La scommessa sull’Europa.

Sarebbe un errore credere che la competizione elettorale del 25 maggio, possa risolversi in un improbabile referendum sull’euro. Ancora una volta sul futuro europeo pesano la scarsa visione degli antieuropeisti ed un informazione che non aiuta a chiarire i reali termini di queste importanti elezioni.

“Il problema non è di scegliere tra essere indipendenti o unirsi, ma tra essere uniti o scomparire” (Luigi Einaudi).

La consueta superficialità della politica di questi tempi e non solo italiana, ha di fatto ridotto le prossime elezioni europee, in uno sterile ed inutile referendum pro o contro l’euro. Dimenticando che l’Europa è in costruzione e che, dopo anni di politiche di corta visione, si ha, con questo voto, la possibilità di far ripartire un progetto ambizioso di unificazione europea che sia concreto e capace di fare di noi dei protagonisti della globalizzazione.

Purtroppo, sui giornali e alla televisione, il tutto sembra ridursi nella contesa “euro si, euro no”, o peggio ancora “Europa si o no”. Sono delle contese anacronistiche ma utilizzate strumentalmente dalle forze antieuropeiste per uno scopo interno. Chi le suscita in realtà cerca di cavalcare quel malcontento nato dal continuo aggravarsi delle condizioni di crisi economica. Su questo tema certo non si possono nascondere le responsabilità della Commissione europea, ma le proposte di uscire dall’euro e finanche dall’Europa, o anche la sola pretesa di disattendere gli impegni e trattati assunti, costituiscono una deleteria semplificazione utile appunto solo a cavalcare la rivolta per guadagnare punti nel proprio paese.
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Il fatto è che come testimonia il saggista Belpoliti nel suo recetissimo libro: “L’età dell’estremismo”, la rivolta è cosa ben diversa dalla rivoluzione e l’esempio europeo è in tal senso illuminante. Nella rivoluzione, in ogni rivoluzione, esiste un progetto politico di radicale trasformazione nei contenuti, nelle forme e nei metodi; la rivolta, viceversa, come quella antieuropea, finisce per essere fine a se stessa, con la pericolosa tendenza ad essere comunque “contro” senza avere alcuna proposte alternativa credibile.

Non è un caso che in Italia, in tempi recenti, abbiamo assistito a numerose rivolte, spesso caratterizzate dall’aggettivo “antipolitiche”, che nascondeva appunto la mancanza di visione politica, un malcontento reale a cui tuttavia gli stessi rivoltosi erano incapaci di proporre cure e soluzioni valide.

Le forze antieuropeiste italiane come la Lega o il movimento di Grillo, insistono nel voler mettere sotto accusa l’euro (che è divenuto una sorta di totem del male) e addirittura l’Europa. A volte arrivando a paventare dei referendum per l’uscita dell’Italia dalla comunità europea. I sondaggi dimostrano che queste forze creando il “nemico” euro riescono a raccogliere consensi. Ma la realtà della crisi europea è ben più complessa e certamente la scarsa informazione favorisce la popolare vulgata che vuole la moneta unica come l’origine di ogni male.

Ma pare evidente che questo consenso all’antieuropeismo sia sostanzialmente, a detta di molti analisti, più ascrivibile ad una contestazione antisistema che ai demeriti (che pur ci sono) dell’Europa. Un consenso che si limita alla protesta senza effettive proposte. Tuttavia, l’assenza di visione politica degli antieuropeisti non ne riduce la pericolosità e l’allarme per il futuro della comunità. Un loro successo rischierebbe di rendere, la già precaria coesione europea, ancora più vulnerabile, accentuando i limiti, già manifestatesi, di un’Europa che nell’ultima legislatura è stata retta, non a caso, da maggioranze tendenzialmente euroscettiche e di destra. L’Inghilterra di Cameron, la Germania di Merkel, l’Italia di Berlusconi e solo da qualche anno la Francia è passata ad Hollande.

Proprio il blocca euroscettico, non ha consentito quel coraggio e quello slancio che erano necessari in una fase cosi dura come quella cominciata con la crisi economica e finanziaria del 2007. Un blocco che ha troppo spesso preservato gli interessi dei singoli (Germania, Francia, Inghilterra, ecc.) piuttosto che ragionare in termini comunitari. Con il prevaricante ruolo della Germania, che sembra essere l’unico paese europeo a non soffrire della recesione.

Questo ha favorito in Europa quel vento di rivolta (senza rivoluzione) con il successo possibile degli antieuropeisti in Francia come in Italia, in Inghilterra come in Olanda e in tanti altri paesi.

Oggi sono 47 i seggi tenuti nel Parlamento europeo uscente dagli antieuropeisti rappresentanti di quasi tutti i paesi della comunità (dalla Slovacchia all’Austria, dal Regno Unito che ne conta 10 all’Ungheria, Finlandia, Olanda fino all’Italia che ne contava 8), c’è da temere che dopo il 25 maggio ne avremo molti di più.
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Si è detto che molte di queste forze, come la Lega e Grillo, parlano di Europa ma pensano all’Italia. Il loro sarebbe un successo spendibile per invocare nuove elezioni (come ha già minacciato Grillo) un operazione che bloccherebbe prematuramente l’avvio delle riforme operate dall’attuale governo Renzi. Un successo che come vedremo avrebbe effetti pericolosi non solo per l’Europa ma per lo stesso nostro paese spingendoci verso una deriva di pericoloso isolamento. La realtà è quindi che Grillo cerca una risalita nei consensi dopo mesi d’improduttiva presenza dei Cinque stelle, con annosi problemi di democrazia interna che hanno finito per allontanare molti simpatizzanti. Ma lui sa che gli italiani hanno memoria corta e con qualche colpo di teatro in più si puo’ ben riconquistare il tempo perduto.

Proprio perché la proposta entieuropeista trasuda di demagogia, diventa necessario, riflettere sull’antieuropeismo a partire da quel velleitario ritorno alle monete nazionali.

Uscire dall’euro.

Uno degli sport preferiti per oscurare i temi veri e ancora insoluti, è diventato il dire “Usciamo dall’euro”. Questa affermazione è illuminante per far comprendere pienamente cos’è il populismo. Si tratta di un affermazione banale e se per paradosso si volesse ipotizzarne il verificarsi, tutti si accorgerebbero sulla propria pelle, della pericolosità di un tale manovra.

Per questo credo che quanto andremo a vedere lascia speranzosi gli europeisti, sul contenimento di forze come quelle grilline. Infatti, gli italiani hanno nel tempo dimostrato di essere magari anche un po’ folli e opportunisti, ma difficilmente si possono considerare cosi stupidi da volersi ulteriormente impoverire, per inseguire le avventuriste pretese antisistema di forze prive di progetto e che fanno della disgregazione del sistema la propria ragione sociale.

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Uscire dall’euro per tornare alla lira, porterebbe certamente ad una repentina svalutazione della moneta, la quale rischierebbe di avviarsi ad un continuo meccanismo di svalutazione che, alla lunga, innescherebbe un processo d’inflazione con una grave perdita economica sul valore del nostro denaro e quindi renederebbe l’export italiano estremamente problematico, il che in tempi di mercato globale non è proprio il massimo.

Si dirà che questo potrebbe favorire i consumi interni e l’esportazione dei nostri prodotti divenuti meno cari. E’ vero fino ad un certo punto, intanto perché le politiche del commercio si muovono oggi diversamente che negli anni settanta e poi il deprezzamento della moneta innescherebbe un’effetto immediato e temibile, una sorta di sindrome argentina, con una corsa a ritirare gli euro, sicuramente più forti della lira, per inviarli altrove, salvando ricchezza. Una fuga di capitali piccoli, medi e grandi, che prostrerebbe l’economia del paese.

Ancora, va aggiunto, che il potere d’acquisto della lira sarebbe nettamente inferiore, e questo comporterebbe, specie per le materie prime (di cui l’Italia è priva da sempre), un aumento della spesa con ricadute economiche facilmente prevedibili, anche sugli eventuali benefici per l’export e per i consumi interni. L’aumento dei prezzi per il consumo di energia elettrica, gasolio, benzina, ecc. drammatizzerebbe la condizione economica di tutti. Dalle imprese ai pensionati, dai ceti meno abbienti, fino alla classe media già impoverita da decenni di stagnazione economica. Si darebbe il via a nuove aggressive operazioni di finanza a tutto rischio della già precaria economia reale.

Lo stesso debito pubblico diverrebbe un moloch spaventoso con un tasso d’interessi che di fatto ci farebbe precipitare nel fondo del fallimento, con più nessuna possibilità di rinegoziare il famoso “fiscal compact”. Certamente, il precipitare dell’Italia metterebbe in crisi tutta la costruzione europea ma i primi a crollare sarebbero i paesi europei più deboli (Grecia, Portogallo, Spagna ed altri).

Se un’Europea sempre più convintamente unità ha notevoli potenzialità, un’Italia sola ed estraneata dal processo europeo, sarebbe in balia del mercato. Incapace di fare fronte ad una forma di colonizzazione finanziaria prima e reale poi, specie da parte dei paesi emergenti, Cina, India, Emirati Arabi ed altri. Con una perdita cospiqua del proprio capitale finendo per diventare un satellite di qualcuna di queste nuove potenze.

L’Italia che, alle ultime elezioni europee, temeva l’arrivo dei muratori rumeni e dell’idraulico polacco, oggi deve vedere di non perdere ulteriori pezzi di economia a vantaggio dei paesi asiatici o latino americani. Per questo occorrerebbero politiche economiche con regole generali ed uscire dalle logiche da furbetti del quartierino. Nella marcia verso l’unità occorre vedere non tanto il contingente o il particolare, ma avere una vista lunga proiettata sul futuro e non solo sull’immediato.

L’affermazione che è tutta colpa dell’euro è evidentemente miope ed incompetente. La colpa dell’attuale crisi economica non è ascrivibile alla moneta unica, ma va ricercate in una gestione della finanza mondiale sostanzialmente incontrollata, e in un’assenza di propulsione dell’economia reale, a favore di una finanza che nei decenni precedenti alla crisi del 2007 si è occupata solo di speculazione e dividenti e quasi mai di investimenti strutturali.

Come ha rilevato l’economista americano Ferguson, nei secoli passati l’economia della finanza era un supporto generatore di moneta e liquidità di stimolo all’investimento e alla produttività reale mentre oggi, come ha sostenuto anche Giorgio Ruffolo, si assiste ad un’inversione di questo rapporto finanza ed economia, con una crescita esponenziale della prima a cui corrisponde un sostanziale rallentamento del prodotto interno lordo. Insomma, da Regan e Tatcher in poi, la produzione di ricchezza non è stata più finalizzata allo sviluppo e all’espansione economica diventando un generatore di denaro per il denaro. Costruendo la poca virtuoso idea che la speculazione finanziaria potesse essere una magia per arricchirsi senza lavorare e senza investire. Una moneta che non è più mezzo ma che diventa scopo. Con l’aggravante che lo Stato è costretto a surrogare il mercato con interventi economici a sostegno della crescita per sopperire ad un’anarchia finanziaria che alla lunga (come dimostrano i tanti movimenti sorti spontaneamente nel mondo) puo’ costituire un elemente destabilizzatore delle società specie quelle occidentali e democratiche.

Questo è solo uno dei motivi, ma sufficiente chiaro per far capire che su questo genere di cose, cercare la colpa nella divisa europea e perlomeno fuorviante. Purtroppo negli ultimi anni l’Europa, che come detto non è scevra di colpe, ha dovuto occuparsi di paesi che hanno barato, arrivando ad esibire bilanci falsi (come la Grecia) in talaltri, hanno tenuto una gestione allegra dei propri conti pubblici (come l’Italia) finendo per costituire un problema per gli equilibri economici europei. Il che non puo’ che irritare paesi dalla visione economica “etica” come la Germania della scuola di Francoforte.

Anche in questo caso non si comprenderebbe quale sia la colpa dell’euro. La realtà è che, indipendentemente dalla moneta, le colpe della crisi economica hanno origine oltreoceano; colpe che si assommano a quelle interne ai singoli paesi, come l’Italia, che negli ultimi decenni hanno rinunciato, per vicende squiitamente interne e non europee, a qualsivoglia politica di rilancio, finendo dopo due decenni di stagnazione per essere sospinti dalla crisi in recessione.

Non è colpa dell’euro se per venti anni l’Italia ha dibattuto su Berlusconi senza fare alcuna riforma strutturale, senza preoccuparsi di politiche del lavoro o di creare un nuovo piano industriale e di rilancio dell’impresa. Non è colpa della Merkel se l’Italia da destra a sinistra non ha saputo valorizzare, per decenni, le proprie risorse e capacità, lasciandosi incancrenire in un immobilismo senza prospettive.

Non è l’euro che è pericoloso ma semmai le cattive politiche economiche che lo guidano.

Il punto centrale diventa quindi come limitare la volatilità finanziaria e l’eccesso di accumulo monetario senza investimenti. Qui occorrono politiche regolamentate in sede europea che inducano la finanza a riprendere un sano rapporto con l’economia, in un mondo più regolato e finalizzato alla produttivitaà e allo sviluppo d’impresa. In primo luogo, come è stato fatto notare tra gli altri, anche da Monti oltre che da Fantacci, occorrerebbe una guida economica centrale sorretta da una BCE che davvero possa dirigere le politiche bancarie su tutta l’Europa anche con la possibilità di produrre moneta per investimenti, in secondo luogo il sistema bancario andrebbe riportato ad una maggiore divisione di ruoli, costruendo un sistema in cui accanto alle banche finanziarie, vi siano banche di credito, la cui attività fosse finalizzata al sostegno ed incentivo alle imprese. Si tratta di regole essenziali ma necessarie ad invertire una tendenza di politica bancaria sempre più pigramente tesa sui dividenti finanziari e sempre meno compresa in un sistema di sviluppo industriale e dell’impresa. Occorre ricostruire una cultura del servizio bancario che nel tempo è andata perduta.

Il problema, come rivelato ancora da Monti (Democrazia in Europa), è essenzialmente di armonizzare le politiche economiche con una banca centrale che parli per tutti, con il prosieguo di azioni d’imposte, avviate proprio con il suo governo, per ricavare maggiori utili pubblici dalle speculazioni finanziarie. Insomma, il famoso aumento d’imposta sulle transazioni e sulle rendite finanziarie che solo ora sembra saranno in Italia equiparabili alle imposte sulla produzione. Ma anche su questo tema occorre armonizzare le politiche economiche dei vari membri della comunità.
Naturalmente questo processo di armonizzazione mette in discussione il tema delle sovranità nazionali, tema delicato e per alcuni paesi, Francia inclusa, ancora oggi difficilmente digeribile.

Eppure, avere una fiscalità omogenea su tutto il territorio europeo, permetterebbe anche una politica d’import/export più competitiva in chiave globale cosi da evitare le mille furbizie del mercato a danno ora di uno, ora di un’altro dei partner europei. La realtà è che ci sono ancora troppe diffidenze, sollecitate, da politiche europee che troppo spesso sono state utilizzate da governanti poco illuminati, soltanto per gli interessi del proprio giardino.
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Tuttavia, è bene ricordare che Einaudi sosteneva che: “Il problema non è di scegliere tra essere indipendenti o unirsi, ma tra essere uniti o scomparire”. Trovo che questa frase sia di grande attualità e ben rappresenti la pericolosità della seconda opzione dei populisti come Grillo o la Lega, ovvero quella di uscire addirittura dall’Europa.
Uscire dall’Europa sarebbe per l’Italia terribile e ci aprirebbe le porte ad un pericoloso isolamento. Intanto, sul piano economico con una perdita di partecipazione ai tanti progetti economici e non solo che ci vedono coinvolti.
La realtà e l’auspicio è che gli elettori siano illuminati e che capiscano che avventurismi come quelli proposti dalla Lega Nord o dai penta stellati, servono solo ai loro interessi di bottega, per avere un maggior peso nella politica interna italiana. Come non serve la demagogia di Tsipras e dei suoi sostenitori. Che confusamente propongono cose come l’esborso di 100 miliardi di euro per 10 anni per asumere 5/6 milioni di lavoratori, senza poi dire come, dove, quando e perché. L’Europa e l’Italia non hanno bisogno di elettoralistici proclami, ma di cose concrete.

L’Europa unità è un sogno ma si realizza non con i sogni, ma con atti concreti. Peraltro la lista Tsipras è in netto calo anche nei sondaggi rilevando come l’operazione nostalgia avviata dalla Spinelli con il sostegno di Vendola, fa ancora una volta poca presa sulla realtà italiana.

E’ criticabile il cieco rigorismo della Merkel che non considerà che la velocità europea deve misurarsi in un continente che procede con tempi e modi diversi che richiedono tempo e perseveranza per essere messe nella giusta sintonia, ma come si fa a non essere d’accordo, tuttavia, con la premier tedesca, sul punto che essere in Europa richiede anche assunzione di responsabilità anche in tema di debito pubblico?
Il fiscal compact è una dolorosa misura, che magari si puo’ ridiscutere, ma un tetto sotto cui tutti si devono riparare è necessario se si vuole guardare ad un’Europa che cresca omogeneamente senza gli attuali squilibri.

La proposta del PSE e per l’Italia del PD sembrerebbe puntare ad un’inversione di tendenza, per un’Europa più coraggiosa che crei sistemi comuni di lotta all’evasione fiscale, che faccia passi in avanti verso un parlamento che abbia poteri reali e sovranità effettiva per legiferare su tutto il territorio. Già un’importante novità è che per la prima volta il Presidente della Commissione sarà scelto dai cittadini europei e non più dai capi di governo di ciascun paese. Questo vuol dire che vincere o perdere fa davvero la differenza, perché chi vince potrà imprimere con forza la sua azione per o contro l’Europa. E chi è per l’Europa dovrà anche dire quale Europa. A questo va aggiunto che il potere di veto deve essere limitato, altrimenti ogni paese si opporrà a qualsivoglia direttiva sia contraria ai propri interessi specifici.
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I popoli europei per la prima volta decidono di più. E’ una responsabilità a cui nessuno puo’ o deve sottrarsi. Perché è evidente che l’Europa è il futuro e non potrà che essere cosi. Chi dice il contrario è in malafede ed ancora una volta sta ingannando l’elettore. In Ukraina (mentre da noi si disserta di quote latte) c’è chi muore per entrare in Europa, perché sa che quella è l’occasione, come lo è stato per ricomporre storiche fratture tra l’est e l’ovest, per riconciliare avversari storici come la Francia e la Germania, per avere paesi come la Croazia che cosi ha guadagnato un posto al sole nella difficile regione dei Balcani.
Non c’è solo l’economia c’è molta storia e cultura che ci unisce e c’è la volontà, uscendo ciascuno dalle proprie miserie, di costruire un grande paese.

Nicola Guarino

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Nicola Guarino
Nicola Guarino, nato ad Avellino nel 1958, ma sin dall’infanzia ha vissuto a Napoli. Giornalista, già collaboratore de L'Unità e della rivista Nord/Sud, avvocato, direttore di festival cinematografici ed esperto di linguaggio cinematografico. Oggi insegna alla Sorbona presso la facoltà di lingua e letteratura, fa parte del dipartimento di filologia romanza presso l'Università di Parigi 12 a Créteil. Attualmente vive a Parigi. E’ socio fondatore di Altritaliani.

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