Voglio bene alla scuola.

Voglio bene alla patria – (benchè afflitta di tronchi rugginosi, dice il poeta): e la mia patria è la scuola. Voglio bene ai suoi cortili silenziosi nelle ore di lezione, ai suoi muri spesso scrostati (perché si sa: i soldi non ci sono, i soldi non bastano mai). Al miracolo che si rinnova ogni volta, “quasi per guardia delle cose belle” (dice il poeta) che si trovano in quelle aule: le equazioni di secondo grado, le poesie di Leopardi, la bella compagna di classe che la dà a tutti ma proprio a tutti meno che a te; la filosofia di Nietzsche, la grammatica e il latino, il banco nero in terza fila che ascoltò tutte le risate, le proporzioni (datemi retta: se imparate bene a fare una proporzione, nella vita il più è fatto); il compito in classe andato così così, quella stronza di professoressa che mi ha dato una nota sul registro e io non avevo fatto niente (ma chissà se è proprio vero).

Alberto Sordi nel

Voglio bene alla delusione del brutto voto, al rimorso del mattino al risveglio nel pensare che c’era un sacco di tempo per studiare e invece non hai combinato un emerito tubo, e poi alla campanella che suona a dire, lo so ch’è l’ora, lo so ch’è tardi (ma un poco ancora lascia che guardi).

Ma soprattutto, voglio bene alla scuola perché son della razza mia: per quanto grande sia, il primo (non proprio ma quasi) che ha studiato. Dopo generazioni dietro di me che a scuola c’erano andate poco o niente. Condannate a non sapere, e per tutta la vita a sentirsi a disagio davanti agli stronzi che usano il latinorum (oggi più che altro l’inglesorum, ma la sostanza è quella, la sostanza non cambia).

Io invece ho avuto la fortuna di andarci, a scuola. E che fortuna è stata quella! Ho fatto le elementari con un maestro che era stato partigiano. Bianco, nel senso di cattolico. E ci parlava soprattutto del Risorgimento, che aveva fatto di un’ “espressione geografica” una nazione; e della Resistenza, che ne aveva fatto una democrazia e una repubblica, porca miseria. Ci dettava le poesie. Pascoli, Ungaretti, Quasimodo. Ma Quasimodo non mi è mai piaciuto. A volte il maestro taceva il nome dell’autore; allora io sapevo che la poesia l’aveva scritta proprio lui.

Poi le elementari sono finite e con esse l’infanzia; e l’inganno della vita ha cominciato a diventare palese, come diceva il ragionier Montale, che di sublimi inganni se ne intendeva. E ho fatto le medie. Quelle medie istituite, nel 1962, da una riforma che aveva abolito l’avviamento tecnico e creato una scuola unificata che dava finalmente accesso universale a tutte le scuole superiori. Delle medie non ho un ricordo nitido.

C’era una professoressa di storia e geografia che diceva: “ragazzi, volevo raccontarvi una cosa davvero incredibile che ho letto, sapete che a me piace leggere un po’ questo giornale, Stop….”. Stop. Poi l’insegnante di applicazioni tecniche – materia misteriosa, per me – che ci aveva fatto giocare con il frisbee, questo disco volante da tirare da una parte all’altra. E se lo era preso chiaramente in un occhio. “Ragazzi è un gioco pericoloso”, aveva farfugliato.

All’esame di terza media, mi ricordo, ho portato (come si dice) il giovane favoloso: Giacomo Leopardi. E in particolare l’Infinito. Tutti ricordano la chiusa, giustamente celebre (“e il naufragar m’è dolce in questo mare”). Ma a colpirmi di più era quel formidabile e mi sovvien l’eterno. E le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei. E il suon di lei! Ma mi dite come cavolo si fa a scrivere in questo modo? Basta carabattole, su un verso così si fischia la fine del match per manifesta superiorità.

Veniva voglia di abbracciarlo, il giovane favoloso, e di consolare le sue tristezze tremende che poi erano e sono anche le nostre, perché in fondo è questo che fanno i poeti: parlando di sé, parlano di noi. E ancora come allora la so tutta a memoria, quella poesia – e come per Pascal, le silence éternel de ces espaces infinis m’effraie. Il silenzio eterno di questi infiniti spazi, ogni volta, mi spaventa.

E dopo le medie il liceo. Quella scuola che fino ad allora era stata solo per i figli dei ricchi! Con una professoressa di latino che era una maniaca (detto senza offesa, intendiamoci, per entrambe le categorie: insegnanti e maniaci). Io mi sono messo a studiare come un matto: declinazioni, coniugazioni. E poi il professore di storia dell’arte. Si chiamava Giuseppe Marco Piccardo. È morto proprio qualche mese fa. “Io, notoriamente, sono un uomo di destra”, diceva, con grande scandalo di buona parte di noi studenti e delle “professoresse democratiche” (definizione, geniale, di Edmondo Berselli). E ci parlava di libri che a noi (almeno a me) sembravano assurdi, strampalati. Tipo Les mémoires d’outre-tombe di René de Chateaubriand, che il prof citava allegramente (si fa per dire) a memoria. Così come elencava a memoria le opere della galleria degli Uffizi. E poi ci parlava, da “uomo di destra”, del patto Ribbentrop-Molotov, il trattato di non aggressione firmato nel 1939 dalla Germania nazista e dall’Unione Sovietica. E ci diceva, come Mangiafuoco dice a Pinocchio, che occorre diffidare di coloro che sembrano buoni, e ricordarsi che a volte c’è del buono anche in chi ti sembra cattivo. “In fondo basterebbe ammettere che siamo tutti figli di Caino”, diceva. “Un fascista”, dicevamo noi. Non nel senso storico; no, in quello che è divenuto il senso comune, corrente del termine, un insulto che si usa per squalificare un avversario politico.

All’epoca, poi (tra gli anni Settanta e gli Ottanta) si dava più o meno del fascista a chiunque si collocasse a destra del PCI. E proprio una bandiera del PCI, con noi ad intonare l’Internazionale, era il regalino che avevamo pensato di fargli trovare in classe una mattina al suo arrivo. Pa-pa-parappappappappa. Non l’abbiamo mai fatto, meglio così.

Luigi Berlinguer

Un mio compagno di classe, comunista ortodosso (poi diventato altro, ma restando sempre ortodosso. Ortodossi si nasce), un mio compagno di classe, dicevo, ce l’aveva con lui a morte. Io gli dicevo: guarda che Piccardo è un uomo colto, accidenti! E il mio compagno di scuola (compagno di niente): “Colto? E va bene, lo sarà pure, ma c’ha anche quarant’anni!”. Come dire che a quarant’anni si è talmente vecchi che si è colti per forza.

Un giorno il prof mi ha detto: “spero che un giorno lei potrà vedere le cose diversamente e cambiare parere su di me”. Poi il tempo è andato e anche a me (non so come mai) è capitato di avere quarant’anni e persino di più. Eppure, ve lo assicuro, mai sono stato colto com’era lui. Il mio amico ortodosso aveva torto. (E ho avuto trent’anni di tempo per dirglielo, al prof, che avevo cambiato parere; ma non l’ho fatto e ora che è morto è troppo tardi).

Poi, nel 1984, per me il liceo è finito: au revoir les enfants. Ma alla scuola ho sempre voluto bene e sempre ne vorrò, per mille anni e più. E a volte mi chiedo come sarebbe stata la mia vita se vi fossi tornato da insegnante, ad applicare la mia laurea in lettere, bella come sanno esserlo solo le cose che non mi sono servite a nulla. E mi faccio delle domande. Se fossi diventato insegnante, anche io adesso manifesterei contro la riforma della scuola, detta la “buona scuola”? Forse anche io boicotterei i famosi, odiatissimi test Invalsi? O protesterei in piazza, al grido di “non siamo numeri e crocette”? (Come tanti insegnanti, “muniti di luci e candele” – racconta Il Fatto quotidiano – “con la lettura degli articoli della Costituzione accompagnati dalle note dell’”aria sulla IV corda” di Bach suonato con un flauto traverso”). Anche io griderei “vergogna”? (E, alla richiesta di spiegazioni, direi: “Ma perché è vergognoso questo disegno di legge”, come ha fatto la professoressa Corradina Scillia, a Bologna).

Anche io protesterei contro “la scuola-azienda dei capetti e la scuola-quiz dell’Invalsi”? (Come ho letto da qualche parte). Contro “l’onnipotenza tirannica del dirigente scolastico”? Contro una scuola dove “i docenti diventano dei nuovi vassalli, privi di diritti e di dignità”? Contro la “privatizzazione della scuola pubblica”? (Concetto un po’ fumoso, visto che non mi pare corrisponda, in concreto ad alcun punto della riforma di cui si discute – ma a questa obiezione mi è stato già risposto: sei in malafede! Si tratta di “privatizzazione” strisciante, nel senso che si cerca di far diventare la scuola pubblica uguale a quella privata. Strisciante? Può darsi).

Tullio De Mauro

Insomma, anche io mi opporrei così ferocemente? È possibile. Perché sarei un altro (sia pur identico) rispetto a quello che sono. Forse perché come tanti insegnanti sarei esasperato da anni di immobilismo, indispettito dal degrado delle strutture e dalla carenza dei mezzi a disposizione, dal livello di retribuzione inadeguato, da tutte queste cose. E allora non mi permetto di giudicare le ragioni di chi protesta; devono essercene di valide.

Però due o tre cose vorrei dirle, su questa faccenda della riforma della scuola. Intanto, i toni di questa protesta mi fanno l’effetto di una sorta di litania, di una giaculatoria. Ogni riforma della scuola è sempre stata accompagnata da un identico coro di protesta, sempre identico, indipendentemente dal suo contenuto specifico.

Leggete questo: “lo smantellamento della pubblica istruzione, richiesto dalla logica neoliberista, non avrebbe potuto essere compiuto con altrettanta efficacia dalla destra”. Pensate sia stato scritto adesso? No. Risale al 1998. Quando al governo c’era l’Ulivo e quando il ministro della Pubblica Istruzione era Luigi Berlinguer. Un uomo con una storia tutta dentro alla sinistra, altro che “neoliberista”! Ma la sola idea di fare un concorso per determinare a chi attribuire aumenti di merito suscitò proteste così forti da farlo saltare.

E ricordo, nel 2001, le lacrime di Tullio de Mauro, grande linguista (un altro che di “neoliberista” aveva poco o niente) e le sue parole: “Non capisco questi attacchi così violenti, non stiamo facendo nulla di sconvolgente”.

Su una riforma si può essere d’accordo o meno. Ma è davvero obbligatorio ogni volta intonare la litania, il mantra della “logica neoliberista”, del “disegno nemmeno tanto occulto di distruzione della scuola pubblica e della Costituzione” che ispira, a dire dei contestatori, ogni riforma, qualunque essa sia? .

Sul Manifesto ho letto che al rientro i sindacati promettono ”una guerriglia Vietnamita” contro la riforma (curiosamente, sono più o meno le stesse parole che ha usato Brunetta, capogruppo di Forza Italia). In attesa della guerriglia vietnamita, cari insegnanti, e cara scuola a cui voglio bene, c’è una cosa che vi voglio dire. Secondo me, il modo migliore di distruggerla sul serio, la scuola pubblica, è proprio rifiutare, sempre e sistematicamente, di introdurre in essa tre cose fondamentali.

La prima è il merito: perché il merito è una cosa giusta e (vorrei dire) persino “di sinistra”. Perché è bello e profondamente giusto che il lavoro di un insegnante in gamba sia riconosciuto. Non vi va che a deciderlo sia il preside o chi so io? D’accordo, ma qualcuno dovrà pur deciderlo, no? In ogni lavoro si è “giudicati” da qualcun altro. Anche gli allievi sono “giudicati” ogni giorno dai loro insegnanti.

La seconda cosa fondamentale è la misura del livello di apprendimento. Certo, i test Invalsi o cosa ne so io avranno mille difetti, ne sono sicuro. Certo, è difficile misurare con i “test” il “formarsi di una coscienza critica”, come si sente dire. E la “coscienza critica” è importante. Ma è importante anche sapere che due più due fanno quattro. È importante saper fare una proporzione (ve l’ho già detto); saper fare un riassunto in poche parole di qualcosa che si è appreso (Je vous écris une longue lettre parce que je n’ai pas le temps d’en écrire une courte, scriveva Pascal); avere un’idea del fatto che Mussolini e Hitler non possono essere andati al potere rispettivamente nel 1964 e nel 1979 (per riprendere una gaffe dei concorrenti di un quiz televisivo). E il presupposto minimo del “formarsi di una coscienza critica” sta proprio in queste nozioni che possono apparire grigie, nozionistiche; ma senza le quali nella vita possono essere guai e guai seri. Perché tanti ragazzi escono dalla scuola e non sanno un tubo, sanno solo sventolare il pezzo di carta pensando che dia loro diritto a qualcosa. Si sbagliano: il compito della scuola era, ed è, fornire loro le nozioni di cui avranno bisogno nella vita, non il pezzo di carta.

Stefania Giannini

La terza cosa fondamentale è il contatto con il mondo del lavoro. A molti insegnanti la sola idea fa orrore, e già sento le solite geremiadi sul disegno per “asservire” l’istruzione al diabolico capitalismo. Ma bisogna anche pensare che non tutti gli scolari diventeranno poeti maledetti o stelle della televisione o barboni felici o cantautori o ricchi rentiers; la maggioranza delle persone ha aspirazioni più modeste e dovrà cercarsi un lavoro. E per le persone normali e soprattutto per i figli dei poveri la possibilità di inserirsi nel mondo del lavoro non è necessariamente una orrenda condanna, non è obbligatoriamente una resa di fronte al mostro sbavante del famoso neoliberismo; oltre che una necessità, è anche un modo per rendersi autonomi, confrontarsi con gli altri, fare esperienze interessanti.

Per molti il lavoro sarà il giardino da coltivare di cui ci dice Voltaire: un buon modo, talvolta l’unico, per dare un po’ di senso alla vita che tanto senso non ce l’ha. Insomma, non c’è nulla di male nel fatto che, ad esempio, uno studente passi due o tre giorni in un’azienda per fare uno stage e vedere un po’ come funzionano le cose.

Nella mia esperienza lavorativa ho visto cose che voi umani non potete neanche immaginare: fior di laureati con 110 e lode assolutamente incapaci di fare una telefonata, di contattare una persona sconosciuta sapendosi presentare e spiegare con chiarezza il motivo e lo scopo della loro chiamata. Un esempio tra tanti. Va bene la coscienza critica: ma nell’attesa di averne una per tutti, anche saper fare una telefonata non sarebbe male.

La riforma detta della “buona scuola”, che per tanti insegnanti buona non è (e pare anzi essere la manifestazione del diavolo in persona) avrà certo tanti difetti, ma qualcosina (timidamente, circospeziosamente) in questa direzione lo fa. Perché finalmente (a me pare) introduce una nozione di riconoscimento del merito, di misura del livello di apprendimento, di un pochetto di scambio tra il mondo della scuola e del lavoro.

Tutte cose – ve lo assicuro – che servono ai figli dei poveri, mica ai figli dei ricchi (mi perdonerete questa semplificazione). Perché i figli dei ricchi intanto di queste cose se ne fregano: vanno a lavorare nella fabbrichetta di papà, o possono permettersi di restare parcheggiati per anni a far finta di studiare, o possono contare sulla rete di conoscenze dei genitori. E se proprio hanno bisogno di qualcosa, vanno a cercarselo in scuole private d’élite. Mentre i poveri come al solito restano lì: nel Vietnam.

Maurizio Puppo

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Maurizio Puppo
Maurizio Puppo, nato a Genova nel 1965, dal 2001 vive a Parigi, dove ha due figlie. Laureato in Lettere, lavora come dirigente d’azienda e dal 2016 è stato presidente del Circolo del Partito Democratico e dell'Associazione Democratici Parigi. Ha pubblicato libri di narrativa ("Un poeta in fabbrica"), storia dello sport ("Bandiere blucerchiate", "Il grande Torino" con altri autori, etc.) e curato libri di poesia per Newton Compton, Fratelli Frilli Editori, Absolutely Free, Liberodiscrivere Edizioni. E' editorialista di questo portale dal 2013 (Le pillole di Puppo).

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