Stefano Calvagna: Assolto con formula piena dall’opinione pubblica

L’errore giudiziario, il tema penitenziario sono al centro dell’attuale dibattito nella società italiana. In attesa di una riforma che non arriva mai, nel pieno della polemica sulle parole del Presidente Napolitano che propone di considerare, di fronte al dramma delle carceri affollate, la possibilità di una nuova amnistia, ci sembra interessante il racconto del caso Calvagna, giovane regista che ha provato la tragica esperienza carceraria.

Dal 1988 ad oggi 50.000 persone sono state vittime di errori giudiziari e lo Stato ha versato come risarcimento quasi 600 milioni di euro. Ma non tutti potranno essere risarciti, perché l’errore, a volte, non è dimostrabile, mentre con nonchalance la presunzione contraria sembra aver sconfessato il motto “in dubio pro reo”. Anche nel mondo dell’arte può succedere l’inverosimile che supera l’immaginazione. Il giovane regista Stefano Calvagna è stato vittima di un errore giudiziario, anzi, di un vorticante paradosso non revisionato. In questo caso la politica non c’entra nulla, come è fuori da ogni nostra intenzione fare della speculazione per interesse di bandiera, sia chiaro.

Se le sentenze si debbono accettare, si può senz’altro commentarle, anzi, si può fare anche di più: addirittura mettere in scena e interpretare la storia dalla quale scaturiscono. Dopo aver subito un tentato omicidio a colpi di pistola (ben sette) il 17 febbraio 2009, Calvagna venne arrestato dalla polizia e rinchiuso nel carcere di Regina Coeli con molteplici accuse.

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La più clamorosa, davvero incredibile, fu quella di figurare come il mandante del tentato omicidio, cioè di aver inscenato una farsa ai suoi stessi danni. Degli esecutori non resta traccia, come dell’esito delle investigazioni. I responsabili, quindi, sono tuttora in libertà. Uno dei sette colpi sfiorò l’arteria della gamba sinistra di Calvagna, che se fosse stata colpita gli avrebbe provocato la morte per dissanguamento nel giro di pochi minuti. Forse neanche un maestro del thriller sarebbe arrivato a tanto. Calvagna è di diritto l’uomo più coraggioso al mondo, quindi. Almeno questo, sarebbe da riconoscerglielo.

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Qualcuno ha paragonato l’evento ad un intreccio kafkaiano, ma c’è ben poco da ridere. Nel mezzo troviamo minacce, estorsioni, difficoltà produttive, arresti domiciliari. Ma anche e soprattutto un libro e un film: “Cronaca di un assurdo normale”, realizzato in condizioni impossibili. Il bel lungometraggio, in particolare, è stato girato tra una palestra e l’abitazione di Calvagna proprio durante gli arresti domiciliari, per giunta in poco più di due settimane, con un budget ridotto all’osso.

L’uomo Stefano Calvagna ha vinto contro la giustizia, non si è lasciato piegare, ma altri ne possono rimanere schiacciati per sempre. Gli esempi, anche celebri, sono sotto gli occhi di tutti. Lui ha resistito ed ha reagito. La sventura non gli ha impedito di continuare ad essere definito dal maggior critico cinematografico italiano, Gian Luigi Rondi, il Quentin Tarantino italiano. Alla malasorte si può contrapporre, sic et simpliciter, un’opera. E questa sembra una risposta altrettanto inusuale. Perché se si è vittime e non carnefici, spesso le energie vanno in riserva. “I sei metri quadri che mi rinchiudevano limitavano decisamente la mia vista, lì dentro faceva giorno e lì dentro faceva notte, non importava se pioveva o c’era il sole. Il cielo era sempre a quadri”, ha scritto Stefano Calvagna, che è stato facilitato, nella ricostruzione, dalla lucidità dell’innocenza.

Uscire allo scoperto ha significato la decisa non accettazione del dramma, prima che della condanna, la rielaborazione puntigliosa e non la depressione reattiva. Gli errori giudiziari pesano, si trasformano in un incubo, specie nell’amplificazione della stampa, dei media, per chi non vive nell’anonimato. Insomma, il regista ha subito anche un processo mediatico, ma non si è fermato. E’ forse colpa dei processi indiziari, direbbe il giudice Ferdinando Imposimato.

E viene in mente una celeberrima frase di Cesare Beccaria tratta da “Dei delitti e delle pene”, quando l’autore allude all’“errante instabilità delle interpretazioni” dei giudici. Il caso Tortora insegna, ma pensiamo anche al caso Moro, all’imprecisione tra la verità storica e una sentenza, un giudizio, impietoso quanto brutale. L’avvocato Carlo Taormina discute spesso dell’eccessivo potere dato al pubblico ministero.

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Basterebbe leggere “Cento volte ingiustizia” (Mursia 2009), il libro di Lattanzi e Maimone, che raccoglie illustri interventi su ciò che può accadere ad un condannato. Per non parlare dei guasti provocati dall’arretrato e dalla giustizia ritardata: i fascicoli accumulati superano i 6 milioni, a cui si devono aggiungere i 3,5 milioni circa di procedimenti penali pendenti.

Penso a Stefano Calvagna, come penso al cittadino più vituperato d’Italia, che nessuno nomina mai: Giuseppe Gulotta, che ha trascorso 22 anni in carcere prima di essere dichiarato innocente con formula piena. Ha chiesto 69 milioni di euro di risarcimento. Ma attenzione: non si sa ancora se la sua causa verrà accolta.

“L’imputato risulta colpevole del reato contestato al di là di ogni ragionevole dubbio”, si deve precisare: sì, ma quando? Per questo Stefano Calvagna è assolto dall’opinione pubblica: perché è una persona onesta. Assolto nel fraintendimento, come promosso nella riuscita dei suoi film. Più forte, come chi, nel mondo cinematografico, ne loda la correttezza e gli stringe la mano sorridendo.

Alessandro Moscè

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Alessandro Moscè
Alessandro Moscè è nato ad Ancona (Marche) nel 1969 e vive a Fabriano. Ha dato alle stampe le raccolte poetiche L’odore dei vicoli (I Quaderni del Battello Ebbro 2004), Stanze all’aperto (Moretti & Vitali 2008, finalista al Premio Metauro), Hotel della notte (Aragno 2013, Premio San Tommaso D’Aquino) e la plaquette in e-book Finché l’alba non rischiara le ringhiere (Laboratori Poesia 2017). E’ presente in varie antologie e riviste italiane e straniere. Le sue poesie sono tradotte in Francia, Spagna, Romania, Venezuela, Stati Uniti, Argentina e Messico. Ha pubblicato il saggio narrato Il viaggiatore residente (Cattedrale 2009) e i romanzi Il talento della malattia (Avagliano 2012), L’età bianca (Avagliano 2016), Gli ultimi giorni di Anita Ekberg (Melville 2018).

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