Poesia con Gian Mario Villalta: “Vanità della mente”.

Gian Mario Villalta in “Missione Poesia”. Un autore nel quale la complessità del lavoro svolto rafforza l’attaccamento a una comune verità esistenziale in ciò che accade agli elementi messi in scena, ancorati soprattutto alla “terra” che è una terra originaria, materna e matrigna, capace di far sentire la necessità di slanci dialettali, capace di dare al poeta la cifra per costruire con uno stile coerente e limpidissimo, che scorre la varietà dei temi, nella raccolta unitaria “Vanità della mente” (Mondadori, 2011, Premio Viareggio).


Gian Mario Villalta

Gian Mario Villalta è nato a Visinale di Pasiano (PN) nel 1959. Insegna in un liceo ed è direttore artistico del festival pordenonelegge.it. Ha pubblicato i libri di poesia: Altro che storie! (Campanotto, 1988, Vose de Vose/ Voce di voci (Campanotto, 1995 e 2009), Vedere al buio (sassella, 2007), Vanità della mente (Mondadori, 2011, Premio Viareggio). Numerosi gli studi e gli interventi critici su rivista e in volume, tra cui i saggi La costanza del vocativo. Lettura della « trilogia » di Andrea Zanzotto (Guerini e Associati, 1992), Il respiro e lo sguardo. Un racconto della poesia italiana contemporanea (Rizzoli, 2005), e ha curato i volumi: Andrea Zanzotto, Scritti sulla letteratura (Mondatori, 2001) e, con Stefano Dal Bianco, Andrea Zanzotto, Le Poesie e prose scelte (Mondatori, 1999). Del 2009 è il non-fiction Padroni a casa nostra (Mondadori). I suoi libri di narrativa: Un dolore riconoscente (Transeuropa, 2000), Tuo figlio (Mondatori, 2004) e Vita della mia vita (Mondatori, 2006), Alla fine di un’infanzia felice (Mondatori, 2013).

Conosco Gian Mario Villalta attraverso la sua poesia e non personalmente. Così, come è successo per altri autori presentati in questa rubrica, infatti, anche Villalta è un autore che incontrerò al prossimo appuntamento di “Un thè con la poesia” a Bologna, il 20 maggio. La conoscenza personale certo aiuta a entrare meglio nell’opera degli autori ma, a volte, ti accorgi già dalle letture che intraprendi su certi lavori che – in alcuni casi – ti sembra di essere in totale sintonia con l’autore, quasi di essergli amico e di averlo frequentato da sempre. E’ l’immedesimazione in ciò che si sente come far parte di te, in circostanze descritte in cui ti ritrovi appieno, in contesti che ti risultano noti e quotidiani, in sentimenti che condividi che riesce a far nascere la magia dell’incontro, la familiarità con l’autore, l’ “affinità elettiva”. Capita allora che, senza difficoltà alcuna, il poeta – perché questa possibilità è data in una peculiarità tutta sua dalla poesia – ti sembra un volto amico, uno “di casa” con cui riesci a condividere pensieri e gesti, a percorrere tratti di cammino insieme, con cui ti convinci di parlare del “sentire” che si fa strada alle rinnovate letture dei testi, al comune desiderio di raccontare come si sta nel mondo, come si vivono le cose che ti succedono, come queste diventano esperienza poetica e si trasformano in quell’arte così antica e preziosa che è la poesia. Parleremo in quest’articolo di un libro importante di Villalta, l’ultimo, edito per Mondadori nel 2011: Vanità della mente vincitore, tra l’altro, del Premio Viareggio 2011.

Vanità della mente

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Vanità della mente è un lavoro molto complesso, composto di varie sezioni (ben quindici: L’invaso, Notte di San Nicolò, Kindergarten, Nel buio degli alberi, In pensiero di casa, Revoltà, Atto unico, Ritorni istriani, Regione, Il rumore che non senti ancora, Festeggiamenti per il nuovo anno, Cronaca famosa, Mia colpa, Trailer, Migrazioni) e che fa di questa sua complessità la forza per l’attaccamento a una comune verità esistenziale in quello che accade agli elementi che l’autore mette in scena nei suoi versi, ancorandoli soprattutto alla “terra” che è una terra originaria, materna e matrigna al tempo stesso capace di far sentire la necessità di slanci dialettali – lingua in cui è composta una delle sezioni centrali della raccolta: Revoltà -; capace di dare al poeta la cifra per costruire con uno stile coerente e limpidissimo, che scorre la varietà dei temi, una raccolta unitaria tanto da essere stata definita, da alcuni critici, una sorta di Canzoniere – alla moda di Saba – dove si alternano, oltre agli inediti, anche sequenze provenienti da altre raccolte che pure convivono, magari riviste, in un percorso sfumato, che sembra senza traccia, ma che ha al suo interno i canoni ben precisi di una mappa esistenziale.

Così, attraversando esperienze che non possono non essere considerate comuni e condivise dal lettore, Villalta esplora la dimensione dell’amore, i ritmi del passare del tempo riflessi nel paesaggio, la quotidianità delle piccole feste familiari, il doloroso cammino intorno al declino di una civiltà rurale e alla perdita degli affetti, giusto per individuare solo alcuni dei sentimenti che riempiono le pagine del libro, che segna uno dei suoi momenti più elevati nelle piccole prose poetiche dedicate ai cuccioli di animali, colpiti dalla crudeltà umana che li ha resi vittime del loro destino di morte, assimilando a tale destino anche quello del fratellino, così riunito in un momento di collettiva drammaticità dove la pietas, che risulta aver già preso corpo negli anni propri dell’infanzia del poeta, riemerge adesso nell’età adulta con tutto il suo carico d’impotenza consapevole e dolorosa.

Per acclimatarsi a una sì fatta atmosfera, dobbiamo però passare dalle prime due sezioni del libro che descrivono i luoghi e le ricorrenze, tra le quali prende forma La notte di San Nicolò dove a scandire l’attesa dei doni notturni sperati dai bambini è, in realtà, l’elemento del buio che ritorna prepotentemente anche in altri momenti della raccolta. Villalta, a questo proposito, aveva già evidenziato anche in altre sue precedenti raccolte di come questo elemento facesse parte integrante della sua poetica. E’ il buio, infatti, la parola che egli stesso definisce in modo affascinante come “mirabile” in quanto «[…]Se volessimo solo per un momento abbandonarci all’assaporarla, vedremo che, circondata di oscurità (la “u” e la “o”), c’è nella parola buio una luminosa “i”. Il buio è un’oscurità lucente, quindi, che irraggia i contorni o forse l’anima delle cose […]», andando quasi a ridefinire i contorni di un significato celato nella parola stessa che racconta come ci sia «[…]sostanza nelle ombre, a volte più profonda di quella evidente nella luce.» Ed è in questo buio che diventa luce, in specie per cercare elaborazioni di un lutto irrisolto, e per trovare raccordi con un padre che ritornino all’età bambina, che si fa largo la metafora della perdita dove è la luce stessa a diventare carceriera della mente: sono stato ostaggio di una luce che mi svuotava il cervello, una luce che è parte quindi integrante dell’oscurità, che rivela il vero dell’altrove, l’atrocità della morte. Morte che non è solo la fine della vita ma, che racchiude tanti altri capolinea come la fine della civiltà e della cultura rurale, degli affetti familiari e degli stili di vita che, inevitabilmente, cambiano e, in particolare, la morte della lingua originaria, quella dialettale a cui è dedicata un’intera sezione del libro: Revoltà. Qui Villalta incolpa quasi la lingua stessa, il dialetto, di essersi rivoltato contro di lui, a un certo punto, di averlo abbandonato ma, dichiara anche di ritrovarselo dentro, di sentirlo pressare con un’irruenza tale, da permettergli di reintegrarsi proprio in quell’appartenenza dell’origine, in quelle radici forti e, dice egli stesso “magiche”, che consentono di rovesciare la visione razionale del mondo contemporaneo, per riportare in primo piano quella dei valori più veri del mondo di ieri, che hanno illuminato quello stesso buio, di cui si parlava, presente nell’età infantile.

Ma, ancora, andando avanti nella lettura del libro vediamo che dall’incontro della lingua con la propria identità nasce lo spartiacque fra la memoria e il nuovo che avanza, spartiacque dal quale si sviluppa una felicità velata di angoscia dove gli ossimori sono strumento e cifra dell’incedere dei testi, che cercano una via d’uscita. Sorrisi, saluti, gesti quotidiani di dialogo formano la tensione della lingua che sembra volersi raccordare, in qualche modo, col dolore del mondo, cercare sodalizi con una natura che sembra non avere e non dare scampo. E’ un tutto da cui non si vorrebbe congedarsi – compresa la tradizione poetica che ci ha formati: da Saba a Pascoli a Zanzotto, ad esempio – ma in cui non si perde neanche il Caproni del Congedo quando, nel testo che conclude il libro, si pensa alla strada fatta, alle decisioni prese anche solo per niente, alle relazioni con gli altri viaggiatori che raccontano della propria storia quegli eventi che più li rappresentano, anche quando è già troppo tardi e resta solo, forse, il tempo del congedo, ultimo tempo rimasto, lo stesso per quella lingua madre, per il dialetto, lo stesso per dar credito a quella vanità della mente che non si cura della fine del vero.

Alcuni testi da: “Vanità della mente”

L’invaso

Odore di cenere bagnata e terra

fino a quando, entrando, ci assale

il dolce chimico dei miasmi.

Un posto ripudiato, come il resto:

alle tre è buio fuori, colore asfalto

gli alberi, il cielo, le mani unte e gelate

mostrano in alto, dove la copertura

è divelta, appiccicate alle travi

migliaia di api unte e gelate.

In sacchi neri, squarciati, abiti,

resti di scatolame, vetri. Cosa cerchiamo qui?

Con bastoni ammucchiamo aghi

di pino, marce schegge di rami

per camminare fino al dirupo,

prima di andarcene.

***

Rimane l’unto addosso, dappertutto,

con la nebbia che sale dagli impianti.

Dovevamo fermarci una notte per ritornare,

come se ci fosse qualche cosa da proteggere,

qualcuno che nel buio chiede dov’è.

Questa mattina ho scoperto una corona

di punture di spillo, sulla coscia, una lieve morsicatura

rosa e grande come una moneta.

***

Si poteva fare strage di animali selvatici

in quei giorni, mentre l’acqua saliva.

Ma le creature più lente, le bestiole della zolla

e degli alberi, restavano con le case

e le masserizie abbandonate dov’erano.

Anche Guerrino e la Bianca – si dice, aggiungendo

che è una leggenda – erano creature lente,

erano arredamento che non ci poteva stare

in un’altra casa, arnesi inutili altrove.

***

Entrò dalla penombra

con un vitello in braccio,

grondanti, anche l’animale, e più pallidi

dei muri, che per un istante abbiamo pensato

fosse venuto su dalla vecchia strada interrotta

che scende, opalescente, sotto l’acqua.

Ma eravamo noi i clandestini, nella stalla,

entrati per cercare riparo

e poi assuefatti al tepore, alla luce gialla dei neon.

Nella cucina fredda, dopo, non potendo rifiutare l’offerta

di un vino da poco, parlavamo troppo forte,

per non sentire le voci che sussurravano nella pioggia.

*****

Fratellino

Era necessario tornare per riconoscerlo. Toccava a me. Per tutta la strada in auto e poi a piedi, dal parcheggio fino alle sale dell’obitorio, sono stato ostaggio di una luce che mi svuotava il cervello.

Poi qualcosa che non era sgomento e non era sollievo. Riconoscere chi? Non era lui, non era lì, non era altrove.

*****

Visita

Le mani strette sopra la tavola

fa silenzio la testa sul bicchiere, aspettando,

ma non qualcuno, non me.

Io ho sulle spalle ancora le montagne,

le alte montagne di neve risplendono

dentro la stanza chiamano luce, luce e lui

attento a non versare,

sbaglia il mio nome dolcemente,

parla con mio fratello morto.

Gli accarezzo la testa, li lascio stare

tranquilli mentre continua a parlare.

Porto il pane al suo posto, il piatto nel lavello,

ripiego il giornale vecchio.

Dovrebbe il tempo adesso aprirsi

per le montagne così presenti,

sentisse anche lui chiamare la luce

delle montagne lontane

e i capelli risplendere freschi,

parlasse anche a me, ma non quello di adesso,

a me quando ero un bambino

pieno di luce sulle sue spalle.

*****

Natura

La forza che spacca il tempo dentro il legno

e trascina le pietre nel mese di marzo

a valle dei torrenti, l’accanimento della materia

alla rovina, a rinascere, lo sforzo della mente

per figurarsi la pioggia innumerevole,

per arginare i silenzi, dove cede

a un limite breve, a un’ombra, dove diventa

nostra, e subito felicità, subito angoscia?

Cinzia Demi

Bologna, 10 maggio 2015

*****

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“MISSIONE POESIE” è una rubrica culturale, curata da Cinzia Demi, per il nostro sito Altritaliani. QUI il link: https://altritaliani.net/category/libri-e-letteratura/missione-poesia/  Chiunque volesse intervenire con domande, apprezzamenti, curiosità può farlo tramite il sito

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Cinzia Demi
Cinzia Demi (Piombino - LI), lavora e vive a Bologna, dove ha conseguito la Laurea Magistrale in Italianistica. E’ operatrice culturale, poeta, scrittrice e saggista. Dirige insieme a Giancarlo Pontiggia la Collana di poesia under 40 Kleide per le Edizioni Minerva (Bologna). Cura per Altritaliani la rubrica “Missione poesia”. Tra le pubblicazioni: Incontriamoci all’Inferno. Parodia di fatti e personaggi della Divina Commedia di Dante Alighieri (Pendragon, 2007); Il tratto che ci unisce (Prova d’Autore, 2009); Incontri e Incantamenti (Raffaelli, 2012); Ero Maddalena e Maria e Gabriele. L’accoglienza delle madri (Puntoacapo , 2013 e 2015); Nel nome del mare (Carteggi Letterari, 2017). Ha curato diverse antologie, tra cui “Ritratti di Poeta” con oltre ottanta articoli di saggistica sulla poesia contemporanea (Puntooacapo, 2019). Suoi testi sono stati tradotti in inglese, rumeno, francese. E’ caporedattore della Rivista Trimestale Menabò (Terra d’Ulivi Edizioni). Tra gli artisti con cui ha lavorato figurano: Raoul Grassilli, Ivano Marescotti, Diego Bragonzi Bignami, Daniele Marchesini. E’ curatrice di eventi culturali, il più noto è “Un thè con la poesia”, ciclo di incontri con autori di poesia contemporanea, presso il Grand Hotel Majestic di Bologna.

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