Siamo tutti sotto al cielo…e non solo di Berlino.

Ogni tanto io mi sento un ragazzo dell’Europa – che non perde mai la strada. Mi è successo qualche giorno fa, quando mi sono ritrovato proiettato a Berlino.

Dove sta Berlino, è facile, lo sanno tutti : Berlino è alle porte del cosmo. Là dove nel secolo scorso c’era il muro. Ed io, che sono un ragazzo non solo dell’Europa, ma anche del secolo scorso, quel muro l’ho visto.

Erano i giorni d’estate del 1989, io ero andato lì con l’anima in disparte. Berlino era là dove si erano sfiorati, quasi toccati nazismo comunismo e poi capitalismo di strade piene di luci da una parte e i quadri di Guttuso dall’altra, che celebravano la splendida marcia verso il sol dell’avvenire e i bei visi lucenti di operai e contadini felici di vivere nel paradiso in terra (nel frattempo Guttuso, troppo umile per godersi il paradiso, preferiva starsene a Roma, per soffrire e analizzare più agevolmente le drammatiche contraddizioni del capitalismo).
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Berlino era Alexanderplatz dove io mi aspettavo di vedere Lili Marlene (per forza : in Alexanderplatz non puoi che incontrare Lilì Marlene, lo si capisce da sé). E invece niente Marlene perduta nella pioggia – solo grigio cemento e tristi lampioni di socialismo reale in fase di spegnimento. Un ragazzo tedesco mi aveva detto pensoso (i tedeschi sono spesso pensosi. Sarà il clima) : chissà, forse i nostri figli lo vedranno cadere, ‘sto muro che ci fa disperare. Chissà. Ma ci vorrebbe un miracolo. Un miracolo ? Che discorsi sono. « Cose simili non accadono sulla terra », l’aveva ben detto, Thomas Mann.

Sbagliato. Invece bastò un cambio di stagione (un giro di panni negli armadi). E come dopo domenica c’è il lunedì, a novembre dello stesso anno venne il freddo, e con il freddo un angelo che fece cadere il muro. Con un tocco, si sgretolò. E noi a bocca aperta a fare oooooh : l’angelo non l’avevamo visto (ovvio : era invisibile), ma era finita la storia o forse solo la storia come l’avevamo conosciuta noi. Berlino era la città con il cielo sopra di sè, la città dove in ogni caso non ci si poteva perdere – perché alla fine si arriva sempre al Muro, ci spiegava Marion, la trapezista troppo sola del film di Wenders. Berlino era il muro che prima c’era e poi non c’era più, caduto, i parchi d’estate luccicanti di ragazze nude sull’erba a prendere il sole, e gli angeli invisibili di Wenders e Handke che si chiedono: e tu cos’hai da raccontare?

Adesso son passati venticinque anni – venticinque son tanti e diciamo, un po’ retorici, che sembra ieri. E io ho rimesso piede a Berlino: spago nella mia valigia, non ce n’era, ma una cosa che non avevo mai messo in vita mia, sì. Uno smoking. Prego ? Sì. Mi hanno invitato, per ragioni di lavoro, ad una serata cosiddetta di gala. E ad una serata di gala gli uomini indossano lo smoking. Le donne, l’abito da sera – è chiaro. Io sono un uomo (nessuno è perfetto) ; ma un uomo che non possiede uno smoking. Non mi sono tuttavia perso d’animo e sono andato a noleggiarlo.

L’ho provato, mi sono guardato allo specchio e ho cominciato a oscillare tra due sensazioni : sentirmi Daniel Craig oppure uno scemo. Una mia amica ha risolto il conflitto, dicendomi che in determinati momenti Daniel Craig l’espressione un po’ da scemo ce l’ha ; allora le due sensazioni si sono riconciliate. Sarò un Daniel Craig scemo, mi sono detto. E sono partito. Con lo smoking nella valigia, piegato bene bene.

Da Parigi a Berlino, le voilà, mon voyage au bout de l’Europe. E in aeroporto, al momento di consegnare il bagaglio per il trasporto in stiva, mi ha colto il momento di ansia. « E se me lo perdono ? Con lo smoking dentro ? ». A questo punto ho sentito la mano di un angelo sulla mia spalla. «Sei proprio scemo». Un angelo un po’ brusco, un angelo che non usa mezzi termini. «Non sei mica in Italia. Viaggi da Parigi a Berlino. Nel cuore dell’Europa che funziona. Gente in gamba, pratica, organizzata. Dove le cose funzionano. Non come in un certo paese, e ci siamo capiti».

Scusi Dottor Angelo, è chiaro che ha ragione lei. Qui non siamo mica in Italia dove tutto va alla rovescia. Qui siamo alle porte del cosmo, nel cuore dell’Europa efficiente, dove il bagaglio non te lo perdono, figuriamoci. E poi non c’è nemmeno una coincidenza, figlio mio, è un volo diretto, cosa sono queste paranoie ? Va bene. Spedisco. Certo, figurati, tra Parigi e Berlino. Capirei in Italia. Insomma, sono tranquillo (certo, a ben guardare un filino di preoccupazione forse c’è, ma proprio infondato, assurdo).

Arrivo a Berlino. L’angelo non lo vedo più (e pazienza, visto che è invisibile). Ma il punto è che non vedo nemmeno il mio bagaglio. Lo sapevo, mannaggia la miseria ! Apposito ufficio. Coda. Signora. «Il suo bagaglio è ancora a Parigi. Arriverà con il prossimo volo, verso le ore 22. Le sarà recapitato in albergo già stasera o nella peggiore delle ipotesi domattina». D’accordo. Intanto, a me lo smoking non servirà prima dell’indomani. Vedi ? Un incidente, un disguido può capitare a tutti, ci mancherebbe, e però qui, qui, venticinque anni dopo la caduta del maledetto Muro, nel cuore dell’Europa efficiente ed organizzata (mica quel casino perso, scusatemi, dell’Italia) all’errore si pone rimedio, con serena efficienza. Insomma, sono tranquillo.

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Poi la notte. Che, anche nel cuore dell’Europa efficiente, trascorre. E lo smoking che non arriva. E la telefonata alla compagnia aerea francese. «Il suo bagaglio è a Berlino. Le sarà consegnato in mattinata». Sì, grazie, certo, sa, è importante, perché stasera, la serata di gala, capisce… «Nessun problema». Metto giù. Chiamo l’aeroporto di Berlino. «Il suo bagaglio è ancora a Parigi». Scusi ? «Sì, non è mai arrivato qui». Richiamo la compagnia. Una decina di telefonate : «In effetti è vero, per un incredibile disguido, non so come sia potuto accadere… Il suo bagaglio è ancora a Parigi… Lo spediremo questa sera». Questa sera? Adesso è tardi, sempre più tardi, e poi io domattina riparto prestissimo, qui finisce che il bagaglio arriva a Berlino quando io già sono tornato a Parigi, in un gioco di inseguimento senza fine. E adesso come faccio? Mi propongono di rimborsarmi il costo di noleggio di uno smoking a Berlino. Ma ormai i tempi non lo permettono più.

Tutto quello che posso fare è andare a comprarmi qualcosa da mettermi. E mi scaravento in un negozio di abbigliamento, nel cuore dell’Europa, là dove sorgeva il Muro. La scelta non manca. Scelta di gusto tedesco, si intende. Camicie. Gialle. Arancioni a strisce. A pallini multicolori. Ottimi come fendinebbia. Chiedo se ne hanno di aderenti e il signore del negozio si accarezza la barba e fa cenni di largo ed entusiasta assenso. Non parla inglese. (Ma come ? Non siamo forse qui nel cuore dell’Europa che parla le lingue straniere con maestria, così diversa dall’Italia che tanto ci piace prendere in giro ?). Mi arrangio con il mio tedesco immaginario. Lui mi propone il capo più aderente in suo possesso: dei camicioni in cui io sto, direi, a una prima stima, tra le sei e le sette volte. Mi propone dei calzini cortissimi di colore fosforescente.

Io gli dico che l’ordine monastico cui mi onoro di appartenere non mi consente, nemmeno sotto minaccia di morte, di portare calzini che non siano lunghi fino al ginocchio e in tinta unita. Quanto agli indumenti di biancheria intima maschile detti «slip», preferisco tenermi al celebre dettato di Ludwig Wittgenstein: su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere. Alla fine trovo qualcosa. Una camicia accettabile. Calzini antracite, dai, cominciamo a ragionare. Il conto – sì, grazie, e una ricevuta di acquisto, capisce, perché la roba lì costa un casino (sai, la Merkel) e la compagnia aerea, rea di aver perso il bagaglio, rimborsa l’acquisto. Il tedesco – figlio di un popolo celebre al mondo per la sua organizzazione – si guarda attorno sperso. Non ha un blocco delle ricevute. Svuota i cassetti, nella baraonda totale ne trova uno. Benone. Ma non ha una penna. Gliela porgo io. Dai che ci siamo. Ma non sa il prezzo della camicia. Tic toc, l’orologio, il tempo passa, il redde rationem si avvicina. Cerco di suggerirgli un prezzo che appaia congruo. Lui si incasina, bestemmia in tedesco, chiama qualcuno, mi sorride, mi regala una cravatta, si rimette a cercare.

Alla fine la spunto: ho la ricevuta. Scappo. Qualcosa ce l’ho, almeno per cambiarmi, certo sarò tragicamente e totalmente inadeguato alla serata e probabilmente vincerò lo speciale premio per il peggio vestito di ogni epoca ad una serata di gala. Guardo il cielo sopra Berlino e il cielo mi fa cenno di aspettare. Squilla il telefono. La compagnia aerea. «Il suo bagaglio è a Berlino». A Berlino ? A Berlino ! Miracolo. «Un’ottima notizia». «Aspetti. A Berlino ma non sappiamo dove». Non riescono ad entrare in contatto con l’aeroporto, questi imbranati.

Mi faccio dare il numero. Chiamo io. Dopo una serie infinita di segreterie telefoniche, musichette, avvertimenti sulla possibilità che la telefonata sia registrata etc, mi dicono che non sto chiamando il numero giusto, me ne danno un secondo. Chiamando il secondo, me ne danno un terzo. Chiamando il terzo, un quarto. Al quarto il cerchio si chiude : mi dicono che il numero giusto da chiamare è il primo che ho composto. Mi sento indeciso se dichiarare unilateralmente guerra alla Germania o attaccare direttamente l’aeoporto con un blitz.
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Opto per la seconda opzione che mi pare più semplice. Taxi, aeroporto, e lì ufficio informazioni e servizio bagagli e alla fine mi dicono di andare in una specie di zona industriale vicino alle piste e lì c’è un container grigio e attorno dei conigli che saltano. Conigli tedeschi. Tra i conigli tedeschi, la mia borsa. Nella borsa, lo smoking. Saluto i conigli con un perfetto auf Wiedersehen, torno come un fulmine in albergo e ne esco lindo e profumato e vestito come un Daniel Craig scemo. Pronto per la serata di gala.

E lì, capisco due cose fondamentali. La prima, che Thomas Mann aveva torto, perché cose simili (ai miracoli) accadono sulla terra: basta seguire i conigli, come sapevano bene Lewis Carrol e la sua Alice. La seconda : abbiamo torto anche noi italiani, non solo Thomas Mann. Torto a pensare di essere gli unici al mondo a combinare un sacco di casini. Torto a idolatrare gli altri e ad entusiasmarci nel parlar male di noi stessi. Ed è con queste due fondamentali intuizioni che sono entrato alla serata di gala (che è stata noiosissima) e che ho lasciato le porte del cosmo alle cinque del mattino. E quanto all’angelo : mica l’ho più rivisto.

Maurizio Puppo

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Maurizio Puppo
Maurizio Puppo, nato a Genova nel 1965, dal 2001 vive a Parigi, dove ha due figlie. Laureato in Lettere, lavora come dirigente d’azienda e dal 2016 è stato presidente del Circolo del Partito Democratico e dell'Associazione Democratici Parigi. Ha pubblicato libri di narrativa ("Un poeta in fabbrica"), storia dello sport ("Bandiere blucerchiate", "Il grande Torino" con altri autori, etc.) e curato libri di poesia per Newton Compton, Fratelli Frilli Editori, Absolutely Free, Liberodiscrivere Edizioni. E' editorialista di questo portale dal 2013 (Le pillole di Puppo).

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