Guido Guidi « Veramente ». La fotografia come prolungamento dello sguardo.

« Veramente » in immagini. Per Guido Guidi, importante figura della fotografia italiana contemporanea, pioniere nel rinnovamento della fotografia del territorio, “guardare è prendersi cura attraverso lo sguardo”. Guidi s’interessa ai margini dei territori in uno scopo di documentazione, analisi e riflessione. Dopo la grande retrospettiva alla Fondation Henri Cartier-Bresson di Parigi, una mostra al Mar di Ravenna ripercorre i quarant’anni della sua carriera fino al 11 gennaio 2015.

Fotografare “veramente” è per Guido Guidi quel momento brevissimo in cui “tra le infinite possibilità offerte dai luoghi marginali si rende visibile l’immagine” nella sua radicalità di visione, in quel vedere che diviene anche un soffermarsi, continuare a guardare, fermarsi per vedere veramente “ là dove pensiamo non ci sia nulla da vedere”.

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L’immagine d’apertura della mostra al MAR di Ravenna nella sua semplicità e nitore sorprendenti giunge a noi, implicitamente, come una prima dichiarazione d’estetica del fotografo: “rendere visibile” dalle periferie urbane, dai bordi e i luoghi liminali, fotografare “veramente” come tracciare un punto su una linea, il segno d’una parola nuda, giunta lì a graffiare per caso una parete di cemento grezzo o una pagina scritta. “Veramente” : una parola che usiamo quotidianamente, senza darvi troppa importanza, scorta lì su quel muro, a lei sola in una sorta di rilievo di luce che la chiarifica e la intaglia dal contorno di lamiera e cemento del fondo. In quel vedere, contemplare, mettere in luce, rendere apparente là dove apparentemente non c’era nulla di interessante da fotografare. Il portone d’un capanno a scanalature profonde e cementificate, una lamiera e una barra in acciaio che la attraversa appare a metà rischiarata da questa fonte di luce esterna, sconosciuta, che arriva da una direzione trasversale come aprendo a una chiarificazione intima dello spazio dell’oggetto e del paesaggio sullo sfondo. Tracce o segni della realtà in tali rivelanti istantanee divengono vie d’accesso privilegiate a un altro modo di guardare, punti in cui l’epidermide opaca, quotidiana di realtà comincia a vibrare, rinviare il proprio eco, rispondere in qualche modo come superficie foto-sensibile all’immagine.

Vedere dal vero e vedere “veramente”, vedere in questa veridicità in cui le cose, gli indici di presenza, i segni più banali del linguaggio si rivelano a noi d’un tratto;
vedere attraverso quella superficie opaca , in controluce al reale , in una sorta di radiografia intorno o in prossimità alle cose.

Vedere nelle loro pieghe più interne o sui loro bordi, esattamente in quei margini residuali della nostra esperienza o percezione del mondo. Le fotografie sono qui un invito a pensare attraverso le immagini, a soffermarsi, contemplare ed attendere che quella superficie sensibile vibri, parli, ci parli, ad attendersi qualcosa da quella epidermide del mondo oltre le sue semplici pretese referenziali.

Ad attendersi all’avvenimento casuale, estemporaneo o non previsto, per sua natura alchemico dell’immagine.

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Le “Vedute” in bianco e nero degli anni settanta dominano come paesaggi statici immersi nell’immobilità, in un realismo tendente all’astrazione di forme e linee essenziali congelate quasi in istantanee fotografiche abitate da un tangibile svuotamento di presenze dove, di tanto in tanto, sembra baluginare o affacciarsi qualche rara alchimia di luce. Sono forme cubiche o squadrate di edifici resi all’essenzialità astratta dei loro contorni oppure sequenze d’una stessa immagine ripetute quasi identiche con minime variazioni nel tempo, infine le opposizioni nette tra la luce e l’oscurità , l’offuscamento e la chiarificazione di visione, il nitore del bianco e l’abisso del nero cupo o del grigio diffuso. Vedute in periferia sono essenzialmente simulacri d’una realtà svuotata, inesistente in sé stessa dove baluginano di tanto in tanto rare, inattese rivelazioni d’intangibile.

Case isolate nella campagna cesenate o ai bordi dei centri urbani appaiono come facciate di edifici nitidi ed essenziali dove le barriere di ferro in esterno divengono una serie di cornici bianche e vuote, di porte a ripetizione innestate su una luce fredda, a neon distanziante.

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Ancora una volta riquadri, inquadrature, lenti di ingrandimento sono gettate su una realtà che vuole essere compresa prima che mostrata dal fotografo, interrogata prima che fissata in una singola immagine, messa a nudo e ridefinita costantemente attraverso lo sguardo della macchina. Bianca vernice contro il grigio fondo allo stesso modo ricompare in altre fotografie di finestre con tapparelle abbassate che, semi-aperte sull’esterno, evocano bandiere oscillanti su uno statico grigio, bianchi baluardi di salvezza contro una bruma circostante e diffusa. Gli spazi fotografati sono, in queste immagini, per lo più sbarramenti, case-sepolcri con auto parcheggiate di fronte, capanni da pesca segnati da croci sopra, cespugli intagliati come blocchi di cemento su giardini chiusi all’interno da altre mura, forme massicce e spigolose, un volto occultato dal fumo d’una pipa. Rigorosamente in bianco e in nero misurano in qualche modo la relazione o meglio la distanza tra l’individuo e lo spazio codificato del suo quotidiano qui svuotato d’ogni funzionalità, reso bordo o preso come punto di fuga dal fotografabile.

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Masse fumose di cespugli aprono da una finestra in sequenza su un luogo affollato d’una densità boschiva simile a nebbia; qui, fili quasi invisibili di cavi divengono ricettori verso l’esterno tracciando una linea di confine sottile quanto netta attraverso cui uno spazio occultato allo sguardo, reso irriconoscibile al luogo comune, è volutamente riportato all’incerto, al non localizzabile e al non fotografabile.

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Una parete di pietra massiccia frontalmente in uno scorcio in primissimo piano nel profondo chiaroscuro, un’auto nera parcheggiata di fronte. All’altezza dello sguardo un’insegna di bar luccica, nitida, la sua iscrizione a grandi lettere è incisa, deposta sul cemento a secco della parete-sbarramento. In lontananza il mare è punto di fuga disgiunto dallo sguardo, linea di confine perdendosi all’orizzonte, ultima stazione o fermo posta del mondo prima di inoltrarsi verso il nulla.

Le immagini, afferma Guidi, accadono dopo lunghe estenuanti pose, indefinite attese, necessitano di pause interminabili restando li’ posizionati per ore di fronte a un treppiede; arrivano pesanti come piombo, pensanti, grevi e immobili come nebbia che sedimenta in quel paesaggio d’antiche paludi per volgersi in blocchi di cemento squadrati come solidi geometrici, volutamente tracciati in linee di confine o di sbarramento senz’ ironia, senz’anima. Volutamente sono riprese in punti di vista inusuali che tagliano parte della loro forma o la decentrano quando si guarda, per esempio, un edificio dai suoi angoli, dalle sue linee di cesura sull’esterno, quando si inquadra una finestra come un puro rettangolo di oscurità, di grigiore diffuso o di chiarificazione improvvisa della luce.

Cesena, 1970

Le sequenze sono fasi d’un processo mentale reso visibile come attraverso una matita tracciando una serie di tratti consecutivi, frames d’una sequenza filmica resa statica, congelata nel tempo e fissata su tre momenti precisi, in tre istantanee d’una serie. Un ritratto d’un bianco e nero antico, volto austero, possente di madre-matrona come d’una figura arcaica, rimanda lontano nel tempo a qualche nume tutelare della dimora accanto al volto incorniciato d’un santo sullo sfondo d’una stanza svuotata. Il rigore delle linee austere disegnate da una cassettiera nera dove la foto è posta rifrangono al riverbero del cerchio di luce pallido sul muro spoglio, una lampada a neon appesa al soffitto. L’immagine nel fare sequenziale si cerca, ricerca l’evento dell’apparire nella ripetizione differita nel tempo, forse nell’effetto d’eco tra le due, quasi identiche. Nella seconda il luogo diviene ancora più immerso in questa atmosfera austera, religiosa, quasi sepolcrale, impregnata nel silenzio in cui il ritratto è sempre più assimilato a un simulacro del sacro.

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Ronta

Siamo nel contrasto tra la nebbia d’una realtà che si perde, si schiarisce ma anche si copre di indeterminato come d’una vaga foschia bianca e dissimulante e il varco d’una finestra-schermo dell’anima che diviene sempre più luogo d’un sedimentarsi e intensificare del fulcro del nero. Ora la finestra appare nel cerchio disegnato dalla lente d’un obbiettivo proiettandosi sul fondale d’una parete neutrale. La visione si rischiara, si irradia d’una fonte di luminosità filtrata e distante, opacizzata tuttavia dal biancore del luogo. In una foto successiva la soglia d’una casa vuota sul fondo asettico, neutrale d’un grigio intermedio è vista attraverso una serie di porte, aperture o varchi luminosi che con le loro fonti di luce arrivano e trasformano quell’ambiente inumano e vuoto. Trasversale, il passaggio di luce arriva da una porta aperta lateralmente, attraversa il corridoio raggiungendo una finestra che si intravvede sul fondo dell’ultima stanza mentre tutto il paesaggio appare cerchiato da una lente di ingrandimento fotografico.

Per Guidi l’immagine non è mai un discorso immutabile e pre-esistente rispetto a una realtà oggettivamente o neutralmente data ma invece un processo seriale, un lavoro in divenire dove la visione si cerca e si rende permeabile all’esistenza delle cose, aderisce ad esse partendo da un « non sapere » dello sguardo gettato su quelle, infine risponde a una necessità di pensiero, di comprensione e decifrazione d’un mondo reso volutamente opaco. Un’inquadratura errante avanza su questo spazio incerto in pose ripetute attraverso scatti consecutivi che nella serie fotografica si oppongono all’estetica bressoniana del “momento decisivo”. Spesso le immagini appaiono inquadrate o viste attraverso lenti circolari evocando l’occhio che guarda o la presenza d’un obbiettivo, poste dentro un cerchio chiarificante o all’ombra del negativo, soggette, anche, a intangibili apparizioni.

E’ la luce più spesso che si fa veicolo di questo elemento di incommensurabilità attraverso l’immagine perché attraverso quella l’invisibile entra nel regno del visibile e si incarna nella forma fotografica. E, ancora, è la sequenza fotografica attraverso la ripetizione seriale uno dei modi in cui questa fessura o alchimia dall’invisibile si insinua nella rappresentazione. Perché fa della fotografia un percorso nell’incertezza, un cammino fatto di decisioni momentanee, d’una serie di passi o tentativi successivi e virtualmente possibili per approdare alla serie finale delle immagini.

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“Preganziol”, in questo senso appare come una sequenza filmica di fotogrammi mostrati come le fasi d’un processo percettivo ricostruito scomponendo la veduta finale. La stanza d’un capanno abbandonato dando su un giardino è fotografata nell’estrema sobrietà della cornice: pavimenti in terra battuta, muri nudi, chiara e slavata vegetazione in esterno. La luce entra da una finestra ad angolo creando questo varco luminoso e trasversale che trapassa, travalica e entrando si disegna prima appena percettibile come un raggio che chiarifica, poi si espande in una sezione di piramide tridimensionale lungo tutta la lunghezza del suo asse divenendo schermo riflettente sul quale un tronco e passaggi d’alberi dall’esterno si proiettano. L’immagine riflessa si impone, crea in sé una visione, nell’equilibrio perfetto tra le linee dello spazio all’interno e la percezione esterna. Arriva come un’apertura, l’imporsi d’un quid essenziale che rompe l’andamento lineare del luogo creando l’interferenza d’un varco luminoso, significante e poetico. Lì, su quello schermo solitario, attraverso la luce che si proietta si iscrive il passaggio del tempo, lo scorrere delle ore, il riverbero dal mondo di fuori nella proiezione sul muro.

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Pinarella, « dune dando accesso al mare »

Sono dune nel passaggio verso l’aperto del mare, improntate su un sentiero che porta verso l’ orizzonte illimitato, indefinito delle acque. Il passaggio è segnato da un’infinità di passi, solchi, impronte e buchi al suolo in ascesa verso la cima della duna.

Ora persone in lontananza attraversano l’immagine avendo percorso quel cammino.
Sono là di fronte al mare in contemplazione.
La scena si svuota ulteriormente; è completamente calma, chiara e vista a distanza come attraverso un filtro attenuante, più luminosa, vagamente irradiata di luce.
Poi un baluardo sulla linea dell’orizzonte trapela, in fondo al mare come un punto focale verso il quale lo sguardo corre travalicando l’infinità di impronte, segni, solchi e tracce rimaste al suolo nel loro temporaneo iscriversi ed essere sommerse, ricoperte da altri strati nel tempo e nelle evenienze.

In-between cities

Dalla fine degli anni sessanta compaiono le pellicole a colori di grande formato riprese con estrema semplicità quasi come si trattasse di piccole istantanee. Sono perlopiù periferie urbane, zone industriali che decentralizzano lo sguardo dai punti focali delle nostre società, dai luoghi di potere, dai centri storici, dal sensazionalismo dei più diffusi target fotografici. L’immagina ancora una volta si situa in questo atto di chiarificazione o comprensione intima del reale, nell’esperienza diretta dei luoghi e delle cose in un guardare e riguardare, soffermarsi e pensare attraverso il fare fotografico partendo da paesaggi presi volutamente come linee di fuga o spazi di mezzo erranti allo sguardo: non-luoghi sintomatici del nostro contemporaneo.

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Zona industriale di Ravenna: intonaci e scrostamenti di colore colanti rivelano gli strati antichi di ruggine e vernici sulle pareti dei container; scorci di pareti esterne di navi in ferro e rame compaiono, rosso e nero su ventri e corazze di grandi imbarcazioni da trasporto merci. Montagne di sabbia, dune di terra fine e ghiaia bianca in depositi ammonticchiati ricoprono e poi svelano nella serie il fondale nero-lucido gocciolante di rosso sanguineo e ruggine. Ci sono, ancora, vedute di parti o scorci a raso di realtà, ravvicinate, trasversali o ritagliate di capannoni industriali in legno e lamiere, di depositi merci, di container, tanks e edifici-magazzini murati a secco. Sono pareti in lamiera, sentieri in terra battuta con taniche luccicanti e scorie che conducono ai depositi merci e, ancora, ferraglie, fili, pezzi di vetro rotti di vetrerie e depositi, collage multiformi e intagli di colore d’ “oggetti trovati” a riempire le superfici in rilievo della nostra realtà.

Polonia 1994

L’Europa dell’est prima della caduta del muro di Berlino all’epoca degli stati socialisti sovietici. Architetture senza volto, squadrate, massicce e funzionali al regime dominano al centro delle immagini. Sono case popolari come colonne di cemento massificate ergendosi verso l’alto verticali e anonime ripartite in griglie regolari, in file di finestre neutrali, improntate sulla durezza del cemento grezzo: architetture rese funzionali sul modello centralizzato d’uno stato-regime dove l’entità del singolo scompare. Bambini in esterno giocano a calcio sull’erba tra il cemento. Le forme cubiche, neutrali e senz’anima degli edifici si ergono contro le presenze animate, sonore, vibranti di colore nella corsa, nel movimento, nel gioco dei ragazzini in strada contro la miseria e freddezza che li circonda.

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Gli interni indigenti degli appartamenti sono visti in sterile igiene, nel nitore d’una asettica, fredda miseria. In questa Polonia comunista affiliata al regime sovietico le fotografie di Guidi si situano ai bordi d’uno stato centralizzato e totalitarista, si situano in prossimità delle cose; guardano i paesaggi del quotidiano dandone quasi una radiografia silenziosa in controluce fatta di grigi-opaco cemento, di finestre squadrate, d’auto parcheggiate e solidi di case geometriche, d’una patina, infine, raggelante di silenzio e immobilità. Nell’assimilazione silenziosa al regime gli individui, in assenza d’ogni segno d’umanità, appaiono oggettivati come parti di un meccanismo in bar squallidi, svuotati d’ogni merce e vetri rotti a terra ricoprendoli di polveri e detriti.

Cesena, cinque foto in sequenza

Un ponte cementificato, possente nelle sue basi a vista sovrasta un corso d’acqua, immenso nello scorrimento, nel passaggio delle acque; a distanza sono i suoi argini fangosi ricoperti di melma e arbusti, fanghiglia e terra intrisa d’ acqua stagnante che prosciuga a poco a poco per diventare pianura verdeggiante e campi coltivati. Un varco di luce si disegna attraverso il fluire delle acque, espande e si amplifica ad ampio raggio come scia luminosa d’un tratto risplendente nell’oscurità.

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Punta di cometa o forma geometrica impadronendosi dello sguardo la scia è sentiero aperto indicando una direzione, verde terra su acqua stagnante che al riverbero della luce si irradia, si desta alla vita per nuovamente ritornare al suo immobilismo di palude e melma di tronchi. Lascia dietro a sé un letto di fiume fangoso e denso, opaco e pieno della sua massa sommersa di scorie mercurio-argentee degradando lentamente sugli argini prima di tramutarsi in terra ferma.

Traslucida al passaggio della luce l’acqua rifletteva luminescente, cambiava completamente di tonalità, si rivelava altra quando era attraversata da questa scia espansa e luminosa, manifestazione d’intangibile, traccia di vibrazione dal soffio cosmico sulla distesa immobile del canale.

Elisa Castagnoli
Ravenna

Guido Guidi
VERAMENTE
Mar-Museo d’Arte della Città, Ravenna

Via di Roma 13
12 ottobre 2014 – 11 gennaio 2015
in collaborazione con Fondation Henri Cartier-Bresson, Parigi

-Info: (+39) 0544 212092, mar.ra.it

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Elisa Castagnoli
Nata a Ravenna ma viaggiatrice e cittadina del mondo Elisa Castagnoli si è laureata in Lingue e Letterature Comparate all’Università di Bologna proseguendo con un Master alla University of Toronto. Insegna lingua e civiltà inglese nella scuola secondaria di II grado, collabora con varie riviste letterarie on-line e scrive un blog personale sull’arte. Simultaneamente, segue la danza contemporanea nella sua connessione tra corpo, movimento e scrittura.

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