Poesia con Silvia Bre: “La fine di quest’arte”

Silvia Bre è considerata una delle voci più interessanti e originali della nuova poesia italiana. Nell’arco di un ventennio di carriera vanta pubblicazioni di alto valore poetico e editoriale. Poesia di misura questa di Sivia Bre, di distanze e vuoti che si colmano nell’essenza stessa che si coglie tra gli spaccati dei versi limati da una dolce curva ritmica. Pensiamo davvero che questo nuovo libro “La fine di quest’arte” non faticherà a farsi apprezzare.

Silvia Bre è nata a Bergamo nel 1953. Ha pubblicato: “I riposi” (Rotundo, 1990); “Le barricate misteriose” (Einaudi, 2001) con cui ha vinto il premio Montale; « Sempre perdendosi » (Edizioni Nottetempo, 2006), portato con successo a teatro da Alfonso Benadduce; “Marmo” (Einaudi, 2007) vincitore, tra gli altri, del Premio Viareggio; “La fine di quest’arte” (Einaudi, aprile 2015). Ha tradotto, tra l’altro, “Il Canzoniere” di Louise Labé (Mondatori 2000) e “Centoquattro poesie di Emily Dickinson” (Einaudi 2011), una prima antologia sulla poetessa inglese alla quale ha fatto seguito una seconda nell’ottobre del 2013, “Uno zero più ampio” (Einaudi). Nel novembre dello stesso anno è uscita la sua traduzione de “Il giardino di Vita” Sackville-West (edizioni Elliot).

Silvia Bre

Di se stessa dice: «Scrivo poesie che si accumulano: quando mi accorgo che si riguardano, quando mi viene l’esigenza di considerarle nel loro insieme, le raccolgo in un ordine».

Non conosco personalmente Silvia Bre. A differenza dei tanti autori che ho proposto e presentato in questa rubrica, infatti, quest’autrice la conosco solo attraverso la lettura dei suoi testi. Devo dire che l’ultimo libro in particolare, quello di cui parleremo in quest’articolo, mi è sembrato un lavoro molto interessante del quale, tra l’altro, darò un’interpretazione tutta mia, non avendo ancora avuto modo di confrontarmi con l’autrice stessa che sarà a Bologna, ospite dell’appuntamento mensile “Un thè con la poesia” il prossimo 22 aprile. Quindi se è pur vero che la poesia presta il fianco volentieri a tante versioni e commenti anche discordanti tra loro, il mio è forse il primo che compare su questo lavoro – che è in uscita per la metà di aprile – e che magari si scosterà da quelli che seguiranno e, forse, dal pensiero stesso dell’autrice.

Intanto ve lo propongo sperando di centrare, se non tutto, almeno qualcosa della poetica della Bre che, come si vede dalla sua biografia, vanta pubblicazioni di alto valore poetico e editoriale.

La fine di quest’arte

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Già il titolo di quest’opera mi ha suscitato una strana inquietudine. Non saprei dire con esatta precisione a quale arte si riferisca Silvia Bre quando propone un titolo come “La fine di quest’arte” ma, trattandosi di un lavoro in poesia, credo di poter essere giustificata se penso che a questa stessa arte essa possa fare riferimento. Dunque: è la poesia l’arte in procinto di vedere la sua fine? O è, invece, un’altra arte, un qualcosa che ha a che vedere con la vita stessa, il suo mistero e il mistero che la lega in qualche modo all’arte in generale? Molti spunti di riflessione sono riscontrabili nel percorso che ci presenta l’autrice in questo nuovo libro, e molti itinerari diversi certamente sarebbero percorribili. Proverò, inoltrandomi nelle varie sezioni, a cercare di avvicinarmi al senso di questo lavoro nel quale, già da una prima lettura, ho riscontrato la possibilità di tentare di dare risposte a molte domande aperte, a molte questioni anche primordiali che da sempre legano la poesia con la vita, rendendola sua compagna inequivocabile.

Nella prima sezione del libro emerge su tutte una costante necessità, insita nella ricerca di rapportarsi con il mondo vegetale e animale, come se fosse più utile, ai fini di una riscoperta dell’animo umano il riuscire a confrontarsi con quanto offre la natura, rispetto all’incontro con i propri simili. L’interiorità dell’autrice sembra così ripiegata in una posizione di ascolto verso la natura stessa – dicevamo – come se da questa dovessero venire le risposte per capire i passaggi necessari e vitali degli stati d’animo, del trascorrere del tempo, della dimensione stessa dello stare al mondo. E nello sforzo è come se il poeta si perdesse per ritrovarsi a seguire una verità che sembra non valere ma, che non può far a meno di seguire.

Anima, come ti fuma il tempo

tutta rapita dentro

una miseria più grande della mia

a tanto si riduce l’infinito

tu sapevi distinguere

i significati

ora servi a versare

questa verità del nulla

e io sono il tuo cane che t’insegue

Nella seconda e breve sezione il discorso della poetessa si concentra ancora di più all’interno di se stessa laddove, nella dimensione corporale e nello scavo interiore le domande si fanno più profonde, più necessarie: è la fine di un’arte quella di non trovare un modo che possa conciliare il proprio essere con il vivere dentro e con il mondo? – Ti scende dalla bocca come lava/ti fissa come gesso nel tuo nome/finché si ferma il cuore/e s’allontana – si legge quasi come un exergo all’inizio del capitolo, come una spiegazione generale sulla vita. E ancora più forte si sente la voglia di capire, specie in relazione al pensiero che diventa mezzo per raggiungere – forse anche solo in sogno – quel tanto desiderato contatto del corpo con la terra:

Ma pensare, pensare è affrancarsi

mentre che sogna addormentata nella terra:

in te che mi riguardi e sei

quello che sono

distendo questo mio corpo fedele

nato per raccontare della luna

quando va via da sé

quando senza più noi va da nessuno

La terza sezione prende spunto dalle dinamiche dei gravi incidenti per i quali – nell’arco di tempo che va dal 5 agosto al 13 ottobre 2010 – rimasero sepolti sotto le miniere di San José di Copiapò in Cile, ben trentatré minatori e le domande passano a interrogare il senso della morte e della vita stessa: qui la fine dell’arte è riferita alla impossibilità di dare un senso a certi accadimenti?

Come è duro salvarti

rinchiuso nella stanza celeste a girare col vento

il buio qui consuma

nel suo nero totale ci riporta

vicini al grande giusto del nulla

ma edifico con te quest’atmosfera d’ombra

un aprirsi ogni volta più cieco

mio il ritmo

tuo il vuoto

tu che mi tieni in vita

io che ti tengo

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Ma, è nella quarta sezione che trova ragione di esistere l’itinerario nella ricerca di senso dell’autrice, itinerario che diventa corporeo, che ripropone il mito di Narciso in una sequenza che si sfoga nella bellezza delle cose, nell’acqua che le guarda e le contiene, in cui le stesse si specchiano. E, forse, è proprio qui, in questo inesauribile tentativo di tuffarsi per abbracciarsi, nel tentativo di amare solo la propria persona che la poesia può perdere il suo contatto con la vita, ripiegandosi su se stessa, non concedendo ne concedendosi nulla, coprendosi col velo dell’indifferenza, lasciando il poeta solo, a rimuginare sui possibili errori.

La poca la povera cosa

si mette davanti, s’imposa

come una donna nascosta

in un velo da sposa.

E io maledetta che ho scelto

la sua parte, quel buio senza ritegno

in cui cadere

la fine di quest’arte.

Dunque, se l’arte come essenza del reale, può trovare la sua fine fuggendo da se stessa, da tutto ciò che resta, quale può essere il risultato? Come confrontarsi col reale? Meglio fuggire da tutto? E il poeta ancora e ancora guarda all’arte, affronta i cammini più impervi cercando di confrontarsi con la sorella scultura dalla quale prende, in parte, spunti ulteriori di riflessione: ecco lo spazio da assecondare/da distrarre con luoghi irresistibili/e noi, le sirene… dice il poeta e pensa, nel capitolo finale, a Francesco Borromini col quale si relaziona dopo un confronto con il peso che può avere, comunque, l’arte dentro chi la contiene.

io amo chi siede

con accanto la sua cosa muta

e quando va a dormire

la contiene

come sapesse dove riposa tutto il peso

tutti questi passaggi della mente

che si spartiscono un’accensione

chissà quale fiammata

senza cui vivere è glaciale

******

Ecco la notte, ciò che ti oltrepassa

e ti lascia dove non sei

dentro un altro dominio

dentro un altro.

Solo un gallo ancora muto che non vedi

è più che mai il suo canto

nell’aperto di un’idea, in un’alba

che viene e viene tanto che ti svegli.

Cinzia Demi

Bologna, 20 aprile 2015

In ascolto

Inediti d’autore: Silvia Bre per Rai letteratura

Silvia Bre legge due poesie inedite per Rai letteratura:

http://www.letteratura.rai.it/articoli/inediti-dautore-silvia-bre-per-rai-letteratura/16956/default.aspx

***

P.S.:
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“MISSIONE POESIE” è una rubrica culturale, curata da Cinzia Demi, per il nostro sito Altritaliani. QUI il link. Chiunque volesse intervenire con domande, apprezzamenti, curiosità può farlo tramite il sito cliccando sotto su “rispondere all’articolo” o scrivendo direttamente alla curatrice stessa all’indirizzo di posta elettronica: cinzia.demi@fastwebnet.it

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Cinzia Demi
Cinzia Demi (Piombino - LI), lavora e vive a Bologna, dove ha conseguito la Laurea Magistrale in Italianistica. E’ operatrice culturale, poeta, scrittrice e saggista. Dirige insieme a Giancarlo Pontiggia la Collana di poesia under 40 Kleide per le Edizioni Minerva (Bologna). Cura per Altritaliani la rubrica “Missione poesia”. Tra le pubblicazioni: Incontriamoci all’Inferno. Parodia di fatti e personaggi della Divina Commedia di Dante Alighieri (Pendragon, 2007); Il tratto che ci unisce (Prova d’Autore, 2009); Incontri e Incantamenti (Raffaelli, 2012); Ero Maddalena e Maria e Gabriele. L’accoglienza delle madri (Puntoacapo , 2013 e 2015); Nel nome del mare (Carteggi Letterari, 2017). Ha curato diverse antologie, tra cui “Ritratti di Poeta” con oltre ottanta articoli di saggistica sulla poesia contemporanea (Puntooacapo, 2019). Suoi testi sono stati tradotti in inglese, rumeno, francese. E’ caporedattore della Rivista Trimestale Menabò (Terra d’Ulivi Edizioni). Tra gli artisti con cui ha lavorato figurano: Raoul Grassilli, Ivano Marescotti, Diego Bragonzi Bignami, Daniele Marchesini. E’ curatrice di eventi culturali, il più noto è “Un thè con la poesia”, ciclo di incontri con autori di poesia contemporanea, presso il Grand Hotel Majestic di Bologna.

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