La guerra che ti ruba gli anni. Con Romano Levantini, reduce del rastrellamento del Quadraro.

Romano Levantini è stato un affermato motociclista sportivo del dopoguerra, aveva 16 anni nei giorni delle fosse Ardeatine, quando nel corso di un rastrellamento al Quadraro di Roma, fu portato via dai nazisti. La sua rocambolesca e drammatica storia ce la racconta in dialogo con lui, Marina Mancini.

Prologo

Dopo pochi giorni dall’eccidio delle fosse Ardeatine, avvenuto a Roma il 24 marzo del ‘44, un altro crimine venne perpetrato nella città dei papi contro la popolazione civile.
Esattamente il 17 Aprile, all’alba, nel popolare quartiere periferico del Quadraro, oltre mille persone vennero prese nelle loro case, in quella che venne voluta e definita da Kappler come “ l’operazione balena”.

Uomini e ragazzi, tra i 16 e i 55 anni, vennero deportati nel campo di concentramento di Fossoli, stazione intermedia, prima di essere trasferiti nei lager tedeschi e polacchi.
“I tedeschi progettarono inizialmente l’eliminazione dei prigionieri, ripiegando successivamente sulla loro deportazione in Germania. Questi prigionieri, trasformati in “lavoratori volontari”, furono ricordati successivamente come “gli schiavi di Hitler”
Di questi deportati solo la metà, circa, riuscì a fare ritorno a casa, tra questi il signor Romano Levantini e suo fratello Ario.

Romano Levantini

Roma, quartiere Quadraro, 17 Aprile 1944.

“Mi racconti come è andata quella mattina? »

Una porta si apre e lascia passare un vento freddo e la sua amarezza. Una babilonia di suoni e di emozioni.

Romano mi risponde, con il suo sguardo dolce, quello che conosco da sempre, fin da adolescente, quando mi accoglieva sorridente nella sua casa, il papà gentile di un mio compagno di liceo. Un papà di cui conoscevo le vicissitudini di grande sportivo, ignoravo invece un altro passato, quello che mi racconta oggi.

Così scopri, ogni volta, con meraviglia, come la storia passa sopra la gente, e quella stessa storia, nonostante gli anni volati, diventa anche tua. Quando incontri quello sguardo, quegli occhi e quella voce che raccontano.

“Mi dici cosa si prova ad essere portati via dal proprio letto e dalla propria vita a 16 anni?”

Romano Levantini ieri

Provo ad anticipare, azzardo impaziente: “rabbia? Odio?” …tutto sbagliato!

“Ma no”, mi risponde, “no, rimani incredulo, è come quando per strada ti strappano la borsetta e per un istante non capisci che succede. Li guardavo, erano in due, nella divisa delle SS, guardavo i loro occhi freddi e mi chiedevo, ma perché? Perché tutto questo? Perché ci odiano così tanto?”.

Ritorna il grande perché?

Ma dove si può trovare una ragione a queste enormi tragedie? Probabilmente la si può rintracciare solo in acque che parlano, sporche, di malattia, di disumano e di freddezza.

Romano ha 16 anni nel 1944 ma i suoi occhi avevano già visto tanto.

Il 10 settembre del 1943, a pochi giorni dall’armistizio, era in giro per Roma con la sua bicicletta, a Porta San Paolo, vicino alla Piramide Cestia, trova frammenti di quel che rimane di un combattimento.

“Erano carabinieri”, mi dice, “tutti giovani, che avranno avuto?.. venti, venticinque anni, forse. Trecento ragazzi, con un buco in fronte e gli occhi aperti, sbarrati dalla sorpresa e dalla morte”.

Quanto diffuso orrore masticato in quegli anni, e mai digerito, perché ancora, come se il tempo non fosse passato, come se ieri si intrecciasse all’oggi, Romano mi guarda e sembra chiedere a me: “ ma come è possibile?” con quell’espressione certa di chi non ha capito o trovato un movente.

Così quando i passi pesanti risuonarono all’alba, nel cortile della sua casa, quando i calci dei fucili picchiarono, senza possibilità di errore, alla sua porta, lui era li con la sua famiglia, sua madre, suo fratello a chiedersi, di nuovo “come è possibile?”, come se, in realtà, non avesse visto niente, come se niente la guerra gli avesse già insegnato.

“Ci hanno portato fuori e ho visto una fila di uomini lungo la strada, addossati al muro, saremo stati più di mille, avevo paura certo e non mi spiegavo, ero piccolo, avevo solo 16 anni”.

In poche ore raccolte tante vite, un rastrellamento a tappeto, gente di un intero quartiere. Uomini e ragazzi, tra i 16 e i 55 anni presi a tradimento tra la notte e la promessa di un nuovo giorno.

Tutto programmato, perfetto, in una sincronia delle azioni asettica, razionale, da laboratorio scientifico.

Rauss, fuori dalla tua casa, il fucile piantato tra le scapole, schnell sali veloce, i camion piccoli attendono, stretti, in tanti, quanti ne può contenere una lattina di sardine.

Tre giorni nei capannoni di Cinecittà e poi di nuovo via, rauss su un treno e poi su carri bestiame, Terni, Firenze, Carpi di Modena, fino alla destinazione transitoria, un passaggio per il lager finale.

Fossoli, a 6 chilometri da Carpi, un campo di concentramento.

“ Nel tragitto fino a Terni ci siamo fermati dopo due, tre ore, di viaggio, era notte. Ci hanno fatto scendere per fare pipì, che dolore e che freddo ho sentito, dopo tutta quella fatica in piedi”

“Non viaggiavate seduti?”

Mi guarda Romano, e mi sorride, non me lo dice che sto chiedendo una stupidaggine, perché mi vuole bene.

“Beh! Cara mia, non stavamo mica andà a fà una villeggiatura! Eravamo tutti in piedi, non c’era posto, in quaranta, come i ladroni, su un camioncino, se mi fossi sdraiato qualcuno m’avrebbe potuto dire: A Roma’ ma che stai a fà?”

Il campo di concentramento in Italia era ben fatto, doppia recinzione, tra l’una e l’altra, nella terra di mezzo, pascolavano i cani dei killer. Il campo accoglieva ebrei e prigionieri civili, destinati ai lavori forzati in Germania. Al loro arrivo li rasavano tutti. Niente capelli, stessi vestiti, via ogni identità. Uomini e donne come rane nel mondo.
Mi racconta Romano di quei 56 giorni passati nel campo. La camerata con i letti a castello, le 12 finestre alle pareti, senza vetri, il freddo e i turni in cui ciascuno cedeva per qualche ora la sua coperta per nascondere le scuri al vento.

“La mattina ci davano “uno sgommarello” di orzo. L’hai mai bevuto l’orzo senza zucchero? Beh provalo, fa veramente schifo, noi ci mettevamo un pizzico di sale. Ma era roba calda. A mezzogiorno c’era la minestra e poi basta, la sera andavi a dormire, non serviva la cena. Qualcuno la mattina non si svegliava più”.

Eri vivo o morto a seconda di un capriccio, di uno schioccare di dita, uno sguardo restituito o un altro non colto, poteva decretare la morte.

“ Mi ricordo che un ufficiale tedesco, credo fosse un ufficiale, chiamò un ragazzo, era un ebreo, lui non rispose, testa china, continuò a camminare. L’ufficiale estrasse la pistola….”.

Uno schioccare di dita, un capriccio … “ gli ha sparato in testa, il ragazzo ebreo cadde a terra, ucciso”.

“Ma come è possibile? Ho pensato, adesso gli faranno qualcosa, come si può ammazzare una persona così, per niente. Ma il giorno dopo ho visto che l’ufficiale aveva una stelletta in più” .

Non smetto di piangere, accompagno con le mie lacrime lo scendere di questa pioggia in una giornata fredda e poco accogliente.

“Sopravvivenza era l’unico pensiero”.

Passano quei 56 giorni di pena e coraggio, quei 56 giorni di roulette russa, quell’assedio costante nel cuore. Fino all’alba di un nuovo viaggio. Caricano i deportati del Quadraro su un altro treno, carri bestiame, questa volta la meta è la Germania o la Polonia, destinati a lavori incerti in gelide fabbriche.

Romano e suo fratello Ario sono fra questi.

Romano Levantini oggi, con Marina Mancini. Foto di Andrea Ramello.

“Avevo raccolto un ferro, per terra e piano, piano lo affilavo, volevo scappare. L’idea era quella di rompere un’ asse del pavimento del treno. Ma quando ci hanno fatto salire ho visto che le assi erano rinforzate con delle sbarre di ferro. Li ho pianto, in quel momento mi sono sentito veramente disperato”. Ma non si arrende, attende la notte e poi chiama il fratello lo sprona, lo incoraggia :“scappiamo, Ario io me ne voglio andare”.

Nonostante la paura, a dispetto delle minacce “se mettete la testa fuori c’è un soldato con il mitra che vi ammazza”, intima un Kapò.

Si calano dal finestrino del treno, fa fatica Romano, ha solo sedici anni ed è denutrito, lo aiuta il fratello, insieme riescono a scivolare sulla terra e scivola via il treno dietro le loro spalle.

Quel viaggio, nel carro bestiame, viene sospeso a 12 chilometri da Verona.

Ricorda poi il cammino di ritorno verso casa, a piedi, attraverso un’ Italia stanca e lacerata. I rifugi di fortuna nelle stalle, nelle case diroccate, sotto un cielo caldo, la solidarietà della gente che gli cedeva un piatto di vita e di speranza sapendo perfettamente quel che gli costava: “immediata fucilazione per chi nasconde rifugiati e fuggiaschi” .

Il pane al peperoncino dei soldati indiani, l’arrivo a Firenze, città ancora sotto assedio, di nuovo l’arresto: “…avevano ammazzato un tedesco, ci fermarono in una piazza a Firenze, in dieci, dovevano vendicare il soldato, e mentre aspettavamo in cella lo sai che fa Romano?..me ne sono andato a dormire, non ce la facevo più, pensavo: facessero pure quello che vogliono, sono stanco!”

Il giorno dopo li fanno uscire, al muro, al posto del loro sangue, altro sangue sarà versato. “..Un poveraccio, lo avevano preso con in borsa una pistola, chissà se era stato veramente lui ad ammazzare quel tedesco”.

I primi giorni di agosto lasciano Firenze, la lasciano in odore di liberazione, ricomincia il cammino verso Roma, per ritrovare, dopo alcuni giorni la loro casa e una città finalmente liberata. Addosso la fame e la stanchezza per ciò che era stato vissuto, subito e mai digerito. E una camicia con cento pidocchi: “mano a mano che li toglievo li contavo… uno, due, tre….a cento mi sono fermato ma ce ne erano ancora tanti sulla maglietta”.

Mi guarda e adesso ride Romano mentre mi descrive i pidocchi e i gesti buffi per ammazzarli. Quei piccoli gesti umani utili, forse, anche a calpestare gli indigeribili ricordi che lo accompagnano da settanta anni.

Marina Mancini

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