Donne vittime di violenza ne “L’amore rubato” di Dacia Maraini

Una recensione corredata da un’intervista inedita all’autrice a cura di Cinzia Demi. “L’amore rubato”, un libro di racconti che dà molti spunti di riflessioni su un tema caro alla Maraini: la condizione femminile. Otto storie tratte da fatti di cronaca successi, su violenze ed abusi sulle donne spesso nell’ambito familiare. Le legga il silenzio che spesso non permette la denuncia.

Un tema continua a sconvolgere le pagine della nostra storia. Un tema forse vecchio come il mondo, da cui ogni tanto crediamo di esserci liberarci, complici gli evoluzionismi, le liberazioni, le rivoluzioni e le involuzioni di pensiero. Un tema sul quale avrei già voluto scrivere da molto, su cui molto si è detto e si continua a dire, per il quale si lanciano appelli di ogni genere, ma per il quale le parole – e certo ancor di più i fatti – non sono mai abbastanza. Un tema che sento di dover trattare prima di tutto come essere umano: la violenza sulle donne. Per affrontarlo niente di meglio che la lettura dell’ultimo libro della scrittrice Dacia Maraini, uscito per la Casa Editrice Rizzoli: “L’amore rubato”.

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Il libro propone con una serie di racconti noir, molte situazioni legate a questa problematica, riprese purtroppo dalla realtà stessa e vuole essere una denuncia, sotto forma di narrazione in prosa, di terribili fatti di cronaca successi. L’abilità della scrittrice è quella di far rivivere al lettore situazioni forti, utilizzando lo strumento linguistico, per lasciare le impronte di quella stessa violenza sulla sua pelle, nella sua mente come se fossero elementi che si accaniscono nella sua stessa vita infliggendogli un segno indelebile, un monito, certo, per intendere che tutto può succedere dove meno te lo aspetti.

Così ci inoltriamo nella lettura di questi racconti che ci prendono, pagina per pagina, conducendoci in un mondo all’apparenza normale – di uomini normali o alcuni, peggio, affascinanti – ma che nasconde i più efferati criminali, i più subdoli affabulatori che si possa pensare. Siano essi da soli o in branco, stupratori e molestatori dentro o fuori casa, pedofili o esseri in preda a improvvisi raptus sessuali, la cosa che più sorprende e lascia sconcertati è che sono uomini che sembrano, prima di tutto, normali. La lettura del libro è stata accompagnata dalla partecipazione di chi scrive all’incontro avvenuto il 29 novembre u.s. per la presentazione del libro, a Bologna, dove è intervenuta la stessa Maraini. In questo modo l’articolo che leggerete riguarda e comprende anche il pensiero espresso dall’autrice nell’occasione, ed è corredato da un’intervista inedita che la stessa ha concesso alla sottiscritta.

Ora, partendo dal titolo “L’amore rubato” è la Maraini stessa a dirci che in questi delitti di cui parlano i vari racconti, ma in tutti i delitti di gelosia o passione, c’entra l’amore. L’amore che rende fragili e incontrollabili uomini che in seguito all’abbandono reagiscono in modo violento. Ma, a guardar bene dentro la questione, c’è da vedere che non si tratta di una violenza fatta dagli uomini sulle donne, bensì di una cultura sull’altra. Le due culture che si sovrappongono, ossia quella androcentrica che vede la donna come fosse un minore da proteggere, e quella del cambiamento che vuole provare a utilizzare tutte le peculiarità possibili degli esseri umani, in modo equo, per provare a vivere meglio non riescono a convivere perché ci sono esseri umani che non hanno né la capacità né la forza di adeguarsi ai cambiamenti con intelligenza storica. Neanche se la vita stessa è fatta di continui cambiamenti dalla nascita, all’invecchiamento, alla morte. Coloro che non si adeguano si chiudono in sé stessi, si macerano nelle loro convinzioni, contribuiscono alla nascita degli stereotipi, alla formazione delle patologie: di questo tipo di cultura fanno parte anche molte donne.

Se prendiamo il caso del racconto “Cronaca di una violenza di gruppo”, dove viene affrontato l’episodio dello stupro di gruppo fatto su una bambina, da alcuni ragazzi del paese, vediamo che la vittima è accusata di essere una sorta di provocatrice proprio da alcune donne, una poco di buono per familismo e sono le stesse donne che urlano contro la giustizia che vorrebbe difenderla. Quei giovani, che hanno realmente commesso quella violenza, non sono nati stupratori, lo sono diventati per cultura. L’idea dell’uomo predatore per natura è un’idea su cui dobbiamo ragionare bene, su cui dobbiamo porre attenzione. Ciònonostante siamo portati a credere alla cultura della predazione e dello stupro: lo stupro è sempre stato un’arma di guerra, per punire il nemico; lo stupro è un abuso brutale sulla parte più sacra del corpo femminile, quella che dà la vita. Non si tratta di soddisfare un desiderio sessuale. In quel gesto c’è tutta la volontà di disprezzare il corpo della donna come luogo della nascita. E’ difficile immaginare di poter cambiare la natura umana ma la cultura, quella sì, si può. Si deve, in specie quella della violenza sulla donne.

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Oggi abbiamo un’enorme quantità di uomini che uccidono mogli, fidanzate, amanti, madri perché decidono di andare via, di lasciarli e alcuni di questi, poi, uccidono anche sé stessi. Il motivo? Non si tratta solo di comportamento egoistico. Il fatto di essere messi di fronte ad un’autonomia dell’oggetto amato manda in crisi il loro concetto di virilità, cosa che fa nascere la tragedia che sfoga in delitto e in suicidio. Ma amore spesso è anche equiparato a possesso. E’ ancora un problema culturale: la madre crede di possedere il proprio bambino perché lo ha fatto nascere, crescere e così via, ma il bambino non è suo: l’uomo si sente proprietario della donna che ama proprio come la madre si sente proprietaria del proprio bambino. Se la donna non ci sta, ecco che nasce la violenza che, da parte dell’uomo, è un altro atto di debolezza. L’uomo forte è equilibrato, non commette violenza. La cosa ideale sarebbe quella di iniziare già dalle scuole primarie a spiegare che non esiste il possesso di un’altra persona e che l’amore non giustifica il possesso.

Purtroppo nel nostro Paese un’idea di cambiamento in tal senso si è avuta solo negli anni ’70 con l’istituzione del diritto di famiglia. Fino ad allora esisteva ancora la prigione per il reato di adulterio da parte della donna, considerata come una minorenne a vita, controllata e bisognosa di protezione prima da parte del padre o dei fratelli, poi del marito e se diventava vedova di nuovo del padre. Con l’entrata in vigore delle nuove leggi, purtroppo, ancora in molte situazioni non mutava l’idea di superiorità dell’uomo. E se questa viene meno, come detto, l’uomo va in crisi. Ma tutto è indissolubilmente legato alla cultura e non alla biologia. Dopo anni, dove le donne hanno dovuto reprimere o sublimare è chiaro che esse sono diventate meno violente. La violenza esce fuori se non viene sublimata l’aggressività ma gli uomini, storicamente, sono stati abituati a scaricare fuori la propria violenza. Jung, maestro della psicanalisi, diceva che l’essere umano è il risultato di stratificazioni che l’ha formato: se scaviamo sotto l’uomo moderno troviamo l’uomo romantico dell’ ‘800, se scaviamo sotto questo troviamo l’illuminista del 700, poi il rinascimentale, il medievale… e così via. L’uomo si porta dietro radici storiche e si deve lavorare su queste.

Nelle storie raccontate dalla Maraini ci sono molti dettagli che aiutano a capire il pensiero delle vittime, dei carnefici e di coloro che cercano di aiutare le donne stesse ad effettuare le denunce di queste violenze. Quest’ultima prospettiva è interessante: statistiche alla mano ben il 90% delle donne non denunciano le violenze subite e le ragioni sono molte. Primo di ordine pratico: se non hanno di che vivere autonomamente, restano senza sostegno economico. Alcune non lo fanno per presunzione: credono di poter cambiare con il loro amore l’uomo che fa loro violenza, cosa sbagliatissima perché non si torna indietro da una spirale di questo genere. Altre hanno introiettata dentro una cultura che le fa sentire inadeguate, provoca loro paure, sensi di colpa che nascono proprio dal fatto di essere aggredite. Quest’ultima caratteristica è specifica anche dei bambini. Molti di loro non denunciano le violenze perché si sentono in colpa verso chi li stupra, oltre che succubi.

Nel racconto “La sposa segreta” assistiamo ad una violenza che avviene non in situazione di brutalità o ignoranza, ma con raffinata e sofisticata preparazione. L’uomo si insinua nel letto della prima bambina seducendola e non violentandola, illudendola e non picchiandola. La storia va avanti per alcuni anni – senza che nessuno si sia accorto di niente, nemmeno la madre – fino a quando l’uomo non decide di fare la stessa cosa anche con la seconda bambina. Crescendo, e una volta scoperto tutto, le due ragazze saranno rovinate per sempre perché lo stupro è devastazione, non è più possibile riprendersi perché la prima conseguenza a livello psicologico è la disistima di sé. Esse finiscono per diventare ninfomani, per buttare via quello che resta del loro essere.

Un’idea che imperversa in alcuni romanzi recenti è che siano proprio le donne ad amare e ad avere piacere di provare dolore, scegliendosi il proprio carnefice, ritenendolo un atto di emancipazione. Sembra impossibile che si possa pensare a questo come ad una verità. Nei casi di violenza c’è sempre una coercizione interiore profonda, non si riesce più a distinguere il bene dal male e la così detta “schiava” non si libera più dalla schiavitù. Si tratta solo di un’illusione quella di pensare di poter scegliere il proprio carnefice per essere torturate. Né si pensi possibile credere che una donna violentata possa comunque essere consenziente o provare piacere durante l’amplesso.

Nel racconto, “Lo stupratore premuroso”, un uomo, con la divisa di ferroviere si offre di accompagnare una ragazza che ha perso il treno alla prossima stazione per raggiungere il marito. Durante il viaggio imbocca deserte strade di campagna e, fermata la macchina, violenta la giovane minacciandola con una pistola. Alla fine del suo “raptus” fa risalire la donna e l’accompagna tranquillamente a destinazione dicendole di non preoccuparsi che in fondo, egli pensava, era piaciuto anche a lei perché alle donne piace essere violentate.

Una cosa fondamentale da dire intorno a questo tema riguarda il fatto che non siamo solo di fronte a situazioni poco denunciate dalle donne che le subiscono, ma anche che non ci siano molti uomini a parlarne. Il loro è come un silenzio assordante sul problema, è come se pensassero di andare contro il loro genere e questo diventa complicità. Lo stesso vale per il silenzio di quelle donne che non avendo subito una violenza propria pensano che il problema non le riguardi. Bisogna capire che invece la faccenda riguarda maledettamente tutti. Il nemico non è solo quello che si fa vedere, è quello che sta in mezzo in noi: va individuato, stanato, denunciato.

My little princess, con Isabelle Huppert

Ancora, resta da capire cosa sia, comunque, possibile trasmettere alle generazioni del futuro, quali consapevolezze lasciare ai giovani, in merito alle differenze e uguaglianze di genere per un possibile equilibrio, nel rispetto l’uno dell’altro. Certo l’influenza che arriva dai mass-media è pessima. Si pensi alle miriadi di concorsi e concorsini di bellezza, anche attinenti a parti del corpo come miss “culetto d’oro” o “miss maglietta bagnata” senza contare la ricerca di talenti basati solo su attributi fisici, su canoni imposti. Ecco questa è la partenza più sbagliata che ci possa essere per trovare quest’equilibrio basato sul rispetto. E la cosa più grave è che spesso la partecipazione a questi concorsi è accompagnata dal supporto dei genitori che accompagnano, seguono le ragazze, le spingono in quella direzione, diventano i loro manager. A questo proposito il racconto, “La bambina Venezia”, parte proprio da questo punto di vista peculiare del genitore che idolatra la figlioletta facendone anzitempo una star e diventano causa, suo malgrado, della sua morte per stupro da parte di un vicino di casa. Il padre accompagna la figlia, la scopre, la riveste, non permette che nessuno la tocchi ma la fa vedere appetibile… Rappresentazioni di questo genere, alle quali assistiamo in film, in TV, in pubblicità varie propongono l’immagine di un corpo che viene umiliato, mutilato, manipolato. Un corpo fatto di nulla, un involucro. Da questo corpo viene tolto tutto ciò che crea la sua complessità, viene svuotato a mero contenitore apparentemente desiderabile. Lì, spesso, in quelle sedi dove si fabbricano corpi di questo genere, si insinua anche la cultura del mercato e tutto diventa vendibile e comprabile anche i corpi appena pronunciati di piccole dee del sesso.

Le proposte da fare sarebbero quelle di modelli vincenti non per l’esteriorità ma per il contenuto, non per l’involucro vuoto ma per la loro complessità, non per un apparente richiamo di fascino, ricchezza e successo ma per la semplicità dell’animo, il valore dei sentimenti, il desiderio di un mondo migliore. Ma, anche questo, è difficile da conquistare. Perché l’amore insano che attrae le persone migliori è purtroppo subdolo e si serve di loro per i propri reconditi e sporchi scopi e, spesso, non arriva da mondi di degrado culturale. Il racconto finale del libro, “Anna e il Moro”, è in questo senso esemplare. La storia ricalca la vicenda della figlia dell’attore Jean Louis Trintignan – uscita su tutti i reportage cronachistici – nella quale, una giovane attrice si innamora di un cantante di successo, molto più grande di lei, che non ha nulla di umano. Il padre contrario a questa relazione deve cedere per non perdere la figlia e, quando ella si allontana dalla città per i concerti del marito, stranamente riceve sempre telefonate dagli ospedali del luogo dell’esibizione, dove la figlia è ricoverata per fratture di vario genere. Ignaro e lontano dalla verità, se pur con qualche sospetto, riceverà l’ultima telefonata dal letto di morte della ragazza, ad Helsinky, uccisa a calci e pugni dalla brutalità dell’uomo che sfogava su di lei le ansie delle proprie prestazioni.

Che dire? Dal 1860 ad oggi ogni due o tre anni in Italia, un parlamentare ha portato un progetto di legge per l’educazione sessuale e sentimentale nelle scuole. Progetto che non ha mai trovato una completa o soddisfacente attuazione. Non c’è dunque una legge di stato che disponga in questo senso e, a parte casi isolati, di questo ancora poco si parla nelle scuole e nelle famiglie. Vincere questa battaglia non è cosa da poco. Auspichiamo solo che i recentissimi indirizzi dell’ONU in merito alla condanna e alla pena per le terribili violenze sulle donne effettuate da culture altre, possano estendersi alla condanna e alla pena delle violenze quotidiane che molte donne sono costrette a subire in nome dell’amore, ma che rientrano soltanto nella casistica de “L’amore rubato”, come indicato nel titolo dell’ultimo libro di Dacia Maraini.

INTERVISTA A DACIA MARAINI

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Buongiorno, gentilissima Dacia, sono Cinzia Demi e come da nostri accordi, le formulerò le domande relative al suo libro “L’amore rubato”, alle quali ha promesso di rispondermi.

Ero presente alla presentazione del suo libro giovedì 29 novembre 2013 alla Libreria Ambasciatori di Bologna e questo è quello che avrei voluto chiederle, se ci fosse stato tempo:

D- Alla domanda della relatrice A. M. Tagliavini sul fatto che la violenza maschile derivi da una dimensione di fragilità degli uomini dovuta ad una reazione “all’abbandono” in generale, o in particolare della donna “amata”, lei ha risposto principalmente che non si tratta – parlando di violenza – di una violenza di genere, ma di violenza di una cultura rispetto ad un’altra. Mi può spiegare questo concetto?

R – Si tratta di una violenza di genere, ma non di origine naturale o genetica. Gli esseri umani sono dotati di aggressività, tutti, sia maschi che femmine. Solo che storicamente, in un mondo androcentrico, gli uomini sono stati educati a proiettare la propria aggressività sul nemico, sul rivale, sul mondo altro da sé. Le donne invece sono state educate a reprimere i propri istinti aggressivi, a farsi arrendevoli e accudenti. In una società centrata sul potere maschile alle donne
è sempre stato assegnato il compito della cura dei piccoli della specie, la cura degli anziani, la cura dei malati. Per questi compiti considerati servili, non era necessaria, anzi era pericolosa non solo ogni espressione di aggressività ma perfino ogni forma di asservità e di autonomia. Il controllo della femmina da parte del maschio ha identificato la nostra cultura dei Padri.

In questo modo si formano le competenze specifiche dei generi, non per natura, ma per storia e cultura. Spero di essere stata chiara.

D – Sempre parlando di dimensione culturale della violenza, lei nel suo libro ha affrontato soltanto storie – riprese da tristemente noti fatti di cronaca – della nostra cultura occidentale. Purtroppo però, vivendo ormai in una società multietnica, la cronaca italiana è piena anche di fatti di violenza sulle donna che riguardano culture altre. Perché non ha affrontato nessuno di questi casi? Mi riferisco, come avrà ben capito, a violenze che partono dall’infibulazione, alla lapidazione, per arrivare all’omicidio di figlie che non pensano di adeguarsi ai precetti religiosi che le vogliono schiave dell’altro sesso, padrone del loro destino… e così via. Pensa che ci sarebbe potuta rientrare, in quella serie di racconti, anche una storia che raccontasse un esempio sulla vita di queste donne?

R – Ho scelto, scrivendo questo libro, di tenermi alla violenza più vicina, più conosciuta, quella che quasi sempre si esprime addirittura all’interno della famiglia. Ma sono d’accordo con lei che ormai dobbiamo fare i conti con una cultura globalizzata e che spesso il destino delle donne di altre culture e altre religioni ci riguardano da vicino. Ma il mio libro non aveva ambizioni totalizzanti, voleva solo raccontare la storia di alcune storie tutte italiane. Un’altra volta tratterò anche l’aspetto nuovo della violenza di importazione.

D – Ho apprezzato molto il suo genere stilistico narrativo, che per altro conoscevo avendo letto anche altri suoi libri – memorabile, per me, la storia di “Marianna Ucrìa” (Premio Campiello nel 1990 ). Non ho letto le sue poesie. Pensa che il tema della violenza alle donne, dell’Amore rubato, possa essere affrontato usando anche questa forma stilistica che, nella sua sinteticità, è capace di utilizzare il linguaggio espressivo al meglio, forse, della sua estensione anche narrativa?

R – Certo la violenza può essere raccontata benissimo anche con la poesia. Una poetessa americana, Sylvia Plath, l’ha fatto con grande coraggio e chiarezza. Anche la nostra Alda Merini l’ha fatto e con molta efficacia. Quindi la mia risposta è sì. Solo che io mi considero più una narratrice che una poetessa. E quindi mi esprimo meglio con i racconti. Ma niente impedirebbe a chi ha un talento poetico, di raccontare la violenza contro le donne.

Bene, gentilissima Dacia, non volendo disturbarla oltre, la ringrazio davvero per la sua cortese disponibilità e la saluto caramente, in attesa del suo prossimo lavoro.

A fare da chiosa al mio scritto, e prendendo spunto dall’ultima risposta della Maraini, propongo una poesia presa dal mio libro “Al di là dello specchio fatato. Fiabe in poesia” (Albatros) – che mette in versi alcuni dei momenti più significativi delle più belle fiabe di tutti i tempi – laddove, come sappiamo, sotto le spoglie della fiaba di Cappuccetto Rosso si nascondono le insidie del lupo cattivo – metafora proprio dell’adescatore, dello stupratore, del pedofilo, pensata anche da Perrault – che io ho raccontato così:

Cappuccetto rosso

perché quel mantello rosso
perché proprio nel bosco
e perché quel lupo ti attirò
t’incantò col suo fare
col suo dire così losco

non bastarono
della mamma i consigli
i sospiri della nonna
i forti battiti del cuore
a fermare l’ardore

stregata dai suoi occhi
da tutto quel calore
dall’odore selvatico
il viatico iniziasti
della più nera perdizione

maledizione alla morale
– mi piace, non può far male –
pensasti ormai rapita
non è questa la vita
non è forse un’occasione

eri già tra le sue braccia
o zampe dovrei dire
tra le sue fauci finita
addormentata per sempre
in un boccone scordata

ti trovò il cacciatore
bianca accovacciata
nel lenzuolo di seta
di rosso solo un lembo
fra le cosce e il pianto fermo

Cinzia Demi

LINK INTERNO SULLO STESSO TEMA:
“E’ la mia donna: sessismo e violenza di genere”. Intervista alla giornalista e saggista Chiara Valentini.

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Cinzia Demi
Cinzia Demi (Piombino - LI), lavora e vive a Bologna, dove ha conseguito la Laurea Magistrale in Italianistica. E’ operatrice culturale, poeta, scrittrice e saggista. Dirige insieme a Giancarlo Pontiggia la Collana di poesia under 40 Kleide per le Edizioni Minerva (Bologna). Cura per Altritaliani la rubrica “Missione poesia”. Tra le pubblicazioni: Incontriamoci all’Inferno. Parodia di fatti e personaggi della Divina Commedia di Dante Alighieri (Pendragon, 2007); Il tratto che ci unisce (Prova d’Autore, 2009); Incontri e Incantamenti (Raffaelli, 2012); Ero Maddalena e Maria e Gabriele. L’accoglienza delle madri (Puntoacapo , 2013 e 2015); Nel nome del mare (Carteggi Letterari, 2017). Ha curato diverse antologie, tra cui “Ritratti di Poeta” con oltre ottanta articoli di saggistica sulla poesia contemporanea (Puntooacapo, 2019). Suoi testi sono stati tradotti in inglese, rumeno, francese. E’ caporedattore della Rivista Trimestale Menabò (Terra d’Ulivi Edizioni). Tra gli artisti con cui ha lavorato figurano: Raoul Grassilli, Ivano Marescotti, Diego Bragonzi Bignami, Daniele Marchesini. E’ curatrice di eventi culturali, il più noto è “Un thè con la poesia”, ciclo di incontri con autori di poesia contemporanea, presso il Grand Hotel Majestic di Bologna.

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