Terrorismo : Davanti al dolore degli altri

Perché non ammetterlo ? Abbiamo pianto i morti di Parigi. Ci siamo identificati con la redazione e le ragioni di Charlie Hebdo ; abbiamo comprato e letto quel giornale quando è tornato in edicola (anche se magari prima lo ignoravamo, non ce ne fregava niente, non ci piaceva nemmeno tanto). Abbiamo affermato « Je suis Charlie » con tanto di bandiera francese (io l’ho messa addirittura alla finestra). Abbiamo guardato le fotografie dei ragazzi al Bataclan la sera del 13 novembre, andati lì a cercar di vivere (uscire amare ridere, la cosa più difficile), non certo di morire. Pochi giorni fa, abbiamo cercato sulle cartine le vie di Bruxelles dove magari siamo passati tante volte, ci siamo informati su ogni dettaglio, abbiamo passato ore a discuterne.

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Invece (perché negarlo) non abbiamo fatto lo stesso, poche ore più tardi, per i morti in Irak, né per quelli in Pakistan, provocati da attentati molto simili a quelli di Parigi e Bruxelles. Abbiamo usato, come si dice, due pesi e due misure. E con noi lo ha fatto Anne Hidalgo, sindaco di Parigi, socialista : la Tour Eiffel si è illuminata dei colori del Belgio, in segno di solidarietà, e non di quelli del Pakistan, come pure in tanti hanno reclamato. « Il dolore di una madre è lo stesso in Belgio, a Parigi, o in Pakistan », ha ricordato ad Anne Hidalgo una certa Sonia, attraverso un messaggio su una rete sociale. Con lei mille altri. Mille altre Sonie. A inalberare foto strazianti e moniti severi: perché di certi morti non frega niente a nessuno ? Perché la nostra reazione dipende dalla nazionalità delle vittime ?

Quella suggerita da Sonia, dalle tante Sonie da tastiera, sarebbe una bella domanda; se non fosse che in realtà una domanda non è. È semmai un interrogativo retorico, che non ammette controversie e non lascia spazio ad alcuna risposta che non sia quella, con ogni evidenza, già contenuta nella domanda : il dolore è lo stesso per tutti, i morti sono tutti uguali, quindi (elementare, no ?) non deve esserci differenza. Se la Tour Eiffel si deve illuminare, che sia per tutti, chiede Sonia ad Anne Hidalgo (e a noi). E lo fa con una certa stizza. Perché le mille Sonie delle reti sociali (che di solito impazzano su Facebook o Twitter con cuoricini, gattini, citazioni edificanti prese da libri alla moda e soluzioni mirabolanti per i massimi problemi mondiali) sono certe di essere nel giusto, di essere le custodi di una sorta di purezza rigorista : l’assoluta equanimità dei sentimenti.

Invece io credo che abbiano torto, le mille Sonie. E questo perché sembrano credere che i sentimenti obbediscano a una logica contabile. Che le emozioni debbano adeguarsi a logiche totalmente coscienti, dettate dal desiderio narcisistico di sentirsi obiettivi e giusti ; che le nostre reazioni debbano essere ispirate da un criterio assoluto, quello dell’uguaglianza, dell’uniformità, che prescinde da chi si è, da dove si vive, dalla storia a cui si appartiene. Un morto a Bruxelles, uno in Irak, uno in Pakistan : per tutti Sonia avrà una lacrima e un messaggino su Facebook, e che quella lacrima e quel messaggino, mi raccomando, siano perfettamente identici, perché ogni differenza sarebbe un torto. Ma non è così. Le cœur a ses raisons que la raison ne connaît point : il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce, diceva il vecchio Pascal. Se gli esseri umani ragionassero in termini puramente oggettivi e doveristici (identico ogni morto identica quindi, perché così deve essere, la nostra reazione), il risultato non sarebbe l’uniformità totale (e quindi una presunta perfezione) dei sentimenti, come pare credere Sonia ; sarebbe invece la loro scomparsa.

La perdita di una persona cara – un parente, un amico – suscita ben più dolore, in chi resta, della morte di una persona totalmente sconosciuta e lontana ; chi potrebbe mettere in dubbio la legittimità, l’umanità di un tale sentimento ? Eppure anche qui, da un punto di vista strettamente razionale, non vi è alcuna differenza tra le due morti. Allo stesso modo, ogni tragedia dei nostri giorni, in teoria, non presenta alcuna differenza con « una guerra fra due Stati africani del XIV secolo che non ha cambiato nulla sulla faccia della terra, benché trecentomila negri (sic) vi abbiano trovato la morte tra torture indicibili », scriveva Milan Kundera nell’incipit dell’ «Insostenibile leggerezza dell’essere».

Invece la differenza, per noi, per chi resta, c’è, ed è evidente. Se abbracciassimo in noi, a ogni momento, la totalità delle tragedie di ogni ora e ogni luogo, se pretendessimo di applicare a esse una stessa metrica rigorista, che non tollera differenze, annulleremmo il campo dei sentimenti, piuttosto che estenderlo. Finiremmo con il guardare a tutto (anche alla morte di chi ci è più vicino e più caro) esattamente come alle trecentomila vittime di cui parla Kundera, tanto remote da apparirci irreali : con assoluta, totale, inumana (troppo inumana) negazione della differenza, ovvero in-differenza.

A salvarci dall’in-differenza è, invece, proprio quello che le Sonie di Facebook e Twitter detestano e trovano ingiusto ed esecrabile : la capacità di fare delle differenze, di non trattare ogni cosa con lo stesso metro. Di non avere uno stesso gattino e uno stesso cuoricino, misurati al millimetro, per tutti. Se ci toccano più da vicino i morti di Bruxelles non è perché siamo tanto stupidi da considerare i belgi più meritevoli di vivere degli iracheni o dei pakistani. Se ci toccano di più è perché la loro morte si affaccia più direttamente sulla nostra esperienza quotidiana, sul nostro modo di vivere e morire.

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O magari perché in quella tragedia vediamo la morte violenta, lo scontro, la fine della coabitazione pacifica, il fanatismo religioso arrivare nei luoghi (in Europa) in cui pensavamo di avere costruito qualcosa di diverso : la pace, la convivenza tra diversi, lo stato di diritto, la libertà di opinione, la laicità delle istituzioni e delle leggi, la fine delle frontiere nazionali, l’assoluta parità di diritti tra uomini e donne, le libertà sessuali e civili.

Piangere un po’ di più, o in modo diverso, i morti più vicini a noi non significa affatto (a differenza di quanto credono le mille Sonie, vestali del rigorismo del lutto) contrapporli o sottrarre qualcosa a quelli più lontani. Immagino che molte persone, in Irak, abbiano pianto la morte di quei poveri ragazzi allo stadio, musulmani quanto i loro carnefici, ben più di quanto non abbiano fatto per i morti di Bruxelles. Lo stesso in Pakistan. E non credo che questa sia una mancanza di rispetto verso i morti europei. Per amare il mondo, non è necessario spezzare il legame con la propria terra o la propria comunità. « Quando cittadino Romano fu lo stesso che cosmopolita, non si amò né Roma né il mondo (…) e quando Roma fu lo stesso che il mondo, non fu più patria di nessuno, e i cittadini Romani, avendo per patria il mondo, non ebbero nessuna patria », ha scritto Giacomo Leopardi. Che, parlandoci della sua amata Silvia, ci parlava della condizione umana – del dolore universale.

Maurizio Puppo

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Maurizio Puppo
Maurizio Puppo, nato a Genova nel 1965, dal 2001 vive a Parigi, dove ha due figlie. Laureato in Lettere, lavora come dirigente d’azienda e dal 2016 è stato presidente del Circolo del Partito Democratico e dell'Associazione Democratici Parigi. Ha pubblicato libri di narrativa ("Un poeta in fabbrica"), storia dello sport ("Bandiere blucerchiate", "Il grande Torino" con altri autori, etc.) e curato libri di poesia per Newton Compton, Fratelli Frilli Editori, Absolutely Free, Liberodiscrivere Edizioni. E' editorialista di questo portale dal 2013 (Le pillole di Puppo).

1 COMMENTAIRE

  1. lacrime e simboli
    É certamente così, l’emotività appare strettamente vincolata ai sentimenti. I morti per il nostro cuore non sono tutti uguali, dobbiamo accettarlo e forse rivendicarlo. Ma in questo caso si parla anche di simboli (le bandiere francesi, la Tour Eiffel, i drappi arcobaleno) e nella rappresentazione iconografica dell’avversione al terrorismo globale, dovremmo forse porci il problema di globalizzare se non il dolore, almeno il ripudio di quel che lo provoca, ivi comprese talune strategie macroeconomiche tutte occidentali che in somma parte lo innescano

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