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La distruzione degli Ebrei d’Europa, la Shoa, è la frattura insanabile della nostra storia, l’evento inimmaginabile eppure accaduto su cui non si rifletterà mai abbastanza, che non sarà mai «troppo» ricordare.

Da un lato perché, nonostante racconti, analisi, commemorazioni, la portata sconvolgente di questa catastrofe non è ancora stata misurata in tutta la sua profondità : chi e come siamo noi, tutti in modo diverso figli dei superstiti, se non del vuoto stesso, dell’assenza ? Come e cosa sarebbe stata l’Europa, e l’intero mondo Occidentale, se quello straordinario patrimonio umano, culturale, artistico che furono gli Ebrei d’Europa non fosse, letteralmente – non effetto di stile, questo, ma verità che sgomenta – finito in fumo ?

Dall’altro lato, poi, perché, come in un paziente scavo archeologico, il lavoro degli storici, dei documentaristi, dei testimoni, continua a riportare alla luce storie e accadimenti di cui s’era persa memoria, con questo andando al cuore del progetto genocidario : il quale, sempre, mira a distruggere non solo gli umani – e prima di tutto e tutti le donne e i bambini, che rinnovano e trasmettono la vita –, ma anche le tracce di quella distruzione, come se quelle donne, quei bambini, quegli uomini non fossero mai esistiti.

Rebecca Samonà dissotterra proprio una di queste memorie nascoste, raccontando la storia – che in parte coincide con quella della sua famiglia – degli Ebrei di Rodi, l’isola delle Rose, la terra felice situata ai margini orientali del Mediterraneo che gli antichi Greci vollero figlia del dio Sole e di una ninfa oceanina : qui essi prosperarono per secoli, al centro di una pacifica società multietnica e multiculturale ; qui furono annientati nello spazio di ventiquattr’ore, fra il 18 e il 19 luglio del 1944, quando i Tedeschi che occupavano l’isola li radunarono per deportarli. Ad Auschwitz.

Il lavoro di Rebecca, cioè un film : “L’isola delle rose”, appunto (clicca su questo link); e la cosa migliore ovviamente è di visionarlo tutto, il che, per evidenti ragioni di diritti della casa di distribuzione, non è possibile fare su questo sito – è possibile però vederne i primi dieci minuti, e alcune foto, e insieme leggere alcune interessanti pagine della regista, che fra altre cose aiutano a capire come quelle vicende tragiche furono possibili anche con la complicità del fascismo italiano (l’isola infatti « apparteneva » all’Italia sin dal 1912).

Oltre le sue parole, e quelle finemente già dette da altri, vorrei solo aggiungere uno spunto di riflessione su un aspetto di questa storia che – mi sembra – è rimasto, almeno parzialmente, poco analizzato : il Mediterraneo afro-orientale, e levantino, parla molto arabo, è ovvio, e greco, e turco… Ha parlato anche, ed è storicamente fondamentale per capire quel che siamo oggi, giudeo, che fosse il giudeo-arabo degli Ebrei del Maghreb e Mizra’him, o appunto il giudeo-spagnolo della diaspora sefardita attraverso le contrade dell’Impero Ottomano.

Quanto al film in quanto film, mi sento da quando l’ho visto, come avvolto in una sorta di attonito, sgomento pudore, e non riesco a dir altro che questo : mi è sembrato di una struggente delicatezza (non riesco, per questa storia, a parlar di bellezza) – nulla si vede, o si presente della fine (forse, solo una immagine dell’hammam, innocente e spaventosamente evocatrice, un forno alimentato dalle fiamme); questa, esiste solo nelle parole dei superstiti (una su tutte, ed è agghiacciante anche solamente scriverla : Auschwitz), o dei testimoni, soprattutto donne, e prende tanto più forza, e disperazione, désarroi, sullo sfondo di quel contesto paradisiaco. Sembra impossibile, impossibile che sia successo.

Arabis

[n.d.r.]In occasione della Giornata della Memoria, per ricordare anche noi la Shoa, vi riproponiamo questa riflessione pubblicata agli albori del sito nel 2009 e il racconto troppo poco conosciuto della tragedia degli Ebrei di Rodi, allora terra italiana.

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Giuseppe A. Samonà
Giuseppe A. Samonà, dottorato in storia delle religioni, ha pubblicato studi sul Vicino Oriente antico e sull’America indiana al tempo della Conquista. 'Quelle cose scomparse, parole' (Ilisso, 2004, con postfazione di Filippo La Porta) è la sua prima opera di narrativa. Fa parte de 'La terra della prosa', antologia di narratori italiani degli anni Zero a cura di Andrea Cortellessa (L’Orma 2014). 'I fannulloni nella valle fertile', di Albert Cossery, è la sua ultima traduzione dal francese (Einaudi 2016, con un saggio introduttivo). È stato cofondatore di Altritaliani, ed è codirettore della rivista transculturale 'ViceVersa'. Ha vissuto e insegnato a Roma, New York, Montréal e Parigi, dove vive e insegna attualmente. Non ha mai vissuto a Buenos Aires, né a Montevideo – ma sogna un giorno di poterlo fare.

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