Diario di un imboscato, di Attilio Frescura

1914-2014. Raccontare la Grande Guerra: La voce dello scrittore Attilio Frescura. Ufficiale della Territoriale al fronte, decorato di medaglia d’argento e di bronzo al valor militare, raccolse i suoi ricordi e commenti sulla Grande Guerra nel “Diario di un imboscato”, uno dei pochi testi privi di retorica pubblicati subito dopo la Grande Guerra. E’ il libro della demistificazione della guerra che “è inutile, non bella, anche se talvolta necessaria”; conobbe un meritato successo. Presentazione di Gianluca Cinelli con ulteriori indicazioni bibliografiche.

Opera segnata da una storia editoriale burrascosa, uscita nel 1919, subito esaurita e attaccata per i suoi commenti espliciti e sarcastici nei confronti di militari, politici, giornalisti e figure influenti dell’epoca, ristampata in quattro successive edizioni fino al 1930, con tagli anche vistosi. Nel 1930 Frescura scrive nella prefazione della quarta edizione che il libro ebbe un “torto iniziale: uscire nel 1919, quando si dibatteva furibonda la campagna sovversiva contro la guerra vittoriosa” (p. 12).

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Riletto, meditato a distanza, il libro, sfrondato ma non riscritto, meritò nel 1930 un’apologia che per Frescura doveva iniziare con il precisare il punto di vista da cui era stata osservata la guerra: “è il libro di un combattente mediocre, di un uomo che fu più piccolo degli avvenimenti” (p. 14), uno che non canta le gesta eroiche, che non espone tesi, che non vuole glorificare questo o quel generale, questo o quel corpo militare. L’ironia è quindi la prima caratteristica stilistica del libro, un’ironia che talvolta volge al sarcasmo e talaltra alleggerisce il tono fino alla frivolezza – che Rigoni Stern, introducendo la nuova edizione Mursia del 1981, trovava a volte perfino fastidiosa (p. 6) – e alla giocosità, ma che non ha mai come fine il comico. Della guerra Frescura non vuole ridere perché “la guerra non è bella, anche quando è necessaria” (p. 14).

Così l’ironia è anzitutto rivolta sull’autore stesso, che si definisce non come un eroe alla D’Annunzio, bensì come un “imboscato”, del quale fornisce in epigrafe la definizione: “Le gradazioni dell’‘imboscato’ sono infinite. Il combattente ha sempre qualcuno che è ‘imboscato’ rispetto a sé, ed a sua volta è imboscato rispetto a qualche altro. La gradazione va dal soldato di pattuglia al ‘comandato al Ministero della Guerra, in Roma’, dove non arrivano né i cannoni, né la flotta, né gli aeroplani” (p. 17). D’altra parte Frescura è un ufficiale e, ironia a parte, non è insensibile al fascino dell’eroismo, che nel suo diario si manifesta in due modi opposti: da un lato la venerazione per Gabriele D’Annunzio, che l’autore incontrò due volte nel corso della guerra; dall’altro l’ammirazione per i fanti che sul Carso Frescura vide andare all’attacco più volte, disperatamente e coraggiosamente.

All’opposto, nel diario s’incontra un’avversione polemica e sarcastica nei confronti dei giornalisti, con particolare acredine verso Fraccaroli e Barzini, i quali secondo Frescura tradirono costantemente i soldati combattenti attraverso una rappresentazione falsa e propagandistica della guerra. Questa, infatti, non fu affatto la “bella” guerra dei gesti plateali: all’eroismo ottocentesco aveva sostituito (come scrisse nel 1920 un altro acuto testimone del conflitto, Ernst Jünger) l’eroismo oscuro del fante anonimo, che ogni giorno non si misura con il nemico, spesso invisibile, ma con la paura. Così il diario di Frescura parla di diserzioni, autolesionismo, dell’avversione dei contadini richiamati, padri di famiglia, per ogni retorica della bella morte. Ciò, accanto alle polemiche nei confronti dei giornalisti e dei generali, fece di questo libro un testo scomodo e scandaloso quando uscì nel 1919. Il diario di un capitano della Territoriale che raccontava una guerra crudele, condotta dai comandi con boria e inettitudine, subita dai soldati con rassegnazione e pazienza, fino a Caporetto, su cui Frescura finisce per allinearsi con il giudizio di Malaparte in difesa del fante lacero e abbandonato a se stesso, accusato di viltà, quando invece fu proprio sulle spalle dei soldati semplici (finalmente comandati con responsabile capacità dopo la sostituzione di Cadorna con Diaz) che la rotta fu arginata e arrestata.

Il diario, come spesso accade, è per Frescura uno strumento per osservare e decantare una realtà che si sottrae alle attese. La prima volta che l’autore si avvicina al luogo della battaglia, nota con stupore che questa perde i propri connotati. Piuttosto essa ha la forma di un esteso disordine, di una sequenza frammentaria di scene di violenza e di sofferenza, per esempio nell’arrivo dei feriti, o di pericoli improvvisi come le esplosioni delle cannonate. Così scrive Frescura che “questo può avvenire: di capitare nel mezzo di una battaglia e di non vederla” (p. 32). Quindi, “dov’è la battaglia? In nessun luogo e ovunque. Vasta, immensa, a destra, a sinistra, avanti, indietro. Non si vede. Non si comprende. Afferra, ma non si può afferrare…” (p. 35).

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Il diario è così lo strumento capace di cogliere questa nuova realtà della battaglia moderna, che si manifesta nella sua tremenda realtà solo nel 1916, quando Frescura fu trasferito sul Carso, dove “appare la maschera tragica della guerra” (p. 57). Su questo fronte, nel 1916-1917, Frescura assisté alla brutalità e alle contraddizioni sorprendenti del conflitto, in cui la furia omicida si mescolava con la solidarietà, dove due soldati nemici, stesi l’uno accanto all’altro, feriti, in ospedale, potevano chiamarsi “fratelli” (pp. 79-80), dove si scopre che la guerra è una “mostruosa collera” (p. 328) che tutto distrugge e corrompe. Emblematico è l’episodio del bambino guerriero, un ragazzino di dodici anni che si è aggregato alle truppe italiane, e che a contatto con i soldati ha imparato a bere, a bestemmiare, ad essere violento e rozzo (p. 126). La guerra è inutile, non bella (p. 211), anche se talvolta necessaria.

Lo stesso Frescura, al termine del diario, riconosce che la guerra lo ha corrotto: “andrò incontro alla vita ormai vecchio, irrimediabilmente. Perché ho troppo sofferto la guerra, anche se la mia età mi ha dato la scusa di combatterla poco” (p. 332). Sembra di leggere una pagina di Niente di nuovo sul fronte occidentale di Remarque, benché non aleggi sul diario di Frescura la stessa disperazione che conclude il romanzo del tedesco. Anzi, Frescura chiude il diario con una nota di ottimismo: “non dispero dell’umanità” (p. 335), anche se si tratta di quella stessa umanità che il 18 maggio 1917 gli era apparsa “forte e stupida come il bue” (p. 211).

ANTOLOGIA

Altipiano d’Asiago, 21-22 maggio 1916

21 maggio

Questa notte furono inviate ancora altre compagnie della brigata Alessandria. Ma a che giovano, in un fronte così esteso, in un tormento di fuoco, queste povere truppe che arrivano a spizzico?

[…]

Ma potranno resistere queste truppe già decimate ed abbrutite dallo spaventoso bombardamento nemico? Sono truppe che non mangiano, non dormono e combattono da sette giorni, con il povero aiuto di poche truppe scaricate a spizzico dagli autocarri!

[…]

Ore 12. Una granata è scoppiata nel cimitero. I vecchi morti sono stati scomposti. Un teschio è volato e nel cadere si è conficcato come un berretto frigio su una croce. È di sghimbescio. Sembra che la croce si sia messo quel nuovo copricapo funebre per sghignazzare un poco.

[…]

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22 maggio

Questa notte ho vissuto tutta una vita. La realtà è l’incubo nel sogno.

Abbiamo svegliato nel sonno un battaglione di bersaglieri ciclisti e lo abbiamo avviato verso il suo destino. Era tragico quel comandante di battaglione che, sulla carta illuminata da un mozzicone di candela, si faceva chiarire le posizioni, verso cui andava a morire il suo battaglione.

[…]

Ci addentriamo nel bosco.

La distesa della carne dolorante è infinita. Tutti sono assopiti, istupiditi dalla battaglia. Qualcuno geme, senza requie, senza ira, senza urla.

[…]

E si avanza verso di noi un tragico uomo. La fasciatura, che gli si è scomposta, gli forma sulla testa un bizzarro turbante bianco e vermiglio. Cammina eretto, come un automa grottesco.

[…]

Ha le cervella che gli escono dalla fronte spaccata, raggrumate di sangue. Maschera orribile. Non lo dimenticherò più. Egli trema tutto. Ha lo sguardo che non vede. O vede cose spaventose.

[…]

Ore 7. Torniamo verso Asiago, prima che il sole e gli «shrapnels» ci salutino.

E la tragica maschera della guerra ancora mi dilata nell’anima i suoi cavi occhi rotondi.

Gli abitanti ancora fuggono, quelli che ancora si erano attardati, i più tenaci alle loro case ed alle loro cose.

Ma il nemico guadagna terreno, ma la morte li incalza.

Poveri carri, su cui tutto è affastellato e, sopra tutto, in berlina, le donne che piangono e i bambini che dormono. E un vecchio uomo curvo spinge il carretto che cigola.

Gli autocarri seguono e incrociano. Il carro è sbalzato, rovesciato, messo da parte. I buoi, vinti, ansano. L’uomo grida inebetito: «Neanche fuggire, adunque, si può?» (pp. 60-62).

Autolesionismo

1 maggio 1917

Il tribunale di guerra ha recentemente condannato a cinque anni di reclusione militare un soldato che è andato per le spicce: si è forato senz’altro il timpano dell’orecchio destro con un chiodo di ferro da cavallo; ed a venti anni ha condannato un altro che si è spalmato in un occhio la secrezione blenorragica di un compagno. È stato scoperto perché, esaminato, è stato trovato immune da ogni malattia venerea. Nel lavargli l’occhio, per medicarlo, il globulo si è svuotato e la cornea si è distaccata a causa della terribile azione caustica prodotta dalla grande quantità di secrezione blenorragica da lui replicatamente spalmata sull’occhio.

Par di vederli, questi due amici, intenti alla fraterna bisogna…

L’individuo, cieco, condannato a venti anni di reclusione, era raggiante di felicità, perché si era, comunque, ed a tale prezzo, sottratto allo spasimo della trincea.

Ma non basta: «…le bronchiti sono procurate con protratte inalazioni di fumo bruciando paglia, fieno, stracci…».

E ancora: «…gli ascessi vengono specialmente prodotti con iniezioni sottocutanee di benzina, petrolio e perfino di materie luride»…

[…]

La pratica è così mostruosamente ripugnante che potrebbe sembrare inverosimile. Ma il tribunale di guerra ha recentemente condannato a quindici anni di reclusione militare un soldato che si era iniettato al ginocchio un liquido in cui era disciolta materia fecale. All’apertura dell’ascesso l’odore delle feci palesò la frode.

[…]

In uno stesso giorno, otto sono stati condannati per infermità procurate; fra questi un soldato che «si era fatto una pennellazione con tintura di iodio sulle regione anteriore del ginocchio destro; quindi a mezzo di un sacchetto ripieno di sabbia marina si era dato piccoli e ripetuti colpi sulla parte allo scopo di procurare un gonfiore, con vera infiltrazione e ispessimento della cute, sì da assumere le apparenze più o meno notevoli di una sinovite, che può trarre in inganno l’esaminatore, mancando ogni traccia di contusione».

Ancora: è stato condannato a venti anni di reclusione militare […] un soldato che, di vedetta oltre Oppacchiasella, si era esploso un colpo di fucile alla mano sinistra. È questo il metodo a cui ricorrono per la più parte i soldati, nella disperazione a cui sono ridotti.

[…]

Le abbruciacchiature che si riscontrano nella mano, a causa della vicinanza del colpo, svelano al primo esame la dolosità della ferita. E i soldati, allora, ricorrono a questo espediente: mettono, fra la bocca del fucile e il palmo della mano, una pagnotta e anche due, oppure una scatoletta di carne in conserva. Ci si può ricamare un peggiorativo malinconico del gioco di parole: nulla conserva la carne come una scatoletta di carne in conserva…

[…]

Si sono scoperti dei soldati che si sono mozzata una mano con un colpo di vanghetta, stritolata una mano o un piede con un grosso sasso. Condannati costoro, gli altri hanno perfezionato il sistema e procedono all’orrenda mutilazione al momento che avviene lo scoppio vicino di un proiettile nemico. Allora essi urlano alzando il loro moncherino insanguinato, come se li avesse colpiti un frammento della granata esplosa.

[…]

La legge vigila, scruta, colpisce: il soldato la elude con metodi sempre nuovi sottili ingegnosi ed eroici; è una sorda lotta per l’esistenza fra chi vuol costringere l’uomo a morire e l’uomo che si mutila per non morire (pp. 196-198).

Gianluca Cinelli

BIBLIOGRAFIA

Opera di riferimento

Attilio Frescura, Diario di un imboscato, Milano, Mursia, 1981 (I ed., Vicenza, 1919)

Bibliografia generale

– Mario Isnenghi, Il mito della Grande Guerra, Bologna, Il Mulino, 1970

– Mario Isnenghi, I vinti di Caporetto, Padova, Marsilio, 1967

– Curzio Malaparte, La rivolta dei santi maledetti, in L’Europa vivente e altri saggi politici (1921-1931), Firenze, Vallecchi, 1961, pp. 7-136

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LINK DA NON PERDERE:

 Letteratura italiana. 1914-2014 Raccontare la Grande Guerra: la voce degli scrittori. Articolo introduttivo a firma di Giovanni Capecchi e Fulvio Senardi.

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Gianluca Cinelli
Gianluca Cinelli è un ricercatore e scrittore italiano. Collabora con la Fondazione Nuto Revelli come consulente scientifico e ha pubblicato recentemente ‘La questione del male’ in 'Storia della Colonna infame di Alessandro Manzoni’ (2015), ‘Il Paese dimenticato: Nuto Revelli e la crisi dell’Italia contadina’ (2020) e il romanzo ‘Il segreto della città di K.’ (2019). È redattore della rivista scientifica Close Encounters in War (www.closeencountersinwar.org).

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