Mettere mano alla Costituzione italiana: la Circoscrizione Estero in pericolo.

La proposta di cancellazione della circoscrizione estero e del diritto al voto agli emigranti, è l’esempio più forte ma non unico delle contraddizioni dell’Italia che non riesce ancora a capire che il mondo è cambiato. Le carenze di cultura politica accuita da questi decadenti ultimi venti anni, rendono evidente la difficolta di analisi e d’interpretazione dell’Italia di oggi nel contesto internazionale. Mentre ci si tenta di mettere mano alla Costituzione ci addentriamo in un viaggio nelle contraddizioni di questa nuova era a cui non ci si riesce ad abituare.

Il presente articolo è stato già pubblicato con altro titolo dal sito Cambiailmondo*

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Nell’ennesimo giro di valzer delle crisi politiche italiane, anche stavolta, al passaggio dalla cosiddetta seconda alla terza Repubblica, esce fuori dal cilindro la “necessità improcrastinabile” delle riforme istituzionali. Le riforme istituzionali, cioè la revisione più o meno ampia della Carta costituzionale, fu tentata in ripetute occasioni con scarso successo; e per certi aspetti, fortunatamente, dico io; ricordiamo la proposta “federalista” di spaccatura del paese che avevano in mente la Lega e Forza Italia e ricordiamo come finì la Bicamerale con presidenza D’Alema, nel 1997. Riforme o non riforme i processi vanno avanti e riducono, nel concreto, la costituzione a brandelli.

Vediamo come versano persino gli articoli fondamentali, i principi ispiratori, per esempio

il : “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro”, con oltre il 40% di disoccupazione giovanile, con decine di migliaia di imprese che hanno chiuso e chiudono e con un nuovo grande flusso di emigrazione che è ripartito dal nostro paese;

oppure l’Art.9: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.”; o l’Art.11, “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali… “
Fermo restando che i principi fondamentali al momento non li vuole toccare nessuno, (neanche Berlusconi che li riteneva leggermente “sovietici”), l’attenzione è passata ai titoli della Parte seconda della Costituzione, quella concernenti il Parlamento, Il Presidente della Repubblica, Il Governo, la Magistratura, gli Enti Locali (Regioni, Provincie e Comuni), cioè l’architettura stessa della Repubblica.

Al di là delle pressioni esercitate negli ultimi anni sulla Casta, sui suoi costi e sulla sua inefficienza, le ipotesi su cui si tenta un ragionamento bipartisan (il solo che può consentirne un esito positivo, vista la necessità di raggiungere i due terzi del Parlamento) sono orientate essenzialmente al concetto di “Governance”, ben differente da quello di governo democratico e popolare: Governance indica essenzialmente l’urgenza di procedere ad una revisione della Carta che renda più snelle, più veloci, più coerenti le procedure e il funzionamento dei vari organi della Repubblica; laddove la Costituzione del ’48 si costituisce come carta che pone al suo centro i processi democratici e le sue garanzie, qui si tratta invece di cambiare tutti quegli aspetti che rendono problematici e lunghi i processi decisionali.
Lunghi e problematici, rispetto a cosa? In relazione agli elementi guida forniti dall’ideologia del neoliberismo globalizzato, al persistente, quanto ammaccato “pensiero unico”: tutto ciò che rende complicate le scelte e le decisioni che mirano all’ottimizzazione del Sistema Paese all’interno degli indirizzi della più ampia comunità delle nazioni europee (EU) e dell’occidente (EU-USA), tutto ciò che limiterebbe quegli indispensabili elementi di competitività necessari per resistere nell’agone globale contro i nuovi grandi paesi emergenti, vanno eliminati o ridotti all’osso.

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Nella partita delle riforme costituzionali si confrontano cioè democrazia vs competitività: competitività in senso lato, da quella economica a quella militare. Si può dire che l’esito della grande crisi epocale che stiamo attraversando, tende, come esigono i poteri globali, ad essere “costituente”, cioè a costruire una nuova carta che corrisponda agli obiettivi della fase: quelli di ridurre la rappresentanza in sé, sia numericamente che nella sua dislocazione territoriale; di rendere più rapide le decisioni dell’esecutivo, anche attraverso la possibilità di approdare ad una repubblica presidenziale; in generale, ad esautorare i parlamenti nazionali delle loro prerogative e a renderli subalterni e ratificanti scelte strategiche ed operative definite ad un livello superiore.

Quindi: meno democrazia, più autoritarismo, più competitività.
Uno degli argomenti più diffusi a sostegno della necessità di questi cambiamenti è, come noto, l’eccessivo costo della Casta. Ora, da questo punto di vista, sarebbe sufficiente il dimezzamento degli emolumenti di parlamentari, senatori, consiglieri regionali, provinciali, ecc. per raggiungere in un solo colpo lo stesso risultato. Sarebbe molto senplice, ma non si fa: evidentemente non è questa la ragione vera della grande riforma annunciata.
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La riduzione del numero dei parlamentari, la cancellazione del bicameralismo perfetto, la cancellazione delle provincie, ecc., mirano invece a ridurre concretamente la diffusione e il peso della rappresentanza. A svincolare sempre più gli ambiti decisionali, da quelli della rappresentanza che deve restare solo come mero orpello o specchietto per le allodole; tante allodole che si agitano nel preparare congressi, organigrammi, programmi di governo (anzi di governance) compatibili con le indicazioni dei centri imperiali.

Con la riduzione annunciata e drastica dei collegi elettorali del futuro, in pratica avremo da eleggere molti meno parlamentari che “regnano” su territori molto più ampi degli attuali. Così, la cancellazione delle Provincie, aumenta il potere locale dei consiglieri regionali, e la loro sostituzione con le associazioni dei Comuni, non renderà di per sé automatica una gestione più puntuale di quei territori.

In pratica, il processo consiste nella concentrazione dei poteri e nella diluizione del rapporto con i cittadini, piuttosto che in una maggiore partecipazione.
Peraltro, in un momento in cui la concentrazione dei poteri effettivi a livello della Unione Europea (e della Troika euro-atlantica) e il progressivo svuotamento delle sovranità nazionali, rende, effettivamente superflui molti gradi della stratificazione della rappresentanza.

Anzi, ad esser seri, si potrebbe anche ulteriormente ridurre un parlamento che non ha più alcun potere pregnante di definizione di prospettiva del proprio bilancio, a seguito dell’approvazione in Costituzione, del principio (ideologico) del pareggio di bilancio, recentemente approvato. La questione degli F-35, con un Parlamento che viene visto (dal Consiglio Supremo di difesa) come potenziale “organo di veto” di decisioni superiori, lo conferma. Come altri eventi degli ultimi anni, ivi inclusa la guerra alla Libia, vista dal nostro massimo rappresentante, Giorgio Napolitano, come “la naturale conseguenza” delle decisioni dell’Onu (che tuttavia avevano deciso solo l’istituzione di una no-fly zone, non il bombardamento sistematico di una delle parti in causa).

Se per ultimo consideriamo la pessima dimostrazione di autonomia manifestata con il sequestro del Presidente della Bolivia a cui Italia, Francia, Spagna e Portogallo hanno negato il diritto di sorvolo su richiesta degli USA, dopo che il mondo intero ha scoperto che i paesi europei vengono sistematicamente spiati (cittadini e governanti ai più alti livelli), il dado è tratto. Qualcuno avrà notato che i media hanno celato sapientemente la reazione di tutto il continente latino-americano che ha richiamato i rispettivi ambasciatori per consultazioni e che si riserva di interrompere le relazioni diplomatiche. Roba rispetto alla quale, l’Art.21 della Costituzione appare come un’onirica espressione della letteratura fantastica.

La gravità della nuova situazione che si è già creata, è sotto gli occhi di chiunque voglia vederla. La concentrazione dei poteri a livello sovranazionale (EU, NATO, FMI, BCE), implica appunto la superfluità di molte delle forme di rappresentanza e di pezzi di organizzazione statuale che si sono evolute dentro il principio di nazione sovrana e democratica.

Ciò che sta avvenendo quindi, contrariamente a quanto pensano molte persone, è l’uso mirato della critica alla Casta (nazionale), per conferire enormi e insindacabili poteri a quelle sovranazionali. Se poi si considerano le dinamiche in atto all’interno della casta sovranazionale europea, con lo strapotere di un paese su tutti gli altri, e al ruolo guida che si contendono Usa e Germania, appare ancora più chiaro che queste riforme sono ispirate dai rapporti di forza (contraddittori e non ancora del tutto definiti) all’interno delle diverse elite nazionali, rispetto ai quali, le nostre, si trovano in una posizione di oggettiva debolezza e rassegnazione.

E’ a tutti chiaro che il capitalismo italiano è in fase di smembramento consenziente i cui attori predatori sono quelli limitrofi (tedeschi e francesi), anglosassoni e di altre potenze locali emergenti che si stanno appropriando via via dei gioielli di famiglia.
Le riforme istituzionali, sono in questa senso, una sorta di dichiarazione di resa, piuttosto che una opzione di modernizzazione. Fanno parte dei compitini da fare a casa che guarda caso, stiamo facendo solo noi e qualche altro paese sud-europeo.

E’ paradossale notare che coloro che stanno contrattando questa resa, sono gli stessi che hanno governato negli ultimi 20 anni, ai quali sarebbe da addebitare, a fil di logica, la responsabilità della situazione attuale.
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Inoltre lo stanno facendo nel momento di più bassa rappresentatività effettiva che si è registrata nella storia del dopoguerra: una minoranza bipartisan sta decidendo del futuro della grande maggioranza del paese per un futuro che può durare l’intero secolo che abbiamo di fronte. Una minoranza che secondo la Suprema Corte di Cassazione è anche illegittima, in quanto eletta con la nota legge elettorale conosciuta come “porcellum”, dal nome di quel Calderoli che in questi giorni è tornato di nuovo sulle cronache ispirate da una ottima direzione mediatica, con l’aggressione alla Ministra Kyenge, una delle rare novità politiche degli ultimi tempi, la quale, suo malgrado, funge da parafulmine per lo scatenamento delle peggiori dinamiche italiote che servono in fin dei conti solo a un depistaggio scientifico rispetto alle priorità politiche. Siamo da tempo nelle mani di animali. Piuttosto che inorridire per le affermazioni di uno dei tanti personaggi da operetta dell’orrore che hanno calcato le scene in questo ventennio, perché non rivedere di sana pianta la Turco-Napolitano e la Bossi-Fini , cosa che non costerebbe un’euro ? Non se ne parla neanche da lontano.

Circoscrizione Estero

Questa lunga premessa serve a contestualizzare la vicenda della probabile cancellazione della Circoscrizione Estero, da molti paventata, da altri data per certa. Si tratta degli Art. 48, 56 e 57 della Costituzione.
Come ho avuto modo di accennare in altre occasioni (Spending Rewiew), è del tutto fuorviante accapigliarsi per il destino cinico e baro che riduce a quasi zero le politiche per gli italiani all’estero, quando intorno lo stesso, o peggio, accade per altre questioni di grande rilievo.

Se si è contro ciò che accade nel particulare, bisogna manifestare la necessaria avversione per ciò che lo causa e per quanto accade intorno ad esso, come è accaduto per le politiche per l’immigrazione, per la cooperazione internazionale, per tutto quanto è accaduto sul versante delle politiche per il lavoro, ecc.

Analogamente oggi, la domanda è: perché dovrebbe essere mantenuta, nello scenario descritto, la circoscrizione estero, coi suoi bravi 18 parlamentari ? Perché dovrebbe interessare a qualcuno il voto all’estero, e l’emigrazione italiana nel suo complesso, nel momento in cui si torna ad incentivare la mobilità internazionale della forza lavoro italiana (e sud-europea), cioè imponenti flussi di nuova emigrazione che hanno già raggiunto (dalle stime più accreditate) i 250-300 mila espatrii dall’Italia e oltre 600 mila dalla Spagna, solo nel 2012 ?

La divisione del lavoro internazionale che spetta all’Italia, nel disegno delle elites internazionali e condiviso da buona parte delle classi dirigenti imprenditoriali e politiche nazionali, è quello di una autoriduzione del peso del Bel Paese; quindi la nuova emigrazione (che probabilmente, senza auspicabili cambiamenti di scenario, riguarderà 5 e passa milioni nei prossimi 10-15 anni) è una “naturale conseguenza” delle politiche attuali; se è così, pensiamo davvero che qualcuno intenda correre il rischio di far emergere questo potenziale protagonismo sociale?

Nell’ottica della nuova mobilità internazionale, le centrali di decisione si assumeranno il compito di valorizzare questa risorsa nei paesi di arrivo: Nord Europa, Nord America e Australia, per il potenziamento di questo blocco. Per i paesi sud europei in crisi è già pronto un altro copione: quello di marginalità e subalternità e di erogatore di risorse di capitali, si storia, ambiente e cultura, di risorse umane verso il/i centri imperiali.

Poi, vi sono altre ragioni di più bassa lega, per cui, nella riduzione generalizzata delle opportunità della Casta, i 18 posti in palio, non sono così secondari.
La conclusione cui si intende arrivare è che i 4 ed oltre milioni di italiani all’estero più i futuri 4 o 5 siano sapientemente anestetizzati. Più nella loro potenziale funzione critica che di fatto possono assumere piuttosto che per quella finora assunta, che, oggettivamente, ha lasciato molto a desiderare. Se tra dieci anni contassimo intorno ai 10 milioni di potenziali elettori all’estero, la cosa risulterebbe abbastanza imbarazzante…

Le soluzioni ipotizzate dai cosiddetti saggi della prima e della seconda ora (senza alcuna discussione parlamentare) prediligono il voto all’estero convergente sui collegi nazionali. A sostegno di questa soluzione viene portata la pessima dimostrazione di efficienza e correttezza delle modalità di voto all’estero nelle 3 precedenti occasioni: brogli, prevalenza di lobbies locali, segretezza del voto, ecc..

Ma come è possibile essere così rigorosi su questo versante, quando la storia del voto in Italia è costellato da un’infinità di gravissimi eventi, a partire dal peso delle organizzazioni criminali e mafiose che ne hanno determinato l’esito per decenni in molte regioni e a livello nazionale ? O sull’uso del pubblico e del voto clientelare annesso e connesso ?
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E come si può pensare che mantenere il voto per corrispondenza, eliminando la circoscrizione estero, si possano migliorare la qualità e la correttezza del voto?
Io ricordo che in sede di discussione sull’introduzione del voto all’estero, che tagliava trasversalmente i diversi schieramenti politici, una delle ragioni decisive dell’introduzione della circoscrizione estero (poi copiataci da altri paesi con consistenti comunità emigrate), fu quella di limitare i potenziali effetti che, votando sui collegi nazionali, si sarebbero potuti produrre: c’era chi sosteneva con cognizione di causa, che oltre 100 collegi elettorali rischiavano di essere determinati dal voto all’estero.

Fu proprio questa considerazione, tra le altre, che agevolò la decisione dell’istituzione della circoscrizione estero con un numero limitato di parlamentari da eleggere (18 anziché i 40 che potenzialmente le sarebbero spettati sulla base dell’entità della presenza italiana all’estero).

Nei circa 15 anni che ho trascorso all’estero sono stato testimone insieme a migliaia di altri connazionali, di come il voto amministrativo in molte realtà regionali, veniva determinato, attraverso regalie varie (per esempio viaggi aerei e vacanze), dal rientro di nostri connazionali in Europa per due o più settimane; rientri finanziati da imponenti gruppi di interesse locali.

Immaginiamo quale attivismo si possa scatenare se vi sono in lizza un centinaio di collegi in balia del voto all’estero. E quali possano essere i soggetti in grado di mobilitare questo attivismo…

Ricordo che il Sen. Villone, allora eminente figura di riferimento per le questioni istituzionali del PDS, si convinse della Circoscrizione Estero, forse suo malgrado, anche sulla base di questi fatti ed argomentazioni.

Rispetto a chi oggi dice che quella soluzione la voleva solo Tremaglia (ho letto recentemente in un servizio sull’agenzia Aise, che Marina Sereni è tra queste), vale la pena ricordare questi fatti. E recuperare un po’ di memoria storica, sempre utile.
Peraltro,non si capisce perché proprio dentro un partito come il PD, si debbano manifestare questi fastidi, quando il secondo governo Prodi nacque grazie al risultato dell’Unione all’estero e quando anche nell’ultima occasione, il PD risulta primo partito solo sommando i voti raccolti all’estero (in verità insieme a SEL, PSI e altri partiti di sinistra che avevano scelto di non presentarsi) con quelli in Italia, altrimenti sarebbe il secondo dopo il Movimento 5 Stelle.

Davvero non c’è limite all’assenza di rigore e di analisi. Che poi tra gli estimatori della cancellazione della circoscrizione estero vi sia un “saggio” come Violante, questo è forse di buon auspicio…

In realtà, queste valutazioni dimostrano, in piccolo, come il tabula rasa avvenuto nella classe dirigente di gran parte del centro-sinistra non sia solo riferibile a quella grande intuizione che Gramsci chiamava “egemonia culturale”, con il passaggio pedissequo sul carro del neoliberismo (privatizzazioni, ecc.) di gran parte di coloro che erano stati iscritti ed aderenti al PCI-PDS, ma sia un processo che va ancora più nel profondo, cioè l’annichilimento definitivo di ogni capacità e volontà di analisi, di lettura e valutazione dei dati, dei fenomeni, di confronto e di discussione, cioè della capacità politica stessa.

Oggi abbiamo a che fare con molti personaggi che interpretano la loro funzione in misura del loro posizionamento nei flussi di informazione mainstream, che notoriamente sono gestiti dalle parti avverse che loro, solo a chiacchiere, dicono di dover avversare.

In questa “grande amnesia”, come la chiamò Enrico Berlinguer proprio in riferimento alla dimenticanza delle sorti di milioni di lavoratori italiani (contro la quale l’allora segretario del PCI esigette la candidatura di una figlia di emigrati al Parlamento Europeo, Francesca Marinaro, dal Belgio), sono caduti uno dopo l’altro un bel gruppo di dirigenti. E’ stato così grave questo processo, che la grande esperienza storica della nostra emigrazione è stata quasi del tutto ignorata anche nell’approccio ai problemi dell’immigrazione nel nostro paese; poi si andavano a conoscere leggi e misure tedesche, francesi o svizzere, australiane, ecc. dimenticando che nelle loro parti migliori, queste legislazioni erano state determinate dalle lotte dell’emigrazione lungo il corso di molti decenni.
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In questa grande amnesia, per anni ed anni, si è lisciato il pelo ai leghisti e alla retrograda cultura della sub-impresa del nord-est (sub in quanto essenzialmente impresa di sub-fornitura, salvo rari casi), che aveva bisogno del reato di clandestinità per abbassare ulteriormente il costo del lavoro della manodopera a fini di competitività: se ci portiamo in casa un po’ di diritti da terzo mondo manteniamo la competitività… salvo restare oggi in mutande, perché i processi in atto prevedono ben altre categorizzazioni e divisioni internazionali del lavoro.

D’altra parte, mi spiace dire che l’enclave parlamentare dell’estero non è stata in grado di frapporre ostacoli consistenti a tutto ciò: l’esigenza (umanamente comprensibile) di essere riconosciuti come classe dirigente all’interno delle singole forze politiche e delle varie correnti (o reti) in cui sono rimasti impigliati, ne ha affievolito molto dello spirito critico che potevano esercitare; la rottura dei vincoli con le case madri da cui storicamente provenivano (associazionismo e mondo sindacale), li ha privati, senza che se ne rendessero conto, dei più avanzati centri di analisi e di confronto di cui potevano disporre.

In ciò, salvo rari casi, hanno ripercorso l’itinerario segnato dalla nuova cultura politica nazionale che mirava solo a ridurre la funzione parlamentare, la sua autonomia di analisi e di giudizio, a favore di centri di decisione sempre più piccoli che neanche corrispondevano per forza con le segreterie dei vituperati partiti.

Ora è ben difficile risalire la china. La condizione di oggettiva marginalità in cui ci si è messi è il miglior viatico per la cancellazione dell’esperienza del voto all’estero. Il pessimismo e lo spaesamento che si coglieva all’ultima plenaria del Cgie era sintomatico di una situazione in cui mancano le energie necessarie a ricostruire una credibilità che a rigore è ancora tutta potenzialmente presente, ma che appare già cancellata dagli eventi incalzanti. Questo “non detto” di aggirava in tutta la sua pesantezza nelle sale del Ministero degli Esteri tra i rumori degli interventi, tecnicamente ancora validi, ma senza alcun realistico sbocco.

La mia modesta impressione è che il futuro, se vi sarà, è destinato a nascere da nuove premesse culturali ed organizzative. Peraltro, ciò che ci attende fin dai prossimi mesi, sarà di un ordine delle cose tale da ridurre a poltiglia ciò che ancora oggi si manifesta con relativa solidità. In ogni caso, è solo da una sincera coscienza dello stato di cose presenti che si può almeno frapporre qualche elemento di resistenza allo smantellamento complessivo di questo settore e alla sua riprogettazione.

E’ chiaro che i circa 9 milioni di migranti tra italiani all’estero e immigrati, oltre agli altri milioni che si aggiungeranno con la nuova emigrazione (già oggi si tratta del 15% della popolazione del paese), costituiscono un’entità che ambisce ed ambirà ad una sua rappresentanza, ad un suo protagonismo.

Rodolfo Ricci

 Segretario della Fiei (Federazione Italiana Emigrazione ed Immigrazione) nonché coordinatore nazionale Filef

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