Emma Castelnuovo

ARTICLE BILINGUE: ITALIEN en p. 1 et FRANCAIS en p. 2.

Di passaggio da Roma, il 14 aprile scorso, ho appreso da un amico che era appena morta Emma Castelnuovo. Ho provato una commozione profonda, simile, credo, a quella di tutti coloro che, suoi allievi, l’hanno amata e ne sono stati amati, mai come questa volta sperimentando quanto il tempo, l’età, sia pur come suol dirsi “veneranda” – Emma aveva da alcuni mesi compiuto 100 anni –, non possono far sì che non si senta il rimpianto doloroso di chi ci è caro, di chi è stato per noi importante, la sua mancanza – anzi, nel caso di Emma, i numerosi anni mi hanno reso quel dolore ancor più sbigottito, quasi che per lei, così intelligente, curiosa, viva, la morte non potesse arrivare.

Emma Castelnuovo

Non l’avevo più incontrata, direttamente, da oltre quarant’anni, dai tempi delle mie scuole medie. E tuttavia non è stata la risorgenza improvvisa e fantasmatica dell’infanzia a commuovermi, come pur può succedere quando scompare un personaggio legato a quegli anni lontani – è stato qualcosa nel contempo di più forte e reale, difficilmente spiegabile, unico: nonostante la distanza, Emma è rimasta per me una presenza luminosa. A lei, al suo insegnamento, mi ha unito in tutti questi anni un filo sottile e indistruttibile, necessario. È questo filo che la sua morte ha reso incandescente, e con esso il mio debito di gratitudine nei suoi confronti.

Questa commozione non mi abbandona. Ho cercato di condividerla con altri amici che, come me, l’avevano avuta come professoressa, e – tramite lei – avevano scoperto un mondo. Con uno di essi, in particolare, abbiamo ricordato dell’ultima volta che l’avevamo vista in foto, in occasione dell’uscita del suo bellissimo Pentole, ombre, formiche. In viaggio con la matematica, nel 1994, “ed era proprio come l’avevamo conosciuta: straordinaria….” E poi ho letto, o riletto, articoli di giornali che sono stati scritti su di lei, antiche interviste, prefazioni di libri, e qua e là qualche pagina, ripercorrendo con trepida emozione la sua storia, che all’epoca del nostro incontro – all’inizio degli anni settanta, quando avevo poco più di 11 anni, e sino ai 14 – non conoscevo, o conoscevo troppo vagamente. (L’ho conosciuta da adulto, e me l’ha fatta amare ancora di più).

Emma, già ai tempi della mia infanzia nota come “l’illustre matematica” che aveva preferito l’insegnamento ai ragazzini piuttosto che una brillante carriera universitaria, viene da una famiglia anch’essa “illustre e matematica”: Guido Castelnuovo, il padre, e Federigo Enriques, fratello della madre, sono infatti figure chiave delle scienze matematiche italiane, e più precisamente della cosiddetta scuola di geometria algebrica, nella prima metà del secolo passato. È discutendo una tesi di geometria algebrica che lei stessa si laurea, nel 1936, cominciando subito dopo a lavorare nella biblioteca universitaria di matematica: ma in seguito alle leggi razziali, promulgate nel 1938, perde il posto, e perde anche la cattreda d’insegnamento alle secondarie, per cui ha vinto un concorso proprio in quell’anno, trovandosi costretta a insegnare nei corsi di studio organizzati dalle comunità israelitiche, sotto il controllo del regime, che accolgono gli studenti ebrei cacciati dalle scuole pubbliche, con tutti i rischi che ciò comporta (nonostante la “benevola” accettazione del regime, allievi e professori sono spesso oggetto di minacce e attacchi da parte delle squadracce fasciste). Sino al 1943, quando arriva l’occupazione tedesca: per Emma e la sua famiglia, che decidono di non lasciare Roma, questo significa condividere la tragica condizione degli altri ebrei rimasti – cambiare nome, dividersi, nascondersi, con addosso il pericolo continuo delle razzie, dei rastrellamenti, della deportazione.

Alla Liberazione, Emma è reintegrata nel servizio, insegnando alla scuola Torquato Tasso, sino al 1979 (anche se poi ha continuato la sua attività didattica, soprattutto grazie ad alcune missioni affidategli negli anni ottanta dall’UNESCO in Niger, a ulteriore riprova della sua insesauribile vitalità). Accanto e dentro quell’insegnamento (da lei scelto, voluto) riprende il suo lavoro di scienziata, la sua ricerca in didattica della matematica, come recita il titolo del suo rivoluzionario libro del 1963 (cui lei si riferiva più semplicemente come “quel mio libretto”…) Ma i luoghi non mancano, più adatti di questo, per trovare o ritrovare tappe, lavori, onorificenze del suo formidabile percorso scientifico, didattico e umano. Io qui, adesso, vorrei solo tornare, più di quaranta anni dopo, sul mio incontro da ragazzino con lei, e sul come e il perché quell’incontro, i tre anni in cui sono stato suo allievo, siano stati fondamentali, per me. Come per tanti altri suoi allievi.

I genitori che negli anni sessanta e settanta iscrivevano i propri figli alla scuola media Torquato Tasso di Roma, nelle sezioni A e B, lo facevano essenzialmente per lei, Emma Castelnuovo, la geniale professoressa che aveva rivoluzionato l’insegnamento della matematica – o, come si diceva più comunemente, la professoressa che faceva amare la matematica. Questo avveniva – così almeno interpreto oggi il mio ricordo di allora – con una sorta di rivoluzione copernicana, per cui invece di partire dall’astratto delle forme geometriche, si partiva dalla loro esistenza concreta, dalla loro necessità, dalla loro funzionalità nella realtà che ci circonda – e per “realtà” è da intendersi la natura, ma anche l’arte, la cultura, la società tutta.

E di più: la realtà è anche quella che noi possiamo produrre, fabbricare. Noi, noi suoi allievi, costruivamo degli oggetti, degli strumenti, da semplici disegni a vere proprie macchine, con il suo aiuto o con quello di studenti universitari – fra di essi l’indimenticabile “mago” Raimondo – che in determinate circostanze vennero ad assistere i suoi corsi, e lavorando su quelle macchine da noi costruite, riflettevamo… Molti anni dopo, a Montréal, spiegando ai miei studenti, in un corso di introduzione alla preistoria, le propre de l’homme, e cercando, anche con i gesti, di far capire quanto era stato determinante agli inizi dell’avventura dell’umanità il pollice opponibile, l’intelligenza che si prolunga e si arma, anche si nutre, nella mano, che fabbrica strumenti, mi sono improvvisamente detto: Ma è Emma Castelnuovo… E in effetti è così che vedo uno dei pilastri della rivoluzione di Emma: avere riportato al centro, alla base dell’istruzione umana, il cosiddetto asse mano-cervello-mano.

(Frammento di ricordo: noi a costruire, con le sue famose striscioline di cartone, triangoli e quadrati, per accorgerci che i primi sono fissi, i secondi si articolano – e poi osservare, passeggiando per la strada, che sono i primi, non a caso, a essere fondamentalmente impiegati nelle impalcature… E noi catturati, ammaliati, vogliosi di saperne di più…)

Questo ovviamente, ragazzino, non lo potevo capire, non in questi termini – ma potevo capire che quell’insegnamento era rivoluzionario, nel senso di completamente diverso da tutto quel che mi era stato insegnato prima, o anche mi veniva insegnato accanto, da pur ottimi professori. E come tanti altri suoi allievi, l’ho capito subito, e me ne sono profondamente innamorato.

Anche, ho intuito, sentito, esperito (e ciò ha alimentato quest’amore, allora, e poi attraverso i decenni) che quell’insegnamento andava ben al di là della matematica (che pure in quegli anni ho amato come non mai), investiva, aiutava tutta la mia capacità di studiare e – ho sentito anche questo – di vivere e crescere pienamente: è con Emma che ho imparato, come altri, ad amare lo studio, ogni studio, e poi l’amore per l’arte, per la storia, la curiosità in generale, e la passione – che sono amore per la vita –, la necessità di non limitarsi a vedere, per sviluppare le proprie capacità di osservare, e da qui quelle di analisi, o se si vuole, più precisamente, esser portati a scoprire, sul campo, che vedere e osservare sono due azioni distinte, e che è solo nel cruciale passaggio dall’una all’altra che nasce la possibilità della conoscenza.

La matematica, in altri termini, serviva a formare dentro e al di là di se stessa. È tramite quella matematica, del resto, che abbiamo costruito cartelloni e diagrammi, per riflettere sulla fame e la sete nel mondo, la mancanza di acqua, o ancora l’analfabetismo (come intitolava un manifesto da noi disegnato insieme a lei: Non ci devono più essere uomini fuori dalla Storia). Perché per Emma la matematica, il suo insegnamento, erano passione civile, strumento necessario per l’emancipazione degli individui, per una società più giusta e libera.

In questo senso, era convinta che nelle sue classi tutti dovessero partecipare, essere protagonisti, tutti potessero imparare – e anche se, pragmaticamente, ammetteva che ci fossero allievi più “deboli” o “incerti” e altri più “bravi”, s’industriava a far sì che questi aiutassero quelli, che si promuovesse uno spirito di gruppo, di solidarietà. Aveva, certo, un forte senso del merito, la convinzione che questo dovesse essere riconosciuto, un’alta considerazione dell’intelligenza – ma anche la convinzione, altrettanto forte, che nessuna “debolezza” fosse immutabile. Se dunque, come qualcuno ha detto, usava la matematica per mettere in competizione gli studenti, questa competizione non era degli uni contro gli altri, ma di ognuno con se stesso, per sviluppare il proprio potenziale, e finalmente ritrovarsi.

Emma è stata insomma nel senso pieno, umanista, del termine, un maestro (e ahimé per esprimere quella pienezza sono obbligato, almeno in italiano, a usare il maschile). Non se ne incontrano tanti, nella vita, a volte non se ne incontrano affatto – a me ad esempio, nel corso dei miei studi ulteriori, sembra di averne incontrati soltanto altri due. Ma Emma ha avuto un’importanza tutta particolare, perché è stata la prima, e perché è arrivata quand’ero ancora un ragazzino. È per questo tanto più significativo che io abbia continuato a trarre profitto dalla sua lezione nei miei studi adulti, di vita, esplorando i mondi antichi e la letteratura, così lontani apparentemente da quella matematica che lei mi insegnava.

Dei tre anni preziosi in cui l’ho avuta come professoressa, il più esaltante è stato sicuramente il secondo, il 1970-71, l’anno dell’ “esposizione di matematica”. Durante tutto l’anno scolastico, nei corsi regolari, la mattina, come in ore speciali che erano state istituite nel pomeriggio, lavorammo collettivamente, in 171, cioè tutti i suoi studenti – nessuno escluso, appunto… –, insieme a lei, e con l’aiuto di quattro studenti universitari (il “costruttore” Raimondo, e poi Lucilla, Daniela, Fulvia), alla preparazione di un’esposizione per il pubblico, su dodici argomenti di matematica, di cui ognuno di noi avrebbe dovuto illustrare una parte. L’esposizione si tenne (ancora ricordo quelle date) il 5, il 6 e il 7 maggio, e fu poi esportata a Milano, da un gruppo più ristretto di ragazzi, nel settembre dello stesso anno.

Cosa raccontarne, in poche frasi? Forse alcune sensazioni, che ancora oggi mi appartengono: l’incredibile desiderio di voler tornare a scuola anche il pomeriggio, l’atmosfera febbrile di quegli incontri, la voglia di capire e imparare, per subito condividere con altri quel che avevo capito, con i miei compagni di avventura, e poi il rumore di quei gradini saliti a quattro a quattro, una rampa di scale dietro l’altra, il primo giorno dell’esposizione, l’emozione di accogliere il pubblico vero, e di discutere con dei “veri” matematici – in particolare, gli universitari Lucio Lombardo Radice e Paul Libois –, il clima di autentica educazione permanente che pervadeva quelle discussioni, con questa idea (altro pilastro della rivoluzione di Emma) che non si finisce mai di studiare, di imparare, e che anche i professori debbano farlo, imparando proprio dai loro allievi. Lei stessa, d’altronde, non me la ricordo dietro la cattedra, ma sempre in movimento, a ragionare fra di noi, con noi, come se se solo insieme, provando, anche tentennando, sbagliando, si potesse percorrere un cammino.

Sì, è stato veramente rivoluzionario quell’insegnamento, nel senso più puro del termine. Del resto, l’abbiamo pensato poco dopo, noi, i suoi allievi, quando finite le medie ci siamo quasi tutti tuffati nel fuoco della “rivoluzione” che ancora agitava i licei italiani, nell’immediato dopo sessantotto: tutto poteva esser buttato sotto sopra, spazzato via, ma non quello che ci aveva insegnato Emma, che a suo modo per prima ci aveva dato il gusto di rivoluzionare (ricordo anche che quando cominciai a scrivere i miei primi tatsebao – i grandi manifesti ispirati alla rivoluzione cinese che tappezzavano i muri della scuola, su cui con disegni e parole esprimevamo le nostre idee collettive di lotta e rivolta – ebbi la sensazione di possedere già un modello: i famosi cartelloni di Emma…). Così, anni dopo ho pensato, e lo penso ancor di più oggi, che quando quella euforia rivoluzionaria è venuta meno, è rimasto il tracciato del suo insegnamento, base di una rivoluzione meno rumorosa, ma più profonda, duratura, perché esalta il senso critico, e di giustizia – e con essi, la conoscenza di noi stessi in quanto individui, la libertà.

Ed è strano: scrivendo queste righe mi rendo conto che, al di là delle senzazioni, di qualcosa che impalpabilmente è parte del mio patrimonio più prezioso, del mio modo di stare nel mondo, di quegli anni e di quell’insegnamento non riesco a dire, in quanto ricordo a tutto tondo, niente di preciso – è come se gli oggetti di studio e gli eventi che caratterizzarono quel tempo fossero stati incenso che noi abbiamo bruciato, e di cui resta solo il profumo, inestinguibile, e qua e là, ma quasi come un residuo casuale, alcuni frammenti : la costruzione dei triangoli e dei quadrati di cui ho detto prima, o ancora le mie mani (sempre loro) che tirano un pezzo di tela elastica su cui ho disegnato un cerchio, e dentro quello un quadrato, con il quadrato che diventa un rettangolo, il cerchio un’ellisse. E su tutti, più completo e visuale degli altri frammenti, un breve episodio, che gli anni non possono sbiadire.

Siamo di ritorno dalla nostra spedizione a Milano. A Firenze, Emma chiede all’autista di parcheggiare. Vuole mostrarci dei capolavori, dei monumenti, soprattutto un certo quadro (non saprei più dire quale, negli anni mi son convinto che fosse di Giotto, e comunque ogni volta che rivedo un quadro di questo pittore, ovunque io sia, mi torna in mente questa scena). È una giornata fredda, piove a dirotto. Noi esitiamo, vorremmo restare in autobus, gli facciamo notare le condizioni atmosferiche infauste. Ma lei non demorde, ci assicura che ne varrà la pena, sarà per noi una nuova scoperta… Ed eccoci in fila indiana, a gruppetti, sotto una pioggia che si è fatta ancor più scrosciante, dietro di lei, secca secca, come sempre inspaventabile, piena di vita ed energia, che con passo svelto sembra attraversare l’acqua, talmente ne cade, avendo come unica difesa un ombrellino – ed anche rivedo quel volto, il suo sguardo, lo sguardo penetrante di questa donna, che ci sembrava e ha continuato a sembrarmi negli anni al di là del tempo, né vecchia né giovane, ma semplicemente magnifica. Lei che per prima ci ha insegnato a pensare.

Quei suoi allievi, quelli che ho conosciuto io, a cavallo dei grandi e terribili anni sessanta e settanta, e di cui ho avuto negli anni successivi notizia, hanno preso mille percorsi diversi: alcuni sono rimasti in Italia, e altri no, alcuni hanno continuato con la matematica, altri hanno intrapreso altri studi, o non hanno studiato affatto, alcuni hanno fatto scoperte importanti, o scintillanti carriere, o ancora vivono vite appartate, curano la gente, viaggiano per il mare, insegnano ai bambini, suonano in un’orchestra o costruiscono mobili, barche, gioielli (alcuni sono anche morti). Ma tutti credo potrebbero riconoscersi in molte di queste mie parole. È per loro, più ancora che per raccontarla un poco a chi non l’ha conosciuta, che ho sentito di doverle scrivere, riuscendo a traversare le reticenze del mio privato più intimo; o meglio: per me insieme a loro, per ritrovarsi come parte di una sorta di comunità – quella di coloro che hanno avuto il privilegio di essere allievi di Emma Castelnuovo e di riconoscersi nel suo insegnamento.

Giuseppe A. Samonà

P.S. Non ricordo neanche come mi chiamasse, né come la chiamassi io – mi verrebbe da dire: Professoressa, e con i miei compagni: la Castelnuovo. Qui, me ne sono accorto solo alla fine, mi è venuto di chiamarla Emma. Quasi che avessi voluto dar corpo visibile al dialogo, alla confidenza adulta che si sono costruiti negli anni, pur nella distanza, nella mancanza di un reincontro diretto – ci sono stati, questi sì, alcuni segni, messaggi, affettuosi, significativi, due compleanni storici a cui son stato sul punto di recarmi, ma poi di nuovo ero troppo lontano… e comunque, soprattutto, c’era sempre il pensiero ricorrente, rassicurante – magico, infantile, forse, ma anche talmente tipico di chi emigra definitivamente, e perde la nozione del tempo laggiù – che a un prossimo viaggio in Italia sarei potuto andarla a trovare. Così, in ultimo, mi sembra di essermi messo a scrivere anche per il rammarico di queste retrouvailles accarezzate nei decenni, e mai avvenute, con la certezza che ormai con lei di incontri diretti, in carne e ossa, non ce ne saranno più. E con l’assurda speranza che in qualche modo queste mie parole le possano arrivare.

VERSIONE IN TRADUZIONE FRANCESE P. 2

(Traduzione di Sophie Jankélévitch)


De passage à Rome, le 14 avril dernier, j’ai appris d’un ami qu’Emma Castelnuovo venait de mourir. J’ai éprouvé une profonde émotion, comme, je crois, tous ceux qui, ayant été ses élèves, l’ont aimée et en ont été aimés. Que l’âge, fût-il vénérable – Emma avait eu cent ans il y a quelques mois – ne change rien au regret et au manque provoqués par la perte d’un être cher, important pour nous, jamais auparavant cela ne m’était apparu avec autant de force – dans le cas d’Emma, les nombreuses années écoulées ont même accru ma stupeur, comme si la mort ne pouvait l’atteindre, elle, si intelligente, si vivante, si curieuse.

Emma Castelnuovo en 2011

Je ne l’avais plus rencontrée, directement, depuis plus de quarante ans, à l’époque où j’étais au collège. Et pourtant, ce qui m’a ému n’a pas été la résurgence subite et fantasmatique de l’enfance, comme cela peut arriver quand disparaît un personnage lié à ces années lointaines, mais quelque chose de plus fort et de plus réel en même temps, quelque chose de difficile à expliquer, d’unique: en dépit de la distance, Emma est demeurée pour moi une présence lumineuse. A elle, à son enseignement, je suis resté uni, pendant toutes ces années, par un fil subtil, mais indestructible, nécessaire. C’est ce fil que sa mort a rendu incandescent, et avec lui, mon sentiment de dette, ma gratitude à son égard.

Cette émotion ne me quitte pas. J’ai cherché à la partager avec d’autres amis qui, comme moi, l’avaient eue comme professeur, et avaient, à travers elle, découvert un monde. Avec l’un d’eux, en particulier, nous avons évoqué la dernière fois que nous l’avions vue en photo, à l’occasion de la sortie de son très beau livre Pentole, ombre, formiche. In viaggio con la matematica, en 1994, “et elle était vraiment comme nous l’avions connue: extraordinaire…” Puis j’ai lu, ou relu, des articles qui avaient été écrits sur elle, d’anciennes interviews, des préfaces de livres, des pages ça et là, reparcourant avec attendrissement son histoire, qu’à l’époque de notre rencontre – au début des années soixante-dix, entre mes onze et mes quatorze ans – je ne connaissais pas, ou que je connaissais trop vaguement. (Cette histoire, je l’ai vraiment découverte lorsque j’étais adulte, et je n’en ai aimé Emma que davantage).

Emma Castelnuovo, déjà connue à l’époque de mon enfance comme “l’illustre mathématicienne” qui avait préféré l’enseignement aux enfants à une brillante carrière universitaire, est issue d’une famille elle aussi “illustre et mathématicienne”. Guido, son père, et Federigo Enriques, le frère de sa mère, sont en effet des figures décisives de la science mathématique italienne, et plus précisément de l’”école de géométrie algébrique”, dans la première moitié du siècle dernier. C’est en discutant un travail de géométrie algébrique qu’elle-même obtient sa maîtrise, en 1936, et elle commence tout de suite à travailler à la bibliothèque universitaire de mathématiques: mais les lois raciales, promulguées en 1938, lui font perdre sa place, ainsi que son poste dans l’enseignement secondaire qu’elle avait obtenu par sa réussite à un concours cette même année. Elle se trouve alors contrainte d’enseigner dans le cadre de cours organisés par la communauté israélite, sous le contrôle du régime, cours accueillant les étudiants juifs chassés des établissements publics, avec tous les risques que cela comporte (malgré l’accord “bienveillant” du régime, élèves et professeurs sont souvent objets de menaces et d’agressions de la part des milices fascistes). Jusqu’en 1943, année de l’occupation allemande: pour Emma et sa famille, qui décident de ne pas quitter Rome, cela signifie partager la condition tragique faite aux autres juifs restés eux aussi – changer de nom, se séparer, se cacher, être en danger perpétuel de razzias, de rafles, de déportation.

A la Libération, Emma est réintégrée dans le service public, et elle enseigne au lycée Torquato Tasso jusqu’en 1979 (tout en continuant par ailleurs son activité didactique, surtout grâce à des missions au Niger qui lui sont confiées par l’UNESCO dans les années quatre-vingts, nouvelle preuve de son inépuisable vitalité). A côté et à l’intérieur de cet enseignement (qu’elle a choisi, voulu), elle reprend son travail de recherche en didactique des mathématiques, comme en témoigne le titre d’un ouvrage révolutionnaire paru en 1963 (auquel elle se référait, plus simplement, comme à son “petit livre”) Mais il n’est pas difficile de retrouver, ailleurs que dans ces lignes, les étapes de son formidable parcours scientifique, didactique et humain, avec les publications et les distinctions qui l’ont jalonné. Quant à moi, je voudrais revenir, plus de quarante ans après, sur ma rencontre avec elle lorsque j’étais enfant, et dire comment et pourquoi cette rencontre, ces trois années pendant lesquelles j’ai été son élève, ont été fondamentales pour moi. Comme pour beaucoup d’autres de ses élèves.

Les parents qui dans les années soixante et soixante-dix inscrivaient leurs enfants au lycée Torquato Tasso à Rome, dans les sections A et B, le faisaient essentiellement à cause d’elle, Emma Castelnuovo, le professeur génial qui avait révolutionné l’enseignement des mathématiques – ou, comme on disait plus simplement, le professeur qui faisait aimer les mathématiques. Cela se produisait – du moins c’est ainsi que j’interprète aujourd’hui mon souvenir d’alors – à travers une sorte de révolution copernicienne, par laquelle, au lieu de partir de l’abstraction des formes géométriques, on partait de leur existence concrète, de leur nécessité, de leur fonctionnalité dans la réalité environnante – et par réalité, il faut entendre la nature, mais aussi l’art, la culture, la société tout entière.

Plus encore: la réalité est aussi celle que nous pouvons produire, fabriquer. Nous, ses élèves, nous construisions des objets, des instruments, allant de simples dessins à de véritables machines, avec son aide ou celle d’étudiants de l’université – entre autres, l’inoubliable “magicien” Raimondo – qui dans certaines circonstances vinrent à ses cours comme assistants, et en travaillant sur ces machines que nous construisions, nous réfléchissions… De nombreuses années plus tard, à Montréal, tout en expliquant à mes étudiants, lors d‘un cours d’introduction à la préhistoire, le propre de l’homme, et en cherchant à leur faire comprendre, y compris par des gestes, combien le pouce opposable, la main qui prolonge l’intelligence, et construit les outils, avaient été déterminants pour les débuts de l’aventure de l’humanité, je me suis dit tout à coup: Mais c’est Emma Castelnuovo… Et c’est en effet ce qui m’apparaît comme un des piliers de la révolution d’Emma: avoir remis au centre, à la base de l’instruction humaine, l’« axe main-cerveau-main ».

(Bribe de souvenir: nous, en train de construire avec ses fameuses bandelettes de carton des triangles et des carrés, pour nous apercevoir que les premiers sont fixes et que les autres s’articulent – puis d’observer, en marchant dans la rue, que les premiers, ce n’est pas un hasard, constituent la structure fondamentale des échafaudages… Et nous, captivés, envoûtés, désireux d’en savoir davantage…)

Cela, enfant, je ne pouvais bien sûr pas le comprendre, du moins pas en ces termes – mais j’étais en mesure de comprendre que cet enseignement était révolutionnaire, au sens où c’était complètement différent de tout ce qui m’avait été enseigné jusqu’alors, ou m’était enseigné en même temps par d’autres professeurs, par ailleurs excellents. Et comme tant de ses élèves, je l’ai compris tout de suite, et j’en suis tombé profondément amoureux.

J’ai également senti que cet enseignement allait bien au-delà des mathématiques (que j’ai aimées, durant ces années, comme jamais). J’ai senti qu’il stimulait ma capacité d’étudier, et plus encore, de grandir, de vivre pleinement: c’est avec Emma que j’ai appris, comme d’autres, à aimer l’étude, toute étude, puis découvert l’amour pour l’art, pour l’histoire, la curiosité en général et la passion – l’amour pour la vie, en somme –, la nécessité de ne pas se contenter de voir, pour développer ses capacités d’observation et donc d’analyse, pour découvrir sur le terrain que voir et observer sont deux choses différentes, et que la possibilité de la connaissance se trouve dans ce passage crucial de l’un à l’autre.

Les mathématiques, en d’autres termes, servaient à former à l’intérieur et à l’extérieur d’elles-mêmes. C’est par les mathématiques, d’ailleurs, que nous avons construit des tableaux et des diagrammes, pour réfléchir sur la faim et la soif dans le monde, sur la pénurie de l’eau, ou encore sur l’analphabétisme (comme en témoigne le titre d’une affiche que nous avions dessinée: Non ci devono essere più uomini fuori dalla Storia, Il ne doit plus y avoir d’hommes en dehors de l’Histoire). Car pour Emma, les mathématiques, leur enseignement, étaient une passion civile, un instrument nécessaire d’émancipation des individus, pour une société plus juste et libre.

En ce sens, elle était convaincue que dans ses classes tous devaient participer, avoir un rôle, que tous pouvaient apprendre − et même si, pragmatiquement, elle admettait qu’il y eût des élèves plus “faibles” et d’autres plus “forts”, elle s’ingéniait à faire en sorte que les uns aident les autres, à promouvoir un esprit de groupe, de solidarité. Elle avait, certes, un puissant sens du mérite, la conviction que celui-ci devait être reconnu, et une grande considération pour l’intelligence − mais également la conviction, tout aussi forte, qu’aucune faiblesse n’est immuable. Et si, comme certains l‘ont dit, elle se servait des mathématiques pour mettre ses élèves en compétition, ce n’était pas une compétition des uns contre les autres, mais de chacun avec soi-même, pour développer ses propres potentialités et finalement se retrouver.

En somme, Emma fut un “maître”, au sens plein, humaniste du terme (hélas, pour exprimer cette plénitude, je suis obligé d’utiliser le masculin, du moins en français comme en italien). On n’en rencontre pas beaucoup dans la vie, parfois même pas du tout − en ce qui me concerne, par exemple, il me semble n’en avoir connu que deux au cours de mes études ultérieures. Mais Emma a eu une importance particulière, parce qu’elle a été la première et que j’étais encore un enfant. Il est d’autant plus significatif que j’aie continué à tirer profit de sa leçon dans mes études d’adulte, et tout au long de ma vie, en explorant les mondes de l’Antiquité et la littérature, domaines pourtant bien éloignés (apparemment) des mathématiques qu’elle m’enseignait.

Des trois précieuses années pendant lesquelles je l’ai eue comme professeur, la plus exaltante a sûrement été la seconde, l’année 1970-71, celle de l’”exposition de mathématiques”. Durant toute l’année scolaire, aussi bien dans les cours réguliers du matin que pendant les heures spéciales instituées à cet effet l’après-midi, nous travaillâmes collectivement, à 171, soit tous ses élèves (sans exclusion, justement), avec elle et l’aide de quatre étudiants de l’université (le “constructeur” Raimondo, mais aussi Lucilla, Daniela, Fulvia), à la préparation d’une exposition destinée au public sur douze sujets de mathématiques dont chacun de nous devait illustrer une partie. L’exposition eut lieu (je me rappelle encore les dates) les 5, 6 et 7 mai, puis elle fut déplacée à Milan, en septembre de la même année, par un groupe d’élèves plus restreint.

Que raconter, en quelques phrases? Peut-être certaines sensations qui encore aujourd’hui m’appartiennent: l’incroyable désir de retourner à l’école même l’après-midi, l’atmosphère fébrile de ces rencontres, l’envie de comprendre et d’apprendre, pour partager tout de suite avec d’autres ce que j’avais compris avec mes compagnons d’aventure, et encore le bruit que nous faisions en montant les marches de l’escalier quatre à quatre, le premier jour de l’exposition, l’émotion d’accueillir le “vrai” public et de discuter avec de “vrais mathématiciens − notamment les universitaires Lucio Lombardo Radice et Paul Libois − le climat d’authentique éducation permanente qui se dégageait de ces discussions, avec l’idée (autre pilier de la révolution d’Emma) qu’on n’en a jamais fini d’étudier, d’apprendre, et que cela concerne aussi les professeurs, qui apprennent toujours de leurs élèves. Emma elle-même, d’ailleurs, je ne me la rappelle pas sur l’estrade, derrière son bureau, mais toujours en mouvement, à raisonner parmi nous, avec nous, comme si c’était seulement ensemble, en essayant, en tâtonnant, en se trompant, qu’on pouvait parcourir un chemin.

Oui, cet enseignement a vraiment été révolutionnaire, au sens le plus pur du mot. D’ailleurs, nous, ses élèves, l’avons compris peu après, quand, une fois sortis du collège, nous nous sommes quasiment tous jetés dans le feu de la “révolution” qui agitait encore les lycées italiens, juste après 68: tout pouvait être renversé, balayé, sauf ce que nous avait enseigné Emma, la première à nous avoir donné, à sa manière, le goût de “révolutionner” (je me rappelle aussi que quand je commençai à écrire mes premiers dazibao − ces grandes affiches inspirées de la révolution chinoise, sur lesquelles nous exprimions, avec des mots, des dessins, nos idées collectives de lutte et de révolte − j’eus l’impression d’avoir déjà un modèle: les fameuses pancartes d’Emma…). Ainsi, des années après, j’ai pensé, et je le pense encore davantage aujourd’hui, que lorsque cette euphorie révolutionnaire a commencé à diminuer, il est resté le tracé de son enseignement, base d’une révolution moins bruyante mais plus profonde, qui s’inscrivait dans la durée, parce qu’elle stimulait l’esprit critique, le sentiment de justice et en même temps la connaissance de soi en tant qu’individu, la liberté.

J’éprouve un sentiment étrange en écrivant ces lignes: de ce qui fait partie, impalpablement, de mon patrimoine le plus précieux et de ma manière d’être au monde, de ces années-là, de cet enseignement, je n’arrive pas à évoquer quelque chose de précis, un souvenir aux contours bien définis − c’est comme si les objets d’étude et les événements qui marquèrent cette époque étaient de l’encens, que nous aurions brûlé et dont il ne resterait que le parfum, inoubliable, et, çà et là, au hasard, quelques bribes: la construction des triangles et des carrés dont j’ai parlé plus haut, ou encore mes mains (toujours les mains…) étirant un morceau de tissu élastique sur lequel j’ai dessiné un cercle, et à l’intérieur de ce cercle un carré: le carré devient rectangle, le cercle ellipse… Et puis, il me reste aussi en mémoire un autre fragment, plus achevé, plus visuel que les autres, un bref épisode dont le temps passé depuis n’a en rien diminué l’intensité.

Nous revenons de notre expédition à Milan. A Florence, Emma demande au chauffeur de se garer. Elle veut nous montrer des chefs-d’œuvre, des monuments, surtout un certain tableau (je serais incapable de dire lequel, mais j’ai fini par me convaincre que c’était un Giotto; en tout cas, chaque fois que je revois un tableau de ce peintre, où que je me trouve, cette scène me revient en mémoire). C’est une journée froide, il pleut à verse. Nous hésitons, nous avons envie de rester dans le car, nous lui faisons remarquer que les conditions météorologiques sont exécrables. Mais elle n’en démord pas, elle nous assure que cela en vaut la peine, que nous allons faire une nouvelle découverte… Et nous voici en file indienne, en petits groupes, sous une pluie de plus en plus torrentielle, derrière elle, toute menue, comme toujours pleine d’une énergie et d”une vitalité qui ne reculent devant rien. De son pas léger, elle semble passer à travers l’eau tellement il en tombe, en agitant son petit parapluie comme un bouclier − et je revois aussi son visage, son regard, le regard pénétrant d’une femme qui ne m’a jamais semblé ni jeune ni vieille, mais comme au-delà du temps qui passe, simplement magnifique. Emma, qui la première nous a appris à penser.

Ceux de ses élèves que j’ai connus, à cheval sur les grandes et terribles années soixante et soixante-dix, et dont j’ai eu des nouvelles par la suite, ont suivi mille chemins divers: certains sont restés en Italie, d’autres non, certains ont continué dans les mathématiques, d’autres ont commencé d’autres études, ou n’en ont pas fait du tout, certains ont fait des découvertes importantes, ou de retentissantes carrières, ou encore mènent une vie retirée, soignent les gens, voyagent en mer, enseignent aux enfants, jouent dans un orchestre, construisent des meubles, des bateaux, ou fabriquent des bijoux (certains, aussi, sont morts) Mais tous, je crois, pourraient se reconnaître dans la plupart de ces lignes. C’est pour eux, plus encore que pour parler d’Emma à ceux qui ne l’ont pas connue, que je me suis senti en devoir d’écrire, surmontant, non sans effort, les réticences de mon intimité − ou mieux: pour « moi-avec-eux », pour se retrouver au sein d’une sorte de communauté − la communauté de ceux qui ont eu le privilège d’être les élèves d’Emma Castelnuovo et de se reconnaître dans son enseignement.

Giuseppe A. Samonà

P.S. Je ne me rappelle même pas comment elle m’appelait ni comment, moi, je l’appelais − je dirais Professoressa, e avec mes camarades de classe la Castelnuovo. Ici, je viens seulement de m’en apercevoir, c’est son prénom, Emma, qui m’est venu. Comme si j’avais voulu donner du corps et de la visibilité au dialogue, à la confiance adulte qui se sont tissés au fil des ans, y compris dans la distance, sans rencontre directe − il y a eu, certes, des signes, des messages affectueux, pleins d’attention, deux anniversaires historiques auxquels j’ai été sur le point de me rendre, mais encore une fois j’étais trop loin… et de toute façon, il y avait toujours cette pensée rassurante − infantile, magique, peut-être, mais tellement typique de qui émigre définitivement et perd la notion du temps, là-bas – : à mon prochain voyage en Italie, je pourrai aller la voir… Pour conclure, si je me suis mis à écrire, c’est aussi poussé, me semble-t-il, par le regret de ces retrouvailles dont j’ai caressé l’idée pendant des années et qui n’ont jamais eu lieu, avec la certitude que désormais il n’y aura plus de rencontres directes, en chair et en os. Et avec l’espoir absurde que ces mots puissent lui parvenir d’une manière ou d’une autre.

(Traduction de Sophie Jankélévitch)

VERSION ORIGINALE EN ITALIEN P. 1

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Giuseppe A. Samonà
Giuseppe A. Samonà, dottorato in storia delle religioni, ha pubblicato studi sul Vicino Oriente antico e sull’America indiana al tempo della Conquista. 'Quelle cose scomparse, parole' (Ilisso, 2004, con postfazione di Filippo La Porta) è la sua prima opera di narrativa. Fa parte de 'La terra della prosa', antologia di narratori italiani degli anni Zero a cura di Andrea Cortellessa (L’Orma 2014). 'I fannulloni nella valle fertile', di Albert Cossery, è la sua ultima traduzione dal francese (Einaudi 2016, con un saggio introduttivo). È stato cofondatore di Altritaliani, ed è codirettore della rivista transculturale 'ViceVersa'. Ha vissuto e insegnato a Roma, New York, Montréal e Parigi, dove vive e insegna attualmente. Non ha mai vissuto a Buenos Aires, né a Montevideo – ma sogna un giorno di poterlo fare.

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