Il cinema, la semplicità e il tout simplement bouleversant.

Ero ragazzino quando nel mio quartiere della periferia genovese (Genova di estremo ponente) fiorì quel bel fiore: un “cineclub”. Di nome: Marylin Monroe. I locali erano della parrocchia; gli ideatori, grandissimi appassionati di cinema. Tutti arci-mega-ultra-comunisti. Il più a destra di loro stava nel Partito, quello con la P maiuscola e anzi un po’ tutto maiuscolo: il Piccì.

Gli altri si sparpagliavano da lì in poi, in una gara a chi era “più oltre”, come diceva il professore, Stefano Satta Flores, nel film di Scola C’eravamo tanto amati: “l’intellettuale è più oltre. Egli è irraggiungibile”. Ecco, loro erano irraggiungibili.

SI cominciava con Democrazia Proletaria e poi via con l’extra-parlamentarismo sempre più spinto. E questi fior di mangiapreti se ne stavano lì a discutere con il prete per l’utilizzo dei locali. Cosa volete, è sempre andata così: Genova di Barile./Cattolica. Acqua d’Aprile./ Genova comunista,/ bocciofila, tempista. Comunque l’idea era buona, ottima. E progressista. Portare la cultura – film complessi, film d’autore – verso la gente. Servire il popolo (e il popolo eravamo noi).

_malcolm-mc-dowell-arancia-meccanica.jpg

Una delle prime sere fu deciso di proiettare il film del celebre regista Stanley Kubrick Arancia meccanica. Ma il parroco disse no. Scherziamo? Un film che esalta la violenza, anzi “l’ultra-violenza”? Va bene il compromesso storico ma non esageriamo. Invano i sacerdoti del cineclub tentarono di spiegare al parroco che non aveva capito un tubo, che quel film era tutta un’altra cosa; la storia di un ragazzo violento a cui viene imposta una cura per “guarirlo”, cioè trasformarlo in un essere incapace di compiere il male; ma una cosa del genere è assurda e innaturale, è un’ “arancia meccanica” appunto, cioè una cosa che non esiste. Insomma, il film di Kubrick (tratto da un mediocre romanzo di uno scrittore inglese, Antony Burgess) era un apologo sul concetto di libero arbitrio, e in quel senso aveva una certa paradossale vicinanza alla cultura religiosa. E via con citazioni coltissime, “ma Padre, del resto lo ha anche detto Sant’Agostino, no? Gli stessi precetti divini non gioverebbero all’uomo, se egli non avesse il libero arbitrio della propria volontà per mezzo del quale adempie questi precetti e giunge quindi ai premi promessi, Padre proprio a lei dobbiamo ricordare queste cose così evidenti? Senza parlare di San Paolo, ché allora ci sarebbe da aprire un libro che non finisce più. Inutile, al parroco di tutti questi bei discorsi filosofici non gliene importava nulla.

Aveva sentito dire (o forse aveva constatato direttamente) che in quel film c’erano molti atti di violenza, che certi ragazzi ne uscivano esaltati, insomma che era di cattivo esempio; e poi, al limite passi per la violenza, ma si vedevano belle chiare anche certe cosacce, e ci siamo capiti; donne nude, scene di sesso e persino (orrore) un ménage à trois, cioè proprio l’esaltazione e l’abisso del peccato carnale. Su di esso (il film) anatema! Quindi niente da fare. Il prete, per dirla in termini marxiani, deteneva i mezzi di produzione, cioè i locali. E quindi non poteva che vincere lui. Allora il comitato centrale del cineclub ripiegò su un altro film del medesimo celebre regista: 2001 odissea nello spazio.

Alla notizia, io e mio fratello entrammo in uno stato di estasi mistica. Avevamo visto quel film già diverse volte, lo conoscevamo a memoria e addirittura avevano appeso il manifesto dell’edizione italiana in camera. A casa dei miei genitori c’è ancora. Con un bellissimo sottotitolo: “un’epica e drammatica avventura di esplorazione dello spazio”.
1415182318_2001_a_space_odyssey_scimmia.jpg

Certo, era una scelta ambiziosa: 2001 odissea nello spazio era un film considerato difficile. Pochissimi dialoghi. Trama che taluni, come dire? Consideravano… Ecco, sì, un tantinello oscura. (In realtà la formulazione originale era più cruda, del tipo: non ci si capisce una mazza). Il film conteneva cospicui riferimenti alla filosofia di Friedrich Nietzsche, che la maggior parte di noi conosceva soprattutto per un verso di una celebre canzone di Venditti: dove Nietzsche e Marx si davano la mano “e parlavano insieme dell’ultima festa e del vestito nuovo, fatto apposta e sempre di quella ragazza che filava tutti ma proprio tutti – meno che te” (con una variante, una lectio facilior, nella stessa canzone che suonava così: “che la dava a tutti ma proprio a tutti / meno che a te”). E dalla canzone di Venditti i più svegli di noi avevano capito che, visto che Marx stava a sinistra, Nietzsche allora doveva stare per forza a destra, ecco, il senso delle parole di Venditti non poteva che essere quello lì. E insomma, tornando al film, in effetti non è che fosse una passeggiata. I cinefili più accaniti lo ritenevano un’opera sublime, anzi proprio l’opera ultima, la parola definitiva, quella a cui non poteva seguire che il silenzio. Insomma, c’era tutta questa discussione e questo dibattito attorno al film, una cosa che oggi un Fabio Fazio sintetizzerebbe così: un film mitico, un mito. Ma il pubblico? Il pubblico di periferia, del nostro quartiere, cosa ne avrebbe detto? Come l’avrebbe preso, un film così complesso?

La sera della proiezione arrivò e al cineclub c’erano tutti. C’erano tanti nostri vicini, ragazzotti abituati a scorrazzare su e giù per le strade della delegazione in moto e a ciondolare al pomeriggio sulle panchine davanti ai bar (perché dentro al bar c’era l’obbligo della consumazione e non c’erano soldi. Allora stavano lì davanti, per sentirsi parte di qualcosa, ma senza dover spendere). C’erano insegnanti e scolari ripetenti, c’erano ragazzi figli di famiglie un po’ scombinate piene di problemi, altri invece tutti ordinatini, figli della nuova middle class emergente, formatasi in seno alla delegazione (dove per middle class si intende quella con casa macchina e figli all’università – secondo una definizione della sociologia statunitense, che andava benissimo anche per la nostra realtà).

C’erano capelloni, ultras della Sampdoria (incazzatissimi per non aver potuto vedere Arancia meccanica, il cui manifesto aveva ispirato il simbolo del loro gruppo); c’erano boy scouts (con la esse, trattandosi di plurale), carrozzieri, studenti fuori corso, idraulici (specie già rara e pregiatissima allora, oggi quasi del tutto estinta, specialmente nei fine settimana). C’era un ubriacone che trascorreva tutte le sue giornate ciondolando da un bar all’altro del quartiere, vestito in giacca e cravatta, a cercare di farsi offrire un bicchiere di vino da qualcuno. E c’ero anch’io – che c’è di strano, eravamo tutti là. Il film cominciò con la famosa scena delle scimmie che vivono più o meno in pace, si contendono un ruscello facendo la gara a chi grida più forte (un po’ come i politici nei dibattiti televisivi, per capirci) ma che insomma, si fermano lì. Poi uno di loro, ingegnoso, inventa una rudimentale arma, forgiando una specie di bastone, e da quel momento è la fine. Dalle urla si passa alla violenza, e la tribù che ha le armi si accanisce sugli altri che le armi non le hanno. Finché la scimmia che ha avuto la brillante idea di costruire l’arma non la tira in alto, su su su fino a sfiorare il blu: e il bastone si trasforma nell’astronave sulle note del Bel Danubo blu, il valzer di Johann Strauss, che tutti conoscono: nanananana-nana-nana-nanananana-nana-nana… E il pubblico, contro ogni pronostico, in religioso silenzio se ne sta a guardare tutti questi minuti di film senza dialogo (perché le scimmie urlano ma non parlano, è logico). Io e mio fratello, a guardare, incantati. È tutto chiaro. Per Kubrick l’inizio della storia della civiltà coincide con la decisione di usare la violenza per risolvere i conflitti. Chiaro chiarissimo. Una volta forgiato il bastone, per passare all’astronave è solo questione di tempo. E vedi che il film in fondo è facile da capire, basta un po’ di buona volontà, guarda come seguono tutti, vedi che se alla gente dai delle cose buone, la gente ti segue e capisce? Altro che discorsi. E’ fascista chi dice il contrario! Fascista!

Poi il film continua e, bisogna pur dirlo, sarà anche la parola definitiva e ultima e insuperabile, ma in certi momenti è un po’ lentino, ecco, e il religioso silenzio comincia a trasformarsi in un leggerissimo brusio, poi un brusio più forte. Ma c’è tutto l’episodio centrale del calcolatore che si ribella e quello funziona, certo non è ritmatissimo, ma insomma fila via. Poi però a un certo punto inizia l’episodio del film detto “Giove e oltre l’infinito”, e da quel punto in poi si fa sul serio. Minuti e minuti di immagini senza una parola senza niente. Certo lì i critici cinematografici più colti e intelligenti e sofisticati si entusiasmano nel cogliere in queste scene lunghissime, estenuanti un’infinità di riferimenti colti e brillanti, una serie di sensi e di sovrasensi. “Lo sapete perché il personaggio centrale del film, l’astronauta si chiama David Bowman?”. No, perché? Perché Bowman in inglese significa arciere (grande e frenetica consultazione del dizionario: sì è vero). E l’arciere è Ulisse porca miseria, perché quando torna a Itaca imbraccia proprio l’arco per vincere al gioco con i Proci e poi per farli fuori tutti. Odissea, arciere, Ulisse. Ooooooooooh. Tutti a bocca aperta, con quel senso del dischiudersi del mistero, come davanti all’origine del mondo di Gustave Courbet, avete presente. Ooooooooooh. Invece, chissà come mai, il pubblico del nostro cineclub di periferia pareva perplesso.

Finché a un certo punto non si vede sullo schermo una vistosa macchia rossa e il brusio trova infine forma verbale compiuta nelle parole di un omone; il quale, con vocione infernale carteggiato dalle sigarette, pronuncia le parole fatidiche: ”belin c’è anche l’astronave pomodoro”. Belin fa parte del paesaggio genovese, è parola multi-uso. Fatto sta che dopo quest’orazion picciola, è a stento che si possono trattenere gli altri. Grida, insulti, fischi, gente che tira di tutto. “Non ci si capisce un cazzo, ma che cazzo di film fate, belin son due ore che ce lo meniamo e questi qui del film non dicono una parola”. Io e mio fratello ci guardiamo e sentenziamo: mamma mia che ignoranti.

Insomma, il risultato della proiezione fu un disastro. Era stata pensata per servire il popolo e invece il popolo si era servito da sé. Io sono rientrato in camera mia con il manifesto del film appeso alla parete e mi sono concentrato sulle decisive sfumature che questa nuova visione, sia pure in un ambiente non del tutto propizio, mi aveva consentito di cogliere. Ma è rimasta in me l’eco di quella frase: “belin ma in questo film non ci si capisce un cazzo”. (Brutta gente. Ignoranti. Serpi in seno alla classe operaia).

Poi il tempo è andato, gli anni sono trascorsi insieme alle stagioni che allevano bambini che inseguono aquiloni. Il manifesto del film è rimasto lì e il film di Kubrick non l’ho più rivisto e si è allontanato da me come si allontanano le cose: senza far rumore. Il duemilauno, l’anno in cui si svolge l’odissea nello spazio è arrivato davvero e io in quell’anno mi sono trasferito a Parigi, dove sto tuttora. Parigi è una magnifica città, per tante cose, e anche per andare al cinema. Perché ci sono moltissime sale, alcune moderne e molto asettiche, ma altre assai più ricche di fascino. E poi perché a Parigi i film sono quasi sempre in versione originale (sottotitolata, ovvio; altrimenti come si potrebbe accedere a certe lingue così lontane da noi?); e questo a me, provinciale trapiantato in una delle capitali del mondo, piace molto; forse proprio per un riflesso di quel provincialismo che mi porta a considerare chic il fatto di non passare attraverso il filtro del doppiaggio.

bruno-ganz-in-una-scena-di-il-cielo-sopra-berlino-25554_jpg_1003x0_crop_q85.jpg

E chiaramente, a Parigi di film da vedere ce ne sono, ce ne sarebbero moltissimi. Allora bisogna scegliere. E per scegliere ci si fa guidare un po’ dal proprio fiuto e dal proprio gusto personale, un po’ (è logico) da quel che si legge. Ad esempio dal Nouvel Observateur che parla di un film iraniano, “ Taxi Téhéran ”: un film récompensé par l’Ours d’or à Berlin. … une galerie de personnages drôles, sensibles et bouleversants. Una galleria di personaggi divertenti, sensibili e …. Bouleversants alla lettera vorrebbe dire “sconvolgenti”, ma forse è meglio, diciamo per pudore, tradurre con “toccanti”. E poi leggo altrove: un chef d’oeuvre contre l’oppression. Giusto, perché il regista (che si chiama Jafar Panahi) in passato è stato persino incarcerato per aver partecipato a manifestazioni contro il governo iraniano. E ancora: une merveille où l’intensité du regard critique n’a d’égal que l’humour ravageur et l’intelligence de la mise en scène. Ravageur, anche qui alla lettera, starebbe per “devastante”. Umorismo devastante.

Tutta la stampa del bel mondo progressista parigino è unanime: Libération, Télérama strillano all’unisono: une merveille. Du grand art. E poi sempre quel termine: bouleversant. E poi ho avuto la fortuna di visitare Teheran e l’Iran e quel paese mi interessa. A questo punto un povero disgraziato come me cosa fa? Va a vederlo, per forza. Così vado e mi becco questo film con un signore, anche simpatico devo dire, che se ne va in giro per Teheran a fare il tassista, anche se non è un tassista ma un regista (ed è proprio il regista del film, Panahi) e ha messo in piedi questa finzione per girare il film, cosa che gli è proibita dal regime. Il film è tutto così.

Una serie di personaggi, com’è che dicevano sulla stampa? Ah sì, drôles, sensibles et bouleversants, che salgono sul taxi. Attorno a me, sospiri. Coppie intellettuali, belle, con fascio di giornali sotto il braccio, in estasi. Come me ragazzino davanti a 2001, trentacinque anni fa. Io accavallo le gambe, poi cambio posizione, poi sposto il sedere da una parte all’altra della poltrona, poi avanzo un po’, poi indietreggio. Sullo schermo si alternano i personaggi, e non succede niente. Fine del film, religioso silenzio. Silenzio di stupore di fronte alla merveille. Davanti a me una signora parigina recita il Vangelo secondo Télérama: expérience de cinéma vivifiante, limpide. (…). Poi è solo questione di pazienza, una coppia si cambia la prima impressione, “alors?”, chiede lui. “Bouleversant”, risponde lei. E se ne vanno, fieri della loro intelligenza sensibile, a cenare. Certo, il regista è stato in prigione, certo, per realizzare il suo film ha dovuto fare i salti mortali. Ma forse, chi lo sa, forse non basta una buona causa a fare un buon film.

Qualche giorno dopo, si ascolta France Inter, stazione radiofonica intelligente e colta. Si parla del nuovo film di Wim Wenders. Quello del “Cielo sopra Berlino”, per capirci. Certo, alcuni suoi film erano un po’ lenti, talvolta forse c’era un eccesso di intellettualismo compiaciuto. Ma come dimenticare la magia dei dialoghi tra gli angeli, “e tu, cos’hai da raccontare?” (“Sulle colline, un vecchio leggeva l’Odissea a un bambino, e il piccolo uditore smise di socchiudere gli occhi”). E tu cos’hai da raccontare? (“Una passante, che sotto la pioggia chiuse di colpo l’ombrello, lasciandosi bagnare tutta. Ah, ecco: uno scolaro, che descriveva al suo maestro come una felce nasce dalla terra. Ha fatto stupire il maestro. Una cieca, che quando si accorse di me si mise a tastare l’orologio”). Come dimenticare tutto questo. Leggo qualche recensione: tout simplement bouleversant. Mi allarma un po’, ma vado lo stesso. In uno di quei bei cinemini da intellettuali. Attorno a me, come per il film su Teheran, sospiri. Le stesse coppie intellettuali, belle, con fascio di giornali sotto il braccio, in estasi. (Come me ragazzino davanti a 2001, trentacinque anni fa, lo avete capito).

Ed io, in mezzo a tutto questo? Accavallo le gambe, per poi cambiare posizione, e spostare il sedere da una parte all’altra della poltrona, avanzare indietreggiare avanzare (preferisco il rumore del mare, direbbe il poeta). Il film a me appare lentissimo, insopportabilmente lento. Il protagonista è uno scrittore che parla pochissimo e passa la maggiore parte del suo tempo a fare il muso per sembrare intelligente. Ottima strategia, perché in effetti apre la bocca sostanzialmente solo per dire delle solenni cazzate, del tipo delle trombonate clamorose sull’arte e l’ispirazione che un po’, dice lui, viene dalla realtà e molto dall’immaginazione (ma no! Incredibile!), e lo dice come se stesse svelando una verità inconoscibile: e tutti a fare “oooooooh”.

Esco incazzato con me stesso: lo sapevo lo sapevo lo sapevo. Lei cara, bella signora, cosa ne pensa? Tout simplement bouleversant. Oh santo cielo. Il candidato sviluppi meglio il concetto. Wenders semble vouloir traiter ici de la part ambiguë de la création : “L’art n’exploiterait-il pas la tragédie du réel ?”. Oh signora mia, non le pare una domandona troppo grossa? È tardino e siamo tutti molto stanchi. Wim Wenders vola altissimo, lo si sa.

Il fatto è che quella sera stessa, ho visto une bande d’annonce, quello che noi italiani, essendo italiani, chiamiamo con una parola inglese, trailer; cioè un filmato promozionale di un film. Il film in questione è algerino (in realtà pare sia uscito da un paio d’anni ma non so bene perché, viene promosso adesso), e il regista si chiama Merzak Allouache. Il famoso trailer mi piace, c’è un che di allucinatorio nell’esplosione del sole pomeridiano di Algeri, e insomma mi dico: devo vederlo. E così faccio, qualche giorno dopo. Ho avuto la precauzione di non leggere alcuna recensione, e sono assolutamente ben predisposto.

Come per il personaggio del celebre, e bellissimo, racconto di Hemingway, breve però è la mia vita felice. Più o meno dieci minuti. Il tempo di vedere qualche scena interminabile con sguardi scambiati senza una parola, un insistente primo piano su un ragazzaccio maleducato che mangia infilandosi in bocca pezzi enormi di pane e masticando in modo sgradevolissimo (cinema della realtà, cinema che vuole disturbare, cinema che, accidenti!, réveille les consciences). E ho capito la tiritera.

Anche in questo film succede pochissimo e quando succede qualcosina, lo si accoglie come un assetato si getta su una goccia d’acqua. Fino a quando la goccia scompare e torna la siccità assoluta. Attorno a me, i soliti sospiri. Il film per giunta è anche bello lungo o così almeno pare a me. Io fremo e scalpito su quella cavolo di poltrona. Poi il film finisce come tutto finisce. Signora, alors? Algeri, le impossibili condizioni di vita, storie tragiche, certo, c’è tutto questo, ma mi dica, lei che ne pensa, lei? Sì lo so. Non me lo dica. Tout simplement bouleversant. Non è forse così?
marilyn-monroe-icon.jpg

Io non lo so, perché non so nulla. Ma ho come l’impressione che di tutti questi bouleversements, di tanti sconvolgimenti (alla fine delle fini) non rimarrà neppure tanto. E forse resteranno solo, accatastate, tante parolone inutili, buone ad abbigliare il nulla. Tout simplement bouleversant. Magique. Une merveille. Un film qui réveille les consciences. Pagine e pagine di Libé, Télérama, e degli altri organi ufficiali dell’intelligenza progressista, piene di paroloni; e che forse hanno scordato quel che diceva qualcuno che di intelligenza progressista se ne intendeva (il nostro Bertoldo Brecht): è la semplicità, che è difficile a farsi.

E’ la semplicità, nel cinema che ha nutrito i nostri cuori e le nostre intelligenze, per me era nella gonna di Marylin che si solleva per lo spostamento d’aria, nella malinconia di Audrey Hepburn che canta Moon River con un filo di voce, alla finestra, la chitarra in mano, nelle mille scene indimenticabili che hanno fatto il cinema. Forse persino nell’arma della scimmia lanciata in aria che si trasforma in un’astronave. (O forse – così mi viene da pensare – più semplicemente sono io che non ho più in me quella sete d’assoluto che porta a idealizzare le cose, a cercare la parola ultima, definitiva?). Resto così, con i miei dubbi. In casa ho un dvd di 2001 odissea nello spazio. E ho il terrore di vederlo e di sorprendermi a dire: “”belin c’è anche l’astronave pomodoro”.

Maurizio Puppo

Article précédentL’Italicum e il futuro dei partiti.
Article suivantPiero Paladini e il ciclo di Acaya – La costruzione di un’opera.
Maurizio Puppo
Maurizio Puppo, nato a Genova nel 1965, dal 2001 vive a Parigi, dove ha due figlie. Laureato in Lettere, lavora come dirigente d’azienda e dal 2016 è stato presidente del Circolo del Partito Democratico e dell'Associazione Democratici Parigi. Ha pubblicato libri di narrativa ("Un poeta in fabbrica"), storia dello sport ("Bandiere blucerchiate", "Il grande Torino" con altri autori, etc.) e curato libri di poesia per Newton Compton, Fratelli Frilli Editori, Absolutely Free, Liberodiscrivere Edizioni. E' editorialista di questo portale dal 2013 (Le pillole di Puppo).

4 Commentaires

  1. Il cinema, la semplicità e il tout simplement bouleversant.
    Salve, ho appena letto il suo articolo per puro caso.
    Scrivo per dirle che l’ho trovato piacevole, condivisibile e divertente.
    Anche il suo cognome è divertente..e un po’ simile al mio.
    Gianni Pupparo
    (Roma)

    • Il cinema, la semplicità e il tout simplement bouleversant.
      Cortese Gianni, grazie; è sempre bello fare le cose per caso. Per puro caso. Da Puppo a Pupparo, un saluto.

  2. Il cinema, la semplicità e il tout simplement bouleversant.
    Je ne comprends pas très bien où va ce long bavardage sur le cinéma. Si c’est pour en venir à la jupe de Marilyn Monroe ou à la frange d’Audrey Hepburn, c’est pour dire quoi exactement ? Est-ce que le cinéma se réduit à la fabrication de mythes ?
    Quant à ce qui est dit en deux lignes sur « Taxi Téhéran », je ne sais pas si ces idiots de Parisiens savent seulement dire « bouleversant » et si tous les critiques sont des moutons bêlants. Je peux vous dire, sans être Parisienne, que je l’ai adoré, qu’il m’a donné du bonheur par la façon qu’il a, légère et décalée, de dénoncer une société construite sur les interdits, en délégant à l’enfance (une petite fille voilée et apparemment dans le moule) des propos on ne peut plus critiques. Et puis, il faut être quelque peu de mauvaise foi pour ne pas rendre hommage au courage du réalisateur, à son absence totale d’aigreur, à son refus de diviser le monde de façon manichéenne. J’ai pensé, par moments, à Jaques Tati…

    • Il cinema, la semplicità e il tout simplement bouleversant.
      Merci pour votre message, chère « Pozzoli ». Ce que j’ai essayé de dire (visiblement, en vain) est que « non basta una buona causa a fare un buon film ». Panahi (le réalisateur de Taxi Teheran) se bat pour une excellente cause, celle de la liberté d’expression. Et c’est justement au nom de cette liberté que je peux dire que je n’ai pas aimé son film, que j’ai trouvé ennuyeux, qui, je pense, ne laissera aucune trace. Si vous êtes aussi sensible à cette cause de la liberté d’expression, vous pourriez aussi en faire un exercice d’application pratique; évitant par exemple d’accuser les autres de « mauvaise fois » simplement parce qu’ils expriment un avis diffèrent du vôtre. Bien à vous, Maurizio Puppo

LAISSER UN COMMENTAIRE

S'il vous plaît entrez votre commentaire!
S'il vous plaît entrez votre nom ici

La modération des commentaires est activée. Votre commentaire peut prendre un certain temps avant d’apparaître.