Hungry hearts: Quando l’abuso d’amore può essere fatale

Saverio Costanzo ci regala con questo suo primo film “americano” una toccante opera in super 16 che sembra recuperare le atmosfere del cinema anni 70. Una prova intelligente ed artistica per parlare di un amore talmente grande che puo’ diventare ingestibile. Da non perdere!


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Certe volte le storie d’amore possono diventare un dramma, una ossessione. Le cose belle possono rapidamente colorarsi di nero, come un temporale che arriva dopo uno splendido tramonto.

Il film racconta una storia d’amore nata quasi per scherzo. Due trentenni, lui americano e lei italiana, rimangono chiusi in una claustrofobica toilette di un qualsiasi ristorante cinese di New York. Una gastroenterite non è nulla in confronto alla sorpresa di incontrare una piacevole persona in una situazione grottesca. Talvolta certe situazioni sono talmente surreali che pensiamo che nemmeno nei film possano succedere. Invece la vita offre proprio queste piacevoli soprese talvolta assurde.

Da questo piacevole intermezzo, ben studiato e filmato, nasce una storia passionale d’amore tra i due personaggi principali. La loro vita è quella d una coppia mista che vive e si gode la pienezza dei loro trent’anni. Tanto erotismo, molta voglia di spensieratezza e di divertirsi. Ma come spesso accade, la vita è l’altalena che da molto in alto può rapidamente farci ricadere in basso.

In questo caso è una gravidanza, caduta improvvisamente su una relazione non ancora abbastanza matura, che sconvolge la quiete della tarda adolescenza di questa giovane coppia. Una gravidanza che diventa un lungo calvario, un incubatore di ansie. Un equilibrio ancora fragile che si spezza. La giovane Mina trasforma la sua gravidanza in un incubo, diventando completamente ossessionata da qualsiasi cosa non naturale che possa nuocere al bambino. Arriva addirittura a pensare che il bambino sia un Indaco, un bambino con poteri soprannaturali e una sorta di predestinato.

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Questa crisi che resta circoscritta alla giovane donna durante la gravidanza affligge completamente la coppia in seguito al parto. Mina rifiuta ogni consiglio dei medici o del marito, gestisce a modo suo i primi mesi di vita del figlio secondo delle teorie pseudo-ecologiste che nessuna scienza ha comprovato. Questo atteggiamento provoca gravi danni alla crescita del figlio, che dopo sei mesi è notevolmente sottopeso e mostra alcuni disturbi di salute. Il marito purtroppo è impotente di fronte a questa drammatica situazione, e reagisce a modo suo. Dapprima reagisce in maniera violenta alle azioni della moglie e poi, impotente e senza sperimentare un sano dialogo, decide di agire di nascosto e nutrire il bimbo in una chiesa durante le pause pranzo.

Questa scia di spaventose menzogne e di forti incomprensioni tra i due giovani volge rapidamente al peggio. Jude, disperato e aggrappato ad una mamma con la quale non è mai stato molto in sintonia, si rivolge ad un assistente sociale che affida il bambino alla nonna (che vive in campagna) con una pratica ai limiti della legalità. E’ il colpo di grazia per Mina: la sua vita non ha più senso senza il suo piccolo bimbo. Decide quindi di andare a riprenderlo dalla nonna e di ritornare insieme a lui nella casa a New York. A questo punto la tragedia è inevitabile: la nonna decide di eliminare Mina pur di salvaguardare il futuro del piccolo nipote.

Il film si conclude con il piccolo cresciuto di qualche mese che passeggia con il padre Jude sul lungomare dove i genitori si erano sposati. Il tramonto filmato con la super 16 è una perla che Costanzo ci regala con un ottimo sottofondo musicale, tristemente speranzoso.

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Hungry Hearts è davvero un inno all’amore, talmente grande da poter diventare ingestibile, tormentato, malato. Alcune scene, come quella in cui Jude canta Tu si’ na cosa grande di Domenico Modugno, sono molto, davvero molto ben girate e trasmettono una profonda gioia di vivere a fondo ogni storia d’amore. Una Alba Rohrwacher (Mina) che recita benissimo un ruolo non facile, con compostezza nei gesti e negli sguardi, proponendo una delicata gestualità che la rende di una bellezza assordante. Un fantastico Adam Driver (Jude), una via di mezzo tra il giovane hypster di buona famiglia e lo sbadato ma brillante informatico, con un sorriso che basta più di ogni parola. Brava anche la mamma di Jude (Roberta Maxwell), che recita bene il ruolo di una nonna dapprima apprensiva per le sorti del figlio, e poi ossessionata dalla salvaguardia del nipote.

Un film che ci rivela un ottimo regista emergente, un Saverio Costanzo alla sua quarta opera e che per la prima volta si trova a lavorare in un ambiente internazionale. Il film è girato in super 16 perché il regista ha voluto che la storia fosse senza tempo, in una New York che può essere sia quella di oggi che quella dei ruggenti anni 70. Costanzo da prova di intelligenza artistica e si intuisce che ha nelle corde la capacità per offrirci prossimamente un capolavoro. Aspettiamo impazienti la sua prossima opera, coscienti che potrebbe davvero regalarci delle belle sorprese.

Fabrizio Botta

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Fabrizio Botta
Fabrizio Botta, Piemontese d'origine e Francese d'adozione, si e' stabilito nella "Ville Lumière" dopo aver ottenuto un Dottorato all'Université Pierre et Marie Curie. Dopo aver lavorato per 10 anni come ricercatore nel campo ambientale, da qualche anno si occupa di valutazione del rischio all'Istituto Superiore di Sanità Francese. Appassionato di viaggi, di geopolitica e di fotografia (https://www.instagram.com/_fabrizio_botta_photographer/), dal 2015 collabora con Altritaliani per la sezione cinema.

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