domanda di asilo. L’obiettivo, infatti, è quello di prevenire l’abuso del sistema con la presentazione di domande di asilo multiple da parte di una sola persona. Ma l’obiettivo è anche evitare che i richiedenti asilo siano inviati da un paese ad un altro. È lo stato membro competente per la domanda di asilo che deve prendersi carico del richiedente, ossia accoglierlo se ha diritto all’asilo come prevede il diritto internazionale, oppure rimandarlo indietro. In una situazione di normalità o di flussi migratori limitati, il regolamento ha una sua razionalità nel distribuire le competenze assegnandole agli stati in cui è presentata la domanda di asilo. Ma quando il flusso migratorio assume le sembianze di un esodo inarrestabile, almeno nell’immaginario delle opinioni pubbliche nazionali, allora il sistema si dimostra inefficace se non innesca un meccanismo tecnico che preveda un travaso di competenze dal livello nazionale a quello europeo.

NG. L’Italia nell’ultimo ventennio ha cercato di giocare un suo ruolo nella politica estera anche a prescindere dall’Europa. Tu ricordi l’impegno per la soluzione dei profughi albanesi, e poi le operazioni militari in Albania o in Somalia, e la contraddittoria posizione rispetto al conflitto nel Kossovo. Un intervento a volte di grande utilità, ma sempre con un occhio alla politica interna, che provincializza, se si puo’ dire, la nostra politica estera. Ma mi sembra preoccupante l’assenza di una politica europea uniforme sul tema. Come ti spieghi che i tecnocrati possano imporre in scioltezza il patto di stabilità in economia ai paesi e viceversa restare del tutto inascoltati quando si tratta di politica estera e di politica migratoria in particolare?

ED. A questo proposito ricordo soltanto che durante l’intervento del 2011 in Libia, attraverso l’ambasciata di Parigi il governo italiano lamentò la mancanza di “collegialità e collaborazione” tra Italia e Francia. Ancora in questi giorni il sostegno francese all’Egitto e l’impegno italiano a sostegno del governo di Tripoli corrono su binari paralleli. Non credo ci si possa attendere maggiore convergenza in questa fase storica.

Emidio Diodato

NG. Caro Emidio, ti senti di fare una previsione su come potrebbe finire l’esperienza europea, tra contrasti e contraddizioni perenni su temi ineludibili come quello dell’emigrazione. Tra varchi che si aprono e muri che si alzano? Tra frontiere esterne che accolgono e frontiere interne che si riformano in spregio a Schengen. L’Inghilterra sembra sulla via dell’uscita e intanto sta per chiudersi il Brennero tra l’Austria e l’Italia, qualcosa di più di un semplice frontiera un simbolo di un Europa che sembrava passata. Siamo alla fine dell’esperienza dell’Europa unita?

ED. Non vedo alternative all’Unione europea, se non nei populismi che contrappongono sovranismo a europeismo. Recensendo il mio libro, Damiano Palano ha ricordato un incontro tra Nitti e Salandra, presidente del consiglio di allora, in una estate romana del 1915. Nitti manifestò le sue perplessità su ciò che avveniva al confine con l’Austria e chiese se il governo era pronto ad affrontare il lungo inverno. La risposta fu sconcertante: “Il tuo pessimismo è veramente inguaribile. Credi che la guerra possa durare oltre l’inverno?”. In fondo nel mio libro mi interrogo su come l’Italia possa affrontare, senza bussola, il “lungo inverno europeo”.

Nicola Guarino

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Nicola Guarino
Nicola Guarino, nato ad Avellino nel 1958, ma sin dall’infanzia ha vissuto a Napoli. Giornalista, già collaboratore de L'Unità e della rivista Nord/Sud, avvocato, direttore di festival cinematografici ed esperto di linguaggio cinematografico. Oggi insegna alla Sorbona presso la facoltà di lingua e letteratura, fa parte del dipartimento di filologia romanza presso l'Università di Parigi 12 a Créteil. Attualmente vive a Parigi. E’ socio fondatore di Altritaliani.

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