Massimiliano Virgilio. Intervista allo scrittore napoletano.

Massimiliano Virgilio è uno dei più promettenti scrittori napoletani, anzi “il migliore scrittore napoletano in circolazione”, a detta del famoso critico letterario Goffredo Fofi* che qualcosa ne capisce. “Più male che altro” (Ed. Rizzoli) è il romanzo con cui ha esordito nel 2008, mentre “Porno ogni giorno. Viaggio nei corpi di Napoli” (Ed. Laterza) è uscito quest’anno e non ha tardato a far parlare di sé.


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Sarebbe stato bello poter fare questa intervista passeggiando nei luoghi che Massimiliano Virgilio ha raccontato nel suo ultimo libro: Secondigliano, Piazza Garibaldi, via Chiaia, ma anche la periferia dei grandi centri commerciali. O, anche solo, in una Piazza Bellini crocevia di storie e personaggi che caratterizzano Partenope, simbolo della contraddizione intrinseca di questa città dove i caffè letterari, gli spazi condivisi dalle associazioni in difesa dei diritti degli omosessuali, uno dei salotti della città, insomma, si mescolano ai Mastiffs, uno dei gruppi Ultras più famigerati in Italia, allo spaccio di droga e al cosiddetto “degrado urbano”. Un centro storico che da sempre è uno dei simboli principali della pornografia partenopea.

“Desidero e odio la massa, la odio e la amo. Sono incapace di dirle di no, di sfuggire al suo richiamo, di non illudermi ogni volta che non mi fagociterà”

Qui “massa” sembra facilmente sostituibile con “Napoli”: amore e odio. L’amarezza traspira da ogni parola che Virgilio scrive. L’amarezza per una città che si crogiola nella propria rappresentazione sociale, anzi nella “sovrapposizione tra la rappresentazione sociale e lo stereotipo” dove la “grande capacità di manipolare il proprio stereotipo è una caratteristica inquietante di certi napoletani”.
sottolastessaluna_2.jpgLa scarpa firmata, la speranza di un passaggio tv (“Un tempo, dalle nostre parti, c’era il mito del pubblico impiego e del posto in banca” dice Virgilio. (…) Oggi siamo quasi al paradosso per cui essere laureati è un disvalore. La televisione è l’altare su cui viene celebrato quotidianamente questo mutamento antropologico”), tra un ragazzo che “vò paria’” (vuole divertirsi) pur trovandosi in mezzo al nulla e chi fa la fila per l’ultimo paio di scarpe alla moda. Ma questo libro è anche un atto di accusa nei confronti di una classe politica e di una borghesia che non è stata in grado di prendere sulle proprie spalle la responsabilità civile che le spettava.

C’è chi afferma che il tuo libro è un misto di narrazione e reportage, io lo definirei un diario di campo dove l’etnografia si mescola con l’intimo dello scrittore. A tratti osservatore partecipante, a tratti solo osservatore… che ne pensi?

Sono d’accordo con la definizione di “diario di campo”. A questa aggiungerei quella di “onanismo civile”, nel senso che Porno ogni giorno è stato concepito privo dell’intenzionalità del reportage ma nutrito dell’incoscienza del diario. In principio, c’è stato il conato, frutto dell’assorbimento per circa trent’anni del contesto nel quale sono cresciuto. Ho assecondato questo sforzo con la dimensione autobiografica. Allo stesso tempo, per evitare di scadere nel diario puro – non vedo perché un lettore debba essere interessato alle mie esperienze e ai miei ricordi personali – ho intrecciato l’elemento biografico con quella che rozzamente potremmo definire “dimensione civile”. L’atto più apertamente civile del mio libro è l’acquisizione del punto di vista “Noi”, nel senso di noi napoletani, noi meridionali, noi italiani, a scapito dell’“Io”.

Le rappresentazioni sociali sono costruzioni di differenti membri di un gruppo che condividono delle conoscenze, lo stereotipo è invece ciò che gli altri pensano di un gruppo. Pensi che lo stereotipo napoletano sia cambiato come le sue rappresentazioni sociali?

Sì. Non sono un sociologo, però credo che uno dei problemi sia la sovrapposizione tra rappresentazione e stereotipo. Non è un problema esclusivamente napoletano. Però se guardo ai napoletani come a un campione molto rappresentativo della popolazione italiana mi rendo conto che tale sovrapposizione è giunta a un livello talmente elevato di coscienza collettiva da rendere ininfluente qualsiasi tentativo di separazione. La grande capacità di manipolare il proprio stereotipo è una caratteristica inquietante di certi napoletani. Naturalmente, i media nazionali amano questa doppiezza, la ritengono “cinema”, e quindi la riprendono, la ripropongono, se ne fanno dibattiti. La restante parte d’Italia che non è Napoli guarda a tutto ciò come “all’esotico”, alienando da sé ogni responsabilità, mentre alcuni napoletani guardano alla riproposizione dello stereotipo come a una rappresentazione veritiera della propria identità. L’inganno è lì. Se la mia identità si fonda su una serie di stereotipi veicolati dal gusto per l’esotico che è proprio della televisione, allora non ho più alcun bisogno di provvedere alla mia auto-rappresentazione sociale. La vita in diretta, o chi per essa, ci penserà al mio posto.

A un certo punto parli di “Napoletaneità”. Cosa vuol dire?

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Niente. La “Napoletanità” non è niente. È il tentativo di attribuire una categoria ontologica a un gruppo di persone che vivono più o meno entro gli stessi confini geografici. È un concetto fumoso e molto dannoso. È il tentativo di definire la nostra diversità come unicità. Ma la verità è che la napoletanità non esiste, se non come giustificazione all’incapacità di costituirsi come una comunità che si preoccupa del benessere di tutti. È un vessillo all’invivibilità, uno scudo che nasconde le difficoltà. In città c’è tutto un marketing della napoletanità, sulla nostra presunta aderenza a una comunità “anomala” nel male e, soprattutto, nel bene. Nella migliore delle ipotesi, la napoletanità è solo uno slogan in dialetto su una maglietta da vendere a qualche turista o a qualche emigrante nostalgico.

I napoletani non solo si identificano nella tivù ma diventano attori protagonisti senza copione. Perchè il popolo napoletano assorbe e interiorizza così bene ciò che passa la tivù?

Quella che tu definisci interiorizzazione del modello televisivo non è una peculiarità napoletana ma dell’intera Italia. Con la specificità che a Napoli ogni cosa si mostra in modo estremo e pittoresco. Credo che tutto nasca da un’atavica arretratezza mescolata senza mediazioni alla modernità digitale e consumistica. E poi c’è la televisione, che è un calderone occupazionale niente male. Un tempo, dalle nostre parti, c’era il mito del pubblico impiego e del posto in banca, oggi tutto questo non c’è più, però la storia è sempre la stessa. Con la differenza che se fino a qualche anno fa studiavi, se “facevi i sacrifici”, se lavoravi sodo, a qualcosa potevi aspirare. Oggi siamo quasi al paradosso per cui essere laureati è un disvalore. La televisione è l’altare su cui viene celebrato quotidianamente questo mutamento antropologico. Credo che la generazione delle mamme quarantenni/cinquantenni di oggi sia l’anello di congiunzione in questo mutamento. Cresciute in un ambiente bigotto, e privo di opportunità di reale emancipazione, oggi spingono le figlie a diventare quello che loro non sono diventate. Ma se l’emancipazione viene confusa (e ridotta) alla ricostruzione unghie o al rossetto glitter glam, allora, siamo messi davvero male.

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Nel tuo libro passi dai « ragazzi obesi che vestono come i tronisti di Maria De Filippi » alle « mise di duemila euro » di Chiaia. Ciò che li distingue è solo il luogo dello shopping: corso Umberto o via Chiaia?

In Italia, come sostiene Goffredo Fofi nel suo recente La vocazione minoritaria, è in corso da anni una cetomedizzazione del sottoproletariato e una sottoproletarizzazione del ceto medio. Fofi sostiene che tra Lapo Elkann e un ragazzo delle borgate romane non ci sia più nessuna distinzione, se non la fascia di reddito che permette un diverso accesso ai consumi. Per il resto, l’omologazione estetica, così come quella culturale, è la stessa. In parole povere lo stile-Juve si è contaminato con lo stile-Milan. Il risultato è stato, per dirla con le parole di un altro “grande vecchio”, quelle di Walter Siti, che il contagio dalle periferie si è esteso al centro. A legare tutto ciò esiste lo strabordare di una dimensione consumistica che ha varcato i limiti tradizionali. Ieri sul giornale leggevo di un’agenzia inglese che ti permette di noleggiare un amico. Ecco il mondo in cui viviamo. Si fa commercio di qualsiasi cosa. E Napoli non fa eccezione.

Pensi che Napoli si divide in piccoli mondi contigui che non si compenetrano?

Penso che Napoli non sia una città, ma un paese. Si atteggia a metropoli, a capitale decaduta, ma in realtà è una sorta di monolite dove forme diverse e sempre più degenerate di incultura e criminalità soffocano le energie positive che esistono sul territorio. A questo c’è da aggiungere un vittimismo molto diffuso in tutti gli strati della popolazione. I piccoli mondi contigui che non si compenetrano, i diversi ambienti che non dialogano tra loro, sono il segno più eloquente di questo provincialismo. Scalfire il monolite, ecco uno dei compiti più difficili da intraprendere.

Aldo Grasso nella sua recensione al tuo libro scrive di « fascinazione perversa tra il corpo della città e il corpo di molti suoi abitanti ». Questi due corpi in cosa differiscono e in cosa sono uguali?

Non ne ho idea. Bisognerebbe che tu lo chiedessi ad Aldo Grasso.

Gomorra è stato sicuramente uno spartiacque nel racconto di Napoli, soprattutto in campo reportagistico. Qual è la difficoltà di raccontare Napoli al giorno d’oggi?

Rispetto a questo tema ci sono due ordini di argomenti.
Il primo è di carattere puramente teorico-letterario. È difficile raccontare una città che ha la tendenza a farsi personaggio unico, che è un monolite, come dicevamo prima. Troppa narrazione intorno a pochi discorsi ha minato la credibilità e la possibilità di raccontare Napoli rispecchiandone la complessità. A questo punto mi viene da farti una domanda: perché Napoli deve essere raccontata a tutti i costi? Ma non ho voglia di affrontare quest’argomento adesso. Non ne abbiamo lo spazio.
pizzabell02.jpgSecondo argomento di carattere etico-pratico. Non esisterebbe nessuna difficoltà nel raccontarla se in città fosse presente una classe intellettuale degna di questo nome, non compromessa col potere, né con rendite di posizione, che non puntasse al minimo sindacale dello scrittore, se non sfruttasse il proprio minimo talento e la propria condizione di napoletano in cambio di pochi, sporchi spiccioli. Anche tra gli scrittori è molto diffusa la moda del velinismo. Anzi. Gli scrittori sono molto peggio delle veline. Almeno loro ci mettono la faccia.

Se dovessi scegliere uno e un solo simbolo della pornografia napoletana quale sceglieresti?

Berlusconi che preme il pulsante per avviare l’inceneritore di Acerra, al cospetto di un’attonita e ridotta al silenzio classe dirigente locale.

Dopo “Più male che altro”, il tuo romanzo d’esordio, Fofi ti ha definito il migliore scrittore napoletano in circolazione (e tu non eri presente). Cosa pensi di quello che succede letterariamente a Napoli?

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Succede che finalmente gli editori nazionali si sono resi conto di una parte di mondo narrativamente interessante, che esprime storie valide, mondi simbolici e autori di talento. Ciò è dovuto a ragioni economiche, innanzitutto, perché nessun grande editore si interesserebbe a ciò che non produce denaro, ma anche (lo voglio sperare) a ragioni culturali. La conseguenza è la scoperta di un buon numero di scrittori che hanno qualcosa da dire sulla realtà di questo paese. Tra loro, e sono sicuro che ne usciranno di nuovi più interessanti nei prossimi anni, esistono degli scrittori veri, e per scrittore vero intendo colui o colei in grado di scrivere almeno quattro, cinque libri di spessore. Quello che mi interessa di questo fenomeno è la possibilità di unirsi insieme ad altri scrittori per realizzare e portare avanti progetti culturalmente di rilievo. Ciò che mi deprime e spaventa, invece, è che da tutto questo movimento possano nascere solo altri piccoli o piccolissimi gruppi di potere, privi di ogni prospettiva intellettuale seria.

Fai molti nomi in questo libro? Quanti problemi ti ha portato?

Qualcuno si è risentito. Ho ricevuto telefonate adirate, minacce di querela da parte di radio e centri commerciali. Ma per il momento non ho ancora ricevuto nessun avviso. Speriamo bene. Non tira una grande aria in questo momento nel nostro paese per chi ha voglia di raccontare dettagliatamente e analizzare con senso critico i fatti.

Francesco Raiola e Angela Verrastro

* [Goffredo Fofi è la storia della critica letteraria italiana, con un occhio sempre rivolto al Sud. Su Wikipedia si legge che “Fofi è uno scrittore libero, un maestro senza cattedra, da sempre senza salario e senza pensione”. Una definizione che calza alla perfezione allo scrittore di Gubbio. Fofi è memoria storica dell’Italia, spina dorsale dei Quaderni Piacentini e di Ombre Rosse, oggi è direttore della rivista Lo Straniero e scrive per L’Espresso, Film Tv e Internazionale, per cui ha una rubrica fissa sulla letteratura, “Il libro”.]

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