Trentacinque anni dal rapimento di Aldo Moro.

35 anni fa, la storia italiana cambiava il suo corso. Probabilmente molti dei problemi dell’Italia di oggi affondano le loro radici in quel 16 marzo. Il terrorismo quel giorno era al suo apice. Da allora, in pochi anni, fu il suo declino, ma fu anche il declino di un certo modo di concepire la politica in Italia.


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Trentacinque anni, tanti sono passati da quella drammatica mattina: era il 16 marzo del 1978, a Roma in Via Fani veniva rapito il presidente della DC Aldo Moro, un’azione militare costata la vita ai suoi cinque agenti di scorta.

Si era poco più che ragazzi, in quegli anni ’70, anni che hanno segnato la seconda metà del secolo scorso. Gambizzazioni ed omicidi politici si seguivano in una spirale impressionante. Ma quel che accadde in Via Fani toccò di certo la punta più elevata: il rapimento di Aldo Moro dopo una studiatissima strategia militare messa in atto dalle Brigate rosse, che non escludeva l’assassinio della scorta: cinque agenti sacrificati in una strategia del terrore che non aveva eguali.

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Quella mattina la radio e la tv in bianco e nero raccontavano con parole meste e di dolore un evento terribile; edizioni speciali continuavano a rincorrersi mentre la notizia immediatamente faceva il giro del mondo. La punta più alta del terrorismo aveva visto il suo apice e, come sempre accade, il suo declino.

Eravamo studenti che seguivano quegli anni con l’apprensione verso un futuro incerto, sentirsi comunque politicizzati (lo era la maggioranza di quella generazione) e nel contempo desiderosi che qualcosa potesse cambiare. Ma all’annuncio di quella drammatica notizia tutti ci sentimmo un po’ spogli, impreparati forse: l’Immanente stava precipitandoci addosso, la storia, quella maiuscola, stava accadendo, stava voltando pagina, forse irrimediabilmente, irreversibilmente.

Tutto si consumava in pochi minuti dentro di noi: i dubbi e le scarse certezze a farsi da contraltare verso un “qualcosa” di nuovo, di mai pensato prima, nonostante le morti di innocenti che ne preannunciavano il divenire. Da studenti e da lettori di un tempo strano e comunque avvincente, ci siamo sentiti avvolti da un vento strano che avrebbe rivoluzionato il presente e forse il futuro.

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Quella strage, quei “processi del popolo” al Presidente non cambiarono di molto il corso della Storia. Non prese il finale che molti anni dopo il regista Marco Bellocchio aveva immaginato sulla tragedia Moro, nel suo bellissimo “Buongiorno, notte” , portato alla Mostra di Venezia nel 2003 (liberamente ispirato dal libro “Il prigioniero” della ex brigatista Anna Laura Braghetti).

Il Presidente della DC non verrà liberato, come invece immagina il regista nel tratto finale del film, onirico e struggente. Verrà ucciso. Morte su morte, in un lampo di Storia che intraprese altre strade. Una Storia che tendeva a “normalizzarsi” nel divenire.

Armando Lostaglio

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Armando Lostaglio
ARMANDO LOSTAGLIO iscritto all'Ordine dei Giornalisti di Basilicata; fondatore del CineClub Vittorio De Sica - Cinit di Rionero in Vulture nel 1994 con oltre 150 iscritti; promotore di altri cinecircoli Cinit, e di mostre di cinema per scuole, carceri, centri anziani; autore di testi di cinema: Sequenze (La Nuova del Sud, 2006); Schermi Riflessi (EditricErmes, 2011); autore dei docufilm: Albe dentro l'imbrunire (2012); Il genio contro - Guy Debord e il cinema nell'avangardia (2013); La strada meno battura - a cavallo sulla Via Herculia (2014); Il cinema e il Blues (2016); Il cinema e il brigantaggio (2017). Collaboratore di riviste e giornali: La Nuova del Sud, e web Altritaliani (Parigi), Cabiria, Francavillainforma; Tg7 Basilicata.

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