Pubblicità e crisi economica. Storia di verità dette in faccia.

Anche la pubblicità soffre della mancanza di fondi. Poche parole per i linguaggi degli slogan che si uniformano alla penuria economica e all’impossibilità di acquisto che affligge la maggioranza degli italiani. Scompare l’Oggetto della réclame e ritorna la Parola di protesta sentita al bar, apparentemente slegata dal fine ultimo dell’operazione commerciale: vendere desideri (diventati inaccessibili).


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Se la salute della pubblicità dipende dalla capacità di investimento industriale nella propaganda delle merci e se la produzione delle merci è frenata dalla paura dell’acquisto, allora la pubblicità di oggi è gravemente malata. Il primo passo nell’analisi dei messaggi lanciati dalla pubblicità, grande accusata del ventesimo secolo dopo la tv, può essere la valutazione di tre definizioni:

1) «Esiste una vita al di fuori dei cartelloni pubblicitari» ;
[[ K. Kraus, Detti e contraddetti, 1909.]]

2) «Tra i volti stanchi e melanconici della gente nella metropolitana e i sorrisi beati delle sacre famiglie della pubblicità di massa, non esiste la benché minima possibilità di identificazione».
[[M. McCarthy, Al contrario, 1961.]]

3) «Vale la pena fare pubblicità, se giustificata da una buona causa. Il Buddha pubblicizzò l’illuminazione o il nirvana. Se la pubblicità è ragionevole e benefica, va bene; ma se è motivata solo dal profitto, dalla truffa e dallo sfruttamento, oppure se è fuorviante, allora è sbagliato metterla in atto».
[[Tenzin Gyatso (Dalai Lama), La via della tranquillità, 1998.]]

Qualche propensione netta?

Le citazioni vanno lette soprattutto nella loro distanza cronologica, adattata al secolo scorso: anni zero della Bella Epoque, anni Sessanta della contestazione, anni Novanta della guerra fredda. I canoni pubblicitari, sia di promozione sia di contestazione dell’impulso consumistico, sono il termometro della febbre del tempo. Il paradigma attuale vede il ritorno ai minimi storici di scorpacciate seriali nei carrelli della spesa e slogan ammiccanti. Pubblicità ed economia zoppicano a braccetto riflettendo consumi a bassa intensità.

Il caso. Piazza Italia, azienda di moda di Nola in Campania, ha scelto da febbraio 2013 una strada originale per lasciare un segno visibile in città: frasi prese dall’attualità, rivitalizzate a scopi sociali e spalmate sulle facce di sette testimonial sconosciuti. Non si tratta, però, né di una comune réclame di vestiario, né di una pubblicità progresso promossa da gruppi politici. Mancherebbe l’oggetto (referente) da propagandare nel primo caso e la firma (committente) del Ministero per le Politiche sociali nel secondo.

La trovata si rivela vincente nella sua resa anticonvenzionale. Piazza Italia non usa colori, non usa bellocci, non fa vedere “cose”. La stra-ordinarietà e l’ine-narrabilità non hanno nessun ruolo in questa forma di comunicazione che tira il suo goal su visi e parole stra-umane. Il modello di pubblicitario americano degli anni Cinquanta e Sessanta, considerato il creatore del superfluo, inventore di simboli prestigiosi, abile manipolatore delle masse, ideatore di desideri inutili, dov’è andato a finire? Nel nostro caso di desiderabile c’è ben poco. Spingendosi molto più in là rispetto agli ottimi risultati riportati da Oliviero Toscani per la campagna shock di Benetton negli anni Novanta, nel caso nolano si ha il ritorno all’immagine scarna, in bianco e nero. Non ci sono pretese di interpretazioni sottili che stancano destinatari già affaticati da grattacapi quotidiani. Che non sia tempo di giochi e giri su giostre con in mano coni gelato dai colori sgargianti mi pare evidente. Eppure la pubblicità è stata anche questo quando potevamo permettercelo, quando avevamo “la testa” per occupare le domeniche pomeriggio nei parchi a tema senza pensare a scoperti bancari o affitti da coprire. Finito anche l’ultimo gettone per le slot machines, siamo spaventati dal non capire subito quello che ci viene proposto e abbiamo perso fiducia.

Il subliminale (sub- limen) dell’ “evocato non detto esplicitamente” fluisce sotto il livello percettivo della coscienza, quando il soggetto non si accorge che gli viene proposto di cambiare idea su qualcosa. Invece Piazza Italia vuole richiamare l’attenzione dei cittadini in maniera chiara e diretta, senza perifrasi svianti e quiz di abilità linguistica. Almeno a prima (s) vista.

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Il nudo che evoca trasparenza e responsabilità (quella di metterci la faccia) ci riporta sicuramente al Toscani della ragazza anoressica, mostrata come la malattia l’ha fatta, in poster extralarge sui muri delle città italiane. Tuttavia l’archetipo è arricchito: il corpo da solo non riesce più ad evocare abbastanza e ha bisogno dello script di accompagnamento. Non sotto o a lato, ma dritto in faccia, quasi come fosse un tatuaggio permanente sulla parte meno nascosta del corpo. Il restringimento dell’obiettivo fotografico è su una tavolozza fatta di occhi, naso e bocca che diventa pagina bianca di un libro nero perché dal plot tragico. Il resto del corpo disperderebbe la forza del messaggio da comunicare e per questo non va incluso. È un nudo ossimoricamente casto che non mira a scandalizzare perché quel compito è destinato al codice-lingua.

La lingua che evoca richiama alla mente un certo populismo fatto di ripetizioni che aiutano la memoria. “He who loves me, follow me”, scritto sul posteriore della modella che indossa i famosi jeans americani sembra aver lasciato posto a messaggi diversi nei toni e nei contenuti. Letterale, allegorico, personale sono gli aggettivi delle lenti graduate per la codifica della campagna.

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 Non sono giovane a tempo indeterminato> (disoccupazione)> (se non ora quando)

 Quota rosa a chi? (pari opportunità e presenza femminile ai posti di comando)> (la quota mi discrimina ancora di più)

 Il mio cervello vorrebbe restare (emigrazione e perdita di capitale umano)> (l’Italia non mi vuole abbastanza)

 Di sano e robusto abbiamo soltanto la Costituzione (e non leggi elettorali come il porcellum)> (il resto è debole come la nostra economia e il mio stato di salute)

 Il mio materasso è più affidabile della banca (fallimenti bancari, caso Monte Paschi di Siena)> (mio nonno che nascondeva i soldi sotto il letto è stato più sveglio di me)

 Dove sono tutti i gay- friendly dopo le elezioni? (diritti coppie omosessuali)> (questo Paese usa l’accettazione della diversità soltanto per prendere voti)

 Solo il debito è rimasto pubblico (privatizzazione di beni statali)> (non possediamo più niente)

Geniale semplificazione di concetti duri da digerire perché presuppongono letture tecniche, aggiornamento, capacità di interpretare i fatti raccontati dalle testate giornalistiche con linguaggi spesso sarcastici, metaforici, sfacciatamente aristocratici. La proposta non risulta offensiva per nessuno perché fornisce spunto per “larghe intese”, a seconda del back ground culturale del lettore. Con questa democraticità di acculturazione profferta in sordina non siamo tanto distanti da quello che succede di fronte alla poesia: interpretiamo fin dove ci è possibile, sentendoci comunque alla fine tutti coinvolti e nessun escluso. Nel senso letterale, nel senso allegorico, nel senso personale.

Il bypass tra slogan e senso comune richiede al lettore uno sforzo diverso da quello della pubblicità subliminale fatta di birre bionde o rosse desiderabili come donne, ridotto. In una società che ci aveva abituati all’immagine assoluta, al voyerismo smaliziato, allo shock da straniamento e rottura, ora si ritorna ad una dimensione scritta, alle parole che riacquistano un peso anche fuori dalla rima e dal jingle. Per di più scritto è meno volatile. Si pubblicizza l’idea di un presente e non di un futuro, come invece accade nel modello pubblicitario classico, quello con il potere di anticipare la stagione come si fa con una collezione autunno-inverno assaggiata in estate. Credo che nella strategia dei pubblicitari di Piazza Italia ci sia stata anche una precisa volontà: far percepire la solidarietà del gruppo aziendale con la comunità in crisi. Senza magliette e pantaloni in primo piano, né riferimenti a prezzi scontati.

Se una azienda non si preoccupa di pensare ai bugdet plans a suo discapito e si concentra sul bene comune tramite propaganda di argomenti di protesta, allora sì che lo sguardo sconfortato del passante si ferma sul poster gigantesco e presta attenzione. Se si salta a piè pari l’oggetto da vendere perché si è capito che la gente è distratta da problemi di ben altra natura e tuttavia si ottiene una circolazione di nome considerevole (personalmente non conoscevo Piazza Italia prima della trovata delle facce parlanti), allora sì che lo scopo finale è raggiunto.

Se in apertura avevo diagnosticato una malattia grave per la pubblicità, bisogna comunque riconoscere che nonostante tutto riesce a stare in piedi, rimandandoci un’immagine più vicina alla realtà dei fatti della vera Piazza Italia. Specchio delle mie brame, ora dicci in faccia cosa sarà del nostro reame.

Rosa Chiara Vitolo

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