No TAV. La resistenza del giorno per giorno in Liguria.

Più progredisce la TAV, più sorgono gruppi locali che protestano fino a dare vita ad un controverso movimento NO-TAV che divide la stessa sinistra, ancora una volta in difficoltà quando lavoro ed ambiente si incrociano. Gruppi che diventano un ampio movimento specialmente radicato nel nord Italia. Eccone il racconto di un testimone e protagonista della « battaglia » a Valpocevera vicino Genova.

Quando una “grande opera” ti entra in casa, molto banalmente ti sconvolge la vita. Dapprima , timidamente, una decima pagina di giornale comincia a parlare di “supertreno”, facendo scivolare la notizia fra un omicidio, un morto per mafia ed una crisi di governo ; via via, i titoli si fanno più grandi, sino a quando, all’improvviso, ti accorgi che di fronte a casa tua, o poco lontano, un viadotto mostruoso troncherà per sempre il rapporto fra te ed il paesaggio (quel paesaggio mentale il cui valore, non essendo monetizzabile, è considerato nullo nella società capitalistica), fra ciò che sei stato e ciò che non sarai più. Inizia a quel punto un cammino particolare di presa di coscienza che, come un sasso nello stagno, a partire da ragioni personali allarga il cerchio concentrico fino a toccare la critica dell’economia politica e di sistema, rendendo l’Io singolo un Io politico e partecipativo, “condividendo” il lutto e trasformandolo in lotta, perché le vocali sono sempre state fondamentali nelle lingue indoeuropee.

La storia delle battaglie no tav, in moltissimi casi segue questo filo: dall’individualizzazione dei conflitti successiva alla perdita di coscienza di classe degli anni Ottanta del Novecento, ad una ricomposizione inedita degli stessi entro un nuovo intellettuale collettivo chiamato “movimento”.

foto di Massimo Sorlino

A Genova, per moltissimi uomini e donne che del movimento no tav fanno parte è iniziato precisamente così, ormai vent’anni fa, quando un gruppo di allora adolescenti, scoprendo cosa sarebbe stato quello che, come abbiamo visto, all’epoca si chiamava “supertreno”, decisero di opporsi ad un qualcosa forse più grande di loro, ma certamente più piccolo rispetto a quello che sapevano di perdere non lottando. Era il 1992 e la città, distratta dalle celebrazioni colombiane, stava tentando di rispondere al declino industriale del precedente decennio giocandosi la carta del turismo di massa.
“I Genovesi potranno andare alla Scala in 40 minuti ed i Milanesi potranno venire al mare”, disse l’allora sindaco di Genova, il socialdemocratico Romano Merlo, per propagandare la necessità di un treno ad alta velocità fra Genova e Milano. Treno che per molti quartieri e villaggi dell’Appennino significava allora tre viadotti sopraelevati più svariate gallerie, il tutto per far risparmiare venti minuti e far arrivare a Rogoredo (non a Milano centrale) lorsignori…Sarà anche per questo che in quei giorni si usava cantare “la locomotiva” di Guccini: perché parlava di “un treno di lusso” che sfrecciava incurante davanti ai poveri cristi.

Da allora la lotta, dapprima assai minoritaria (si parla di dieci- quindici persone che per anni si sobbarcarono riunioni infinite e contatti con il comitato no tav piemontese, molto più organizzato e radicato di loro), la lotta si estese nel giorno per giorno attraverso lo studio di migliaia di pagine di trasportistica, infrastrutture, logistica, geologia, economia politica e mediante la redazione di volantini distribuiti in centinaia di presidi, banchetti, iniziative in cui spesso ci si trovava snobbati, quando non derisi da chi ti urlava: “andate a lavorare!”, sovente ignaro che nel tempo del suo urlo il di lui salario andava erodendosi inesorabilmente a causa dello stesso sistema di poteri economici che alimentano l’alta velocità.

Tuttavia l’esiguità del numero degli allora partecipanti alla lotta non significò affatto minoritarismo e sconfitta: al contrario, grazie anche alle osservazioni dei comitati, ben due progetti di Alta velocità Genova- Milano vennero bocciati dall’Ufficio Valutazione impatto ambientale del Ministero dell’ Ambiente: mancavano garanzie sulla stabilità idrogeologica dei versanti delle Valli Polcevera e Lemme, mancava un piano di salvataggio delle sorgenti le quali andavano, al contrario, incontro a morte certa, in molti punti la linea correva troppo vicino alle abitazioni (se in Francia l’alta velocità deve distare 250 metri dalle abitazioni, in Italia si parlava di 7 metri!), non esisteva uno studio sull’inquinamento determinato dal rumore aerodinamico dei treni alle uscite dalle gallerie. Inoltre una linea di soli 127 chilometri entro una conformazione urbanistica come quella italiana era giudicata non compatibile con treni da lanciare a 300 Km all’ora, velocità che essi avrebbero raggiunto solo per una ventina di chilometri in pianura padana. In più, il numero di passeggeri fra Genova e Milano non giustificava economicamente un investimento di quel tipo. Erano gli anni di Necci presidente delle ferrovie, dei governi di centrodestra e centrosinistra quasi totalmente proni (eccetto, come vedremo, ad alcune significative eccezioni) ai grandi costruttori che, come ricorda il magistrato Ferdinando Imposimato in “Corruzione ad alta velocità”, vollero il progetto tav come nuovo collettore di affari poco presentabili.

Erano tuttavia anche gli anni in cui, grazie alle denunce di wwf e comitati, i carabinieri del Nucleo Operativo ecologico inviati dall’allora Ministro dell’ambiente Ronchi bloccarono i cosiddetti “fori pilota”, enormi gallerie di servizio scavate nelle viscere dell’Appennino ligure, dando avvio ad un’inchiesta che avrebbe portato nel 2003 alla condanna, fra gli altri, dell’Onorevole berlusconiano Luigi Grillo per truffa aggravata ai danni dello Stato, sentenza prescritta soltanto grazie alla Legge Cirielli.

Nel frattempo, in seguito alla Legge obiettivo voluta da Berlusconi e dal suo ministro Lunardi, l’approvazione di una “grande opera” veniva subordinata al parere esclusivo del Presidente del Consiglio, rendendo di fatto vani tutti quegli strumenti ( che i neoliberali chiamerebbero “lacci e lacciuoli”) di controllo e valutazione di impatto ambientale i quali in passato erano stati in grado di fermare gli scempi perpetrati nel nome del dio Mercato.

foto di Massimo Sorlino

Negli ultimi dieci anni, consapevoli dell’impossibilità di presentare l’alta velocità Genova- Milano come la panacea del trasporto passeggeri, i mediocrati al servizio delle diverse camarille economiche genovesi iniziarono a propagandare la cosiddetta “alta capacità”, locuzione inventata dal presidente della Regione, già Ministro dei trasporti, Claudio Burlando. In concreto, tale termine non significa nulla, dato che una linea ad alta velocità non può supportare assolutamente in traffico merci ( la notte, le linee Tav vanno chiuse per “marazzare” i binari, ossia per riaddrizzarne i segmenti che l’attrito con il materiale rotabile tende ad allargare verso l’esterno. Un traffico continuo di merci, oltre che essere incompatibile con l’alta velocità – un carro merci potrebbe viaggiare al massimo a 120 Km orari, con un attrito dannosissimo per i binari- non sarebbe tecnicamente possibile nelle ore notturne, come invece sostenevano non disinteressatamente gli alfieri dell’opera), ma per la propaganda basta e avanza per controllare l’opinione pubblica attraverso il mantra per cui il porto in espansione ha necessità di un terzo valico ferroviario verso la pianura padana, e chi è contro è contro la crescita e lo è “per motivi ideologici” (sic!). Risparmiando ed eventualmente rimandando ad altra sede tutti i dati tecnici che smonterebbero pezzo per pezzo tali esternazioni, la vicenda ci interessa al fine di farci comprendere come l’alta velocità Genova- Milano si sia trasformata in quegli anni in “Terzo valico Genova- Milano”, per poi diventare “Terzo valico Genova- Tortona”, dato che, nel frattempo, i soldi iniziavano a scarseggiare: nel 2012 per realizzare l’intera opera occorrevano oltre 7 miliardi di euro, di cui 2 miliardi di soldi ovviamente pubblici (la crisi in certi settori sembra non esistere) erano già stati stanziati per le cosiddette “opere preliminari” , in concreto: realizzazione di immensi campi base in cui alloggiare i lavoratori provenienti tutti da ditte esterne, demolizioni di edifici finalizzate alla costruzione di nuove strade ed all’allargamento di vecchie, che da provinciali dovrebbero diventare mastodontiche vie a quattro corsie, addirittura la chiusura di una scuola elementare ospitata nella storica Villa Sanguineti al fine di trasformarne lo stabile in uffici operativi di COCIV, il consorzio di ditte che, violando la direttiva europea che impone la gara internazionale, aveva ottenuto l’appalto dell’opera in trattativa privata.

Questi ultimi avvenimenti costituirono la goccia (di veleno) che fece traboccare il vaso: nella media Valpolcevera, in località Trasta, le famiglie della scuola elementare di Villa Sanguineti iniziarono ad autorganizzarsi per opporsi alla deportazione in altra sede dei loro bambini e, attraverso degli incontri pubblici, saldarono la loro nuova lotta a quella dei comitati storici, determinando un precipitato politico-sociale per cui il movimento, per la prima volta nella sua storia, si fece di massa. Nonostante i tentativi dei soliti satrapi locali del Partito democratico di incanalare le proteste in una logica compensativa da do ut des di democristiana memoria, le famiglie ed i comitati, portando avanti una battaglia non di cortile ma di sistema, misero in piedi in pochi mesi decine e decine di iniziative informative, oltre che cortei e volantinaggi, sino ad arrivare all’estate dello scorso anno, quando le prime lettere di esproprio di case e terreni finalizzati alle opere preliminari del Terzo valico fecero sì che un nuovo fronte: quello degli espropriati, si unisse alla lotta.

foto di Massimo Sorlino

Fra luglio ed Agosto, in Valpolcevera il movimento, nel frattempo unitosi ai compagni piemontesi entro un’unica realtà plurale e coordinata, organizzarono i blocchi davanti alle sedi da espropriare al fine di impedire la presa di possesso delle stesse da parte di Cociv, mentre prima in Piemonte, poi in Valpolcevera, cortei e fiaccolate rompevano il muro di silenzio allargando le adesioni individuali alla lotta: le bandiere no tav iniziavano a spuntare qua e là, i media si accorgevano, sovente preoccupati, del radicamento dei movimenti, le centrosinistre sirene tentavano di dividere fra buoni e cattivi, lacerare e reprimere, ma la lotta continuava e continua tuttora, consapevoli che, come dice il movimento, “si parte e si torna assieme”, frase non retorica, ma reale, viva nella dimensione anche conviviale di nuove e diverse relazioni umane all’interno dei movimenti stessi, perché il cammino muta sempre i piedi e la mente di chi lo intraprende. Perché la storia o è divenire o non è.

Ennio Cirnigliaro

Da Genova

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Ennio Cirnigliaro
Ennio Cirnigliaro è nato a Genova nel 1974. Archeologo per professione e vocazione, militante politico di lunga data, indaga il presente con quella particolare chiave di lettura “stratigrafica” propria di chi ha l’abitudine di inserire i fenomeni singoli in un più ampio contesto. Ha pubblicato su riviste varie articoli specialistici nel suo ambito, oltre che testi politici e sociali aventi come denominatore comune l’antifascismo, l’antisessismo, l’anticapitalismo, l’antirazzismo e l’ecologia sociale. Ha pubblicato per Prospero editore “Medioevo digitale. La storia contemporanea attraverso i social network”, 2021.

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