Anonimo Veneziano (1970), un film di Enrico Maria Salerno girato a Venezia

In quel 1970, mescolati ai pianti di milioni giovani per le premature morti di Jimmy Hendrix e Janis Joplin a cui, per amor di cronaca va aggiunta l’amara incredulità per la definitiva scomparsa dalle scene della band musicale più famosa, i Beatles, ci sono pure quelli di moltissimi italiani dopo aver visto: “Anonimo Veneziano” di Enrico Maria Salerno nelle quasi 8000 sale sparse in giro per l’Italia…Con questa mini rubrica, vogliamo ricordare e presentare alcuni film, a volte anche rari, che sono stati girati sulla laguna e in cui si respirava una certa “atmosfera”.


Enrico Maria Salerno

“Anonimo Veneziano”, il film scelto per questa breve rassegna delle pellicole girate a Venezia, rappresenta una tappa quasi obbligata di un immaginario (e personale) giro cinematografico dentro a questa città che per numero di film girati è inferiore solo a New York e Parigi…

La storia, banale per alcuni, indimenticabile per altri, racconta quanto avvenne nel breve tempo di un giorno tra due che, amatisi intensamente quando erano giovani, si sono poi lasciati…

Lui, Enrico, è oboista e suona nell’orchestra del Teatro la Fenice. Lei, Valeria, lavora presso una casa editrice a Ferrara. E’ stato lui ad invitarla. « Grazie per essere venuta » gli dice scesa dal treno. « Me l’ha consigliato l’avvocato » risponde lei in modo freddo e sorprendente. Sembra già un incontro nato male. Con tale premessa, usciti dalla stazione, girano per la città, salendo prima su un vaporetto, continuando poi verso direzioni che sembrano casuali.

Enrico è come preso da un nostalgico amarcord, forse causato dalla presenza di lei. Conosciutisi quando erano ancora studenti, si sono poi sposati. Dal loro amore è nato Giorgio che, per la precipitosa partenza di Valeria, lui non ha più visto da allora. L’utilizzo dei frequenti flashback, usati da Salerno, qui alla sua prima regia, è un escamotage prezioso servito per evidenziare due fasi dove, emergono due Venezie, dove nella prima piena di luce (le loro giovanili stagioni, passate navigando lungo il canale della Giudecca, amoreggiando poi tra il verde dell’Isola di S.Francesco del Deserto) fa contrapporre la seconda dove i toni grigi del cielo, sembrano preannunciare un finale non certo scontato.

Florinda Bolkan e Tony Musante

Valeria non conosce ancor il motivo per cui Enrico ha voluto rivederla. Ritornare a Venezia, rivedere lui senza sapere perché. Ma ormai è lì e vuole scoprirlo. In quell’andare tra i luoghi più cari ( a Ca’ Foscari dove si sono conosciuti, poi in Campo della Maddalena a rivedere la casa presa in affitto dopo che si erano sposati) c’è il lento svelarsi del dramma.

Al bar, in Campo S. Stefano dove avevano sostato, lei lo ha visto prendere delle medicine. Poi lo ha assistito al suo malore mentre si improvvisava direttore all’interno del Teatro la Fenice. Valeria per Enrico non ha ora più alcun sentimento forte. Sa che la decisione di andarsene con Giorgio fu la più giusta. « Ci saremmo divorati se tu non mi avessi costretta ad andarmene » le dice al culmine quando Enrico vorrebbe riprendere i toni e le intenzioni di una volta. Ma poi tutto precipita allorché, inavvertitamente, Valeria tocca il tema della decadenza della città « Anche se potessi non tornerei più a vivere a Venezia. E’ marcia, questi colori glieli dà il marciume che la divora da secoli. Muore. Tornerà ad essere il fango che era ». Gli fa eco Enrico « Bisogna avere in se il senso della morte per capire Venezia ». E’ quasi una rivelazione, espressa quando sono sopra al Ponte Longo, alla Giudecca dove lui abita adesso.

Un ponte, quel ponte che in questo caso, non serve per approdare ad una nuova sponda, ma verso la strada della morte. Valeria è sorpresa quando lui le rivela del suo male: « Il fatto è che sto morendo ». « Che significa? Tutti stiamo morendo » le fa eco lei. « Ma vedi… io morirò presto davvero, cinque o sei mesi, forse meno hanno detto i medici ». Valeria non sa o non vuole credere a quella terribile verità. Dentro a casa di lui, nel bellissimo Palazzo dei Tre Oci (tre occhi) da dove si gode del magnifico specchiarsi del Palazzo Ducale e degli altri monumenti che gli stanno attorno sopra alle acque del Canale della Giudecca, il tempo sembra bruciare le loro esistenze.

Faranno l’amore per l’ultima volta in un crescendo d’angoscia per le parole che Enrico le dirà. Manca poco ormai al finale. Tra un po’ lui si deve incontrare con l’orchestra giovanile del Conservatorio per provare ad incidere un brano di Alessandro Marcello, fratello del più famoso Benedetto, il Concerto in re minore per Oboe archi e basso continuo. Sarà questa musica bella come non mai, lancinante perché ferisce più di una spada, (difficilmente si potrà dimenticare), a chiudere questa sofferta e disperata giornata tra le lacrime di lei mentre, attraversando Campo S. Stefano nelle luci del tramonto ormai spentosi, ritornerà a Ferrara.

La critica non fu pienamente soddisfatta di questa Love Story. A Salerno gli si rimproverò persino il fatto che era facile girare una storia d’amore in una città da sempre votata all’amore. Ma non fu così tutto scontato. C’era anzitutto da promuovere un’altra Venezia, meno conosciuta (la Giudecca con i suoi squarci popolari dove si possono notare le lenzuola stese ad asciugare, i ragazzetti che giocano ancora a ruba bandiera, oppure la Stazione Marittima sebbene vista solo per qualche fotogramma, le zone verdi di un’isola, quella di S. Francesco del Deserto che, immagino sia stata visitata dalle telecamere solo per qualche documentario a sfondo religioso, Calle della Bissa con la cinepresa che « sgomita tra la gente »).

Infine la musica, colonna portante lungo tutto il film, protagonista incontrastata non meno della Bolkan… Anche qui si potrà obiettare che l’adagio di Alessandro Marcello dal Concerto per oboe, archi e basso continuo è una musica di altissimo livello il cui esito non poteva che essere eccellente, ma va dato merito a Salerno e ai suoi collaboratori della scelta azzeccatissima. Insomma una « Love Story » tutta veneziana dalla a alla zeta che funziona ancora benissimo a dispetto del tempo passato…

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Gian Luigi Rondi scrisse: « Una meditazione sulla morte e sulla vita: entrambe dure, dolorose. Con lo sfondo di una città, Venezia, che, se non è morta, sembra morente e può benissimo venire assunta a simbolo di una simile meditazione. Al centro lui e lei, ancora giovani, legati un giorno da un matrimonio tutto fuoco ed amore, ma adesso disuniti, lontani, lei con un altro e un altro figlio, in un’altra città, lui solo, a Venezia, sulla china discendente di una professione fallita (voleva diventare musicista è finito orchestrale). Da Il Tempo 23 Ottobre 1970

Gianni Rondolino per il Catalogo Bolaffi così scriveva. « Sul tema abusato dell’amore e della morte, sul quale sono stati scritti tantissimi romanzi e realizzati innumerevoli film, Enrico Maria Salerno, novello regista, ha puntato tutte le sue carte. C’erano tutti gli elementi perché la cosa riuscisse: due personaggi giovani, belli, Venezia, infine la rivelazione della morte imminente che precipitare la storia nella tragedia. Su queste basi non era difficile comporre un film accattivante e commovente. Che negli anni 70 un’operazione del genere possa ancora riuscire è motivo di studio sociologico ».

Che il cinema arrivi ad essere anche uno studio sociologico non è certo una novità. Ma torno a considerare che, per apprezzare questo stupendo film, sia giusto sedersi comodi in una qualsiasi poltrona e lasciare che le immagini arrivino ai nostri occhi, fino ad impadronirsi di noi.

Massimo Rosin
Da Venezia

Anonimo Veneziano di Enrico Maria Salerno
Interpreti: Enrico (Tony Musante) Valeria (Florinda Bolkan)
Produzione: Ultra Film – 1970

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Massimo Rosin
Massimo Rosin nato a Venezia nel 1957. Appassionato di cinema, musica, letteratura, cucina, sport (nuoto in particolare). Vive e lavora nella Serenissima.

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