Mondiali 2014. Di catenaccio e contropiede, il modo di essere degli italiani.

La poesia del calcio riassume quella che è la filosofia di fondo degli italiani: “Noi fummo per secoli calpesti e derisi” come dice una strofa dell’inno italiano. Divisi dai campanilismi, aggrediti nei secoli dalle diverse potenze del mondo di allora, l’Italia sopravvive e vince con il suo “catenaccio” e il suo “contropiede”. Insomma, il gioco all’italiana per noi non è solo una strategia calcistica.

«La palla è rotonda», diceva il filosofo del calcio, Gianni Brera. Era un uomo di spirito e anche un uomo di grande cultura. Quando dalla sua penna o dalla sua bocca usciva una frase apparentemente banale, era per sbatterci in faccia la banalità nostra, che ci impedisce di cogliere gli aspetti più importanti della realtà, che sono spesso i più evidenti. La palla è rotonda e nessuno di noi sa come finirà questa Coppa del mondo in salsa brasiliana. Per contro sappiamo che in tempi di crisi, molti presidenti e molti governi vorrebbero poter bere in quella magica coppa. Vengono in mente i salti di gioia del grande Sandro Pertini dopo la vittoriosa finale degli Azzurri in Spagna nel 1982. Vengono anche in mente le scene di entusiasmo popolare in Francia nel 1998 o nuovamente in Italia nel 2006.
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Il calcio non è uno sport qualsiasi. E’ uno sport popolare nel senso nobile del termine; popolare, ma non volgare. Gli italiani, anche se politici o intellettuali, non si sono mai vergognati di tifare per una squadra di calcio. Togliatti era juventino e Almirante pure. In Parlamento facevano finta di non vedersi, ma allo stadio univano il loro tifo. Bertinotti è milanista. Il suo consiglio a Berlusconi è sempre stato : «Si occupi un po’ più del Milan e un po’ meno di politica». Andreotti era romano e romanista, come D’Alema e come tanti altri. Ma il milanese Craxi era per il Torino. Se il calcio è tanto amato nel mondo, è perché, essendo un gioco semplice nella sua possibilità d’essere praticato (basta una palla e un po’ di spazio) è assolutamente alla portata di tutti. Anche il ciclismo lo è, ma in un modo diverso. Col ciclismo, il calcio è uno dei due sport mitici del XX secolo (speriamo anche di tutto il ventunesimo). Ma il ciclismo esalta l’uomo, mentre il calcio (malgrado la presenza delle star) esalta comunque la squadra. Il ciclismo è uno sport da eroi d’altri tempi (da «giganti», da «titani»); mentre il calcio è il volto di una squadra, di una città, di una regione e talvolta anche di un ceto sociale.

La passione italiana per il calcio è la conseguenza di un preciso fenomeno storico : il peso tutto particolare che la città ha avuto nella realtà della penisola, fin dal Medio Evo e passando per il Rinascimento. Nell’anno 1500 esistevano in Europa undici città con oltre 50 mila abitanti. Otto erano italiane. Quelle città si sfidavano tra loro in continuazione (al punto che ancor oggi c’è scarsa simpatia reciproca tra un pisano e un fiorentino, che si susseguono a Palazzo Chigi). Mille anni di rivalità tra i comuni italiani riesplodono sul prato di Marassi invece che sul mare in cui nel 1284 genovesi e pisani morirono a migliaia, sfidandosi tra loro nella terribile Battaglia della Meloria. Molto meglio così, anche se – a causa dell’umana stupidità di certe frange di tifosi delinquenti – capita che il morto ci scappi ancora.
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Visto dall’estero, il calcio italiano si riassume in una parola, talvolta pronunciata in modo infamante : «Catenaccio». E’ sempre lui, il filosofo Gianni Brera (averne di filosofi come quello !), a dare al «catenaccio all’italiana» una sorta di patente di nobiltà. Gli italiani, secondo Brera, possono arricchirsi quanto vogliono, ma nelle loro vene scorre ancora il sangue di un popolo che è stato composto per secoli da contadini poveri («Noi fummo per secoli calpesti e derisi», dice l’inno nazionale, in una strofa che oggi si preferisce non cantare). Contadini che la carne la vedevano passare su quattro zampe, ma che la mettevano in bocca ben poche volte all’anno.

Magri, ma svegli. Soprattutto lesti nel correre. Francesi, inglesi e tedeschi sono popolo di persone ben pasciute, che nello sport come nella vita partono all’attacco, credendo di poter spaccare tutto, di poter conquistare tutto. Gli italiani devono essere consci dei loro limiti e trasformarli in vantaggi. In punti di forza. Lasciamo pure che gli altri ci snobbino e ci aggrediscano. Noi colpiremo al momento giusto e li infilzeremo con la nostra velocità. Il catenaccio non è catenaccio senza l’altra faccia della medaglia: il contropiede. Forse anche nella crisi c’è qualcosa di buono. Ci fa tornare al buon senso contadino.

Alberto Toscano

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Alberto Toscano
Alberto Toscano est docteur en Sciences politiques à l’Université de Milan, journaliste depuis 1975 et correspondant de la presse italienne à Paris depuis 1986. Ex-président de la Presse étrangère, il est l’un des journalistes étrangers les plus présents sur les chaînes radio-télé françaises. A partir de 1999, il anime à Paris le Club de la presse européenne. Parmi ses livres, ‘Sacrés Italiens’ (Armand Colin, 2014), ‘Gino Bartali, un vélo contre la barbarie nazie', 2018), 'Ti amo Francia : De Léonard de Vinci à Pierre Cardin, ces Italiens qui ont fait la France' (Paris, Armand Colin, 2019), Gli italiani che hanno fatto la Francia (Baldini-Castoldi, Milan, 2020), Mussolini, "Un homme à nous" : La France et la marche sur Rome, Paris (Armand Colin, 2022)

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